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Il sogno dell’automobilista – parte 1 di 4

da | 11 Mar, 25 | Narrativa |

Più a fondo schiacciavo il pedale, sull’autostrada deserta, più veloci sparivano sotto le ruote, l’uno dopo l’altro, i segmenti del nastro bianco inghiottito dal muso della macchina, che correva allegramente nella notte al centro della carreggiata. Lasciavo cadere, con l’azzardo di un bambino, sillabe volanti negli spazi intermedi tra due strisce, ma l’istante in cui dicevo “ecco”, dicevo “qui”, veniva travolto dal sopraggiungere di una nuova striscia, che vanificava ogni volta il gioco. Vedevo precipitare verso di me, dal fondo della strada, velocissima, la doppia fila di rettangoli verniciati, che si curvavano, si dilatavano, poi scivolavano sotto i parafanghi, per fluire a ritroso nello specchietto retrovisore, staccandosi e ricomponendosi nel loro serpentone di luce.

E se accadesse, fantasticai, che il segmento bianco seguito dai miei occhi, a cinquanta metri da quello che ora mi scorre via sotto le ruote nel preciso momento in cui dico “ora”, non fosse solo un rettangolo di vernice ma un corpo solido, di pietra o di acciaio, un cippo di marmo, un ramo di platano caduto di traverso o il parafango rotolante di un autotreno? Questa bizzarra idea non giungerebbe alla fine della sua formulazione se, diabolicamente, corrispondesse alla realtà. Il mio pensiero si ridurrebbe al crepitio di un nervo tremante nella matassa di fili elettrici, tendini e cartilagini irrorati di benzina sul punto di esplodere. Se ora, pensai, ho terminato di immaginare questo, vuol dire che il segmento bianco prescelto dal mio sguardo un attimo fa, a cinquanta metri dalle ruote, non era altro, davvero, da quello che sembrava, un rettangolo di vernice uguale alle migliaia nel nastro bianco, interminabile.

Più a fondo schiacciavo il pedale, più lucidamente capivo che mi era proibito il naturale piacere, nell’ebbrezza della corsa, di chiudere gli occhi. Il vento fischiava ai lati della vettura, si infrangeva contro il parabrezza, filtrava dalle aperture dei finestrini abbassati. Due ali di vento rombavano a lato delle mie tempie, ed un enorme vuoto d’aria, laggiù, oltre il cerchio di luce degli anabbaglianti, sembrava risucchiarmi, facendo tintinnare le chiavi pendenti dal cruscotto e tremare il sedile che mi sorreggeva. Ero costretto a tenere gli occhi aperti e ad assistere, immobile e passivo, a tutto ciò che la voragine lontana fiondava contro di me: cerchi di luce sdoppiati in trecce di anelli, pannelli rifrangenti segnati di numeri e nomi, carogne di gatti rivoltati e uccelli abbattuti come angeli ai bordi della carreggiata. Tuffato nella notte e nell’urlo quasi umano di un vento saturo dei primi aromi di aprile, la voragine verso cui ero catapultato mi scaraventava contro fari saettanti come proiettili e indecifrabili schegge di meteoriti, tronchi biancheggianti di betulle, finestre illuminate di casolari, sciami di moscerini accecati dagli anabbaglianti. Ero il bersaglio di una pioggia di forme vaganti nello spazio, che piombavano su di me, annunciate da un sibilo fulmineo o da un lampo di luce screziata, e scivolavano ai lati senza colpirmi, sparendo come ali di pipistrello.

Il tachimetro segnava centoquaranta. Ero immobile e non potevo chiudere gli occhi. Eppure immaginavo di addormentarmi per qualche secondo, solo qualche secondo. O fermarmi a decifrare il formicolio di luci che brillavano debolmente ai piedi di una collina di tufo, in mezzo a una fila di tralicci più alti di quanto avessi mai visto prima. Ma il mio piede destro premeva l’acceleratore come un’appendice del corpo dotato di vita propria. Cercavo qualche ragione che gli impedisse di scagliarmi così liberamente nella notte, verso la nuvola di cui scorgevo solo i bordi accesi da una luna retrostante, sopra i segmenti bianchi, la fuga dei guardrail, le carogne piallate: eppure non ne trovai nessuna. Affondavo nella mia immobilità di pilota, accolto dal soffice sedile della macchina, e non mi sentivo diverso da quel bagliore tranquillo di luna che mi seguiva sui profili neri delle colline, fra un fiocco e l’altro di nuvola.

Una farfalla notturna sbucò dal turbinio di fluorescenze che mi ruotava dinanzi e si trasformò in un grumo di sangue tremolante sotto il tergicristallo. Folate di moscerini si erano già stampate sul parabrezza e minuscole ali appena visibili palpitavano a lungo nel vento. Schiacciai più a fondo il pedale, moltiplicando ad ogni affondo di acceleratore il tempestio di insetti e lucciole contro il vetro. Sull’angolo del parabrezza apparve poi, come stampato dalla notte, il granello di luce di una stella, vivida e chiara tra i riverberi delle metropoli lontane. Restò sospesa sulla mia visuale, mentre continuavo a precipitare verso il fondo della strada, sempre più buio, oltre il ventaglio degli anabbaglianti. La stella fu spenta poi da una galleria, tra pareti che grondavano luce scialba e umida ai due lati, e riapparve subito dopo, scivolata un po’ più a lato del quadro. Io invece ero sempre lì, immobile, incassato nel mio sedile e nel rombo del vento, aspirato da un vortice di tenebre che non immaginavo quando e come mi avrebbe alla fine raccolto.

Incrociai un pannello che segnalava la possibilità di colpi di vento. Viaggiavo in piena campagna, tra i dorsi neri delle colline che ondulavano l’orizzonte e filari di luci tremolanti, lungo invisibili sentieri, oltre le macchie dei boschi. Il balenio delle immagini, filtrato dal vapore dei vetri, giungeva frastagliato e come inumidito tra le mie ciglia socchiuse dal sonno. Le cifre fluorescenti del tachimetro, che segnava centocinquanta, vibravano e si sdoppiavano in collane di numeri fluttuanti, mentre il mio piede pesava come un macigno sul pedale dell’acceleratore e il vento fragoroso, fresco di umida notte, sibilava sulla mia nuca dallo spiraglio del finestrino. Provai per gioco a cancellare la fuga di una decina di segmenti consecutivi bianchi, chiudendo gli occhi, e mi ritrovai poi, senza che nulla accadesse, sulla strada di prima, accompagnato dalla medesima falce di luna da poco apparsa sui dorsi delle colline. Allora affondai quanto potevo il piede sul pedale e, raddoppiando la posta, riprovai a stringere le palpebre contando i secondi che corrispondevano al percorso di venti segmenti. Ebbi modo di pensare, nell’interminabile tempo concesso al mio azzardo: “apri gli occhi, stai esagerando, potrebbe già essere tardi”. Mi parve di avvertire un leggero tremito nella carrozzeria.  Poi, davanti a me, a duecento metri, alla fine di un’ampia curva in dolce discesa, apparve l’imbocco di una galleria, e lo infilai senza frenare, beffandomi della sua scarsa illuminazione e del cartello che obbligava a rallentare.

Uscii dalla galleria e fu, allora, come se una muraglia di vento si fosse proprio in quel momento sollevata da terra, come un piano inclinato verso l’alto, a deviare la mia corsa.  Mi sentii spostato da una folata seguita da un potente ruggito che si abbatté sulla fiancata della macchina e mi costrinse a ruotare lo sterzo di colpo per rimanere dentro la corsia. Per qualche attimo, la fila dei catarifrangenti sul guardrail, trasformatasi in un velocissimo nastro rosso brace, passò fischiando a lato dello sportello.  Riuscii a rimettermi in carreggiata e incrociai altri due pannelli che mi invitavano a prevenire i colpi di vento.

Sarebbe stato opportuno rallentare, ma sentivo di aver bisogno di un motivo valido, imperioso e convincente, per staccare il mio piede irrigidito dal pedale dell’acceleratore. Affondavo nel boato morbido del vento e le vibrazioni del motore ormai salivano e fluivano fino ai muscoli delle gambe, tese fino allo spasimo. Falene enormi come cavallette si schiantavano contro il parabrezza, la gomma dei pneumatici sobbalzava su gobbe di cani randagi putrefatti, e non c’era veramente ragione di frenare l’ebbrezza di questa andatura, che mi lasciava assoluto padrone, tra volante e sedile, del mio solido abitacolo.

Poi le ruote cominciarono a emettere un cigolio insolito, come se un altro piede si fosse sovrapposto al mio per premere il freno. La macchina continuava a procedere alla stessa velocità, strattonata dal muro di vento che sovrastava ormai il fragore del motore spinto al massimo, nè io avevo alcun desiderio di allentare la pressione sull’acceleratore e smorzare il l’ondeggiante ruggito che mi cullava. Tuttavia avevo la sensazione che gli pneumatici non rotolassero più sull’asfalto, ma slittassero per lunghi tratti con uno stridio acutissimo. Controllai ancora il pedale e poi il freno a mano. Cercai nello specchietto le scie nere che solitamente accompagnano le brusche frenate. Tutto appariva in ordine. Eppure il fischio degli pneumatici ora saliva insostenibile sul rombo del motore, e a un tratto fui sicuro di correre su ruote che non rotolavano più, ma scivolavano come su un asfalto velato di sapone, indipendenti da me e dalla mia capacità di controllarle.

La falce della luna era scomparsa dietro i vetri, sopra la macchia buia della campagna, quando sorpassai un’utilitaria che pareva quasi ferma alla mia destra e nella quale non riuscii a distinguere la sagoma del conducente. I fari che mi seguivano nello specchietto si allontanarono più rapidamente di quanto mi aspettassi, diventarono due puntolini gialli, poi una curva li cancellò definitivamente, e in quel momento ebbi la sensazione di aver incrociato l’ultima vettura in viaggio per quella notte.

Ora la strada era un interminabile pista a tre corsie, completamente deserta, così perfettamente rettilinea da produrre l’effetto ottico di una leggera curvatura all’orizzonte, verso il fondo buio, incalzato dall’alone dei miei abbaglianti. Il volante vibrava fra le mie mani mentre mi chiedevo, fissando il fondo della strada, se il miraggio di quell’oscurità totale, dove la lunga teoria dei segmenti bianchi andava a morire, non nascondesse la scarpata nella quale la mia corsa solitaria sarebbe andata a schiantarsi. A tratti, invece, mi sembrava di scivolare lungo un circuito in discesa, tendente ad arrotolarsi chilometro dopo chilometro su sé stesso, per tornare al punto di partenza lungo la superficie sferica della Terra: avrei forse continuato a rovinare lungo questo piano inclinato finché non mi sarei trovato a testa in giù, con la bocca della luna piena proprio sotto di me, a risucchiarmi. La mia gamba tesa contro l’acceleratore, era la stampella rigida su cui mi impuntavo per non cadere a faccia in giù sul parabrezza. La testa sembrava rintronarmi di mille urlii di animali persi nella campagna, lupi o iene o civette dagli occhi tondi come fari, confusi al tintinnio delle chiavi, al fremito della carrozzeria, al fischio delle ruote e agli spasimi del motore portato ormai al limite del surriscaldamento, e a un probabile collasso.

Eppure ero fiducioso. Non mi sarebbe accaduto nulla. Non accade nulla a chi sogna il pericolo, il tracollo, lo spazio dilaniato, e io potevo ancora dubitare di essere sveglio e decidere eventualmente se prolungare il rischio e l’avventura, come un gioco che ti prende e non vuoi mollare, o allentare la pressione del pedale che mi spingeva verso il delirio di una fine forse, chi poteva saperlo, reale. Che cosa avrei perduto in questo caso, quali passioni e quali ricordi, io continuavo a chiedermelo, stringendo il cerchio del volante che tendeva a scivolarmi per il sudore. Se anche i miei occhi, in quel momento, fossero stati davvero aperti sulla notte, e quei pannelli fluorescenti che sfilavano l’uno dopo l’altro ai miei lati, sparendo come meteore, non fossero solo immagini orchestrate nel sipario chiuso delle mie palpebre, ci sarebbe pur voluta una ragione per frenare di fronte al vuoto, un istante prima dello schianto finale. Non ne trovavo. Stavo ritornando verso una luce, una casa, l’abbraccio di una donna. Ma più a fondo schiacciavo il pedale, più chilometri la notte interponeva tra me e il chiarore di una lanterna pendente su di un giardino, tra me e l’oasi di luce della mia incomprensibile vita.

Il sogno dell’automobilista – parte 2 di 4

Il sogno dell’automobilista – parte 3 di 4

Il sogno dell’automobilista – parte 4 di 4

Autore: Roberto Caracci

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