D’improvviso il fischio degli pneumatici si smorzò. Le tre linee bianche della carreggiata presero a stringersi l’una verso l’altra, a convergere, sparendo tra le ruote della macchina come in un imbuto. Le chiavi tintinnarono più forte e i dépliant poggiati sul cruscotto caddero ai miei piedi. Il vento cominciò a rombare con un suono diverso, più omogeneo e ovattato. Restai aggrappato saldamente al volante, perché mi sembrava che qualcosa tendesse a sbalzarmi fuori dal sedile. Vidi nello specchietto retrovisore fluire quelle stesse strisce bianche che davanti a me, oltre il vetro del parabrezza, il muso della macchina inghiottiva e cancellava. Provai a sterzare e mi accorsi che effettivamente la macchina si inclinava sulla destra, costringendomi a reggermi con un braccio alla cintura di sicurezza per non scivolare su di un lato. Raddrizzai immediatamente il volante dalla parte opposta e in quel momento vidi la ruota destra della macchina girare a vuoto, con una strana lentezza, contro una plaga nerissima di cielo. Non udivo più neanche il rollio del motore. Tutto era stato spento di colpo come da un soffio potente che avvolgeva la vettura e la incapsulava in una bolla d’aria, oltre la quale ogni stridore ed ogni tonfo si ammorbidivano. Rimaneva un brusio di fronde agitate, il sibilo di una sorda, sconfinata brezza.
Lasciai d’istinto l’acceleratore e affondai il piede nel pedale del freno, ma a vuoto. La vettura non perse la sua velocità, e a un tratto parve precipitare in una voragine improvvisa, ma solo per assestarsi, come presto capii, sopra un enorme e plastico cuscino, il vento sul quale ormai galleggiavo. Credetti allora di vedere, in questo inarrestabile tuffo nel vuoto, la scarpata immaginata oltre il fondo della strada, il baratro o l’abissale imbuto di roccia che avrebbero cancellato ogni traccia dei miei pensieri. Ma mi sbagliavo, perché lo schianto tardava a venire, e potevo ancora crogiolarmi nella disperata idea che le mie palpebre fossero chiuse e che oltre il muro di vento che mi fasciava i timpani ci fosse la mano di mia moglie, dalle dita leggermente contratte sul bianco del lenzuolo. Nello specchietto riconobbi per un attimo i miei occhi castani, aperti ma stranamente sereni, che mi fissavano con un certo stupore, come a chiedermi che cosa desiderassi da loro.
Potevo ancora girare il volante e vedere la macchina, alta sull’autostrada, inclinarsi a destra o a sinistra; potevo controllare la velocità, spingendo più o meno a fondo l’acceleratore o godendo di una perfetta inerzia da gabbiano a picco sulla schiuma delle onde, se ritiravo il piede. Ma ciò che non mi era consentito era frenare, o tentare di ridiscendere e atterrare dolcemente verso quella carreggiata a tre corsie che correva sotto di me, vuota e luminosa, a qualche decina di metri. Del resto, mi pareva di non desiderarlo. Ero travolto da un gioco, come un bambino su un’altalena schiodata, e mi sottomettevo alle sue regole bizzarre ma fidate. Tanto valeva lasciarsi trascinare, dato che io non contavo più, nè con la mia volontà, nè con la libertà dei miei desideri. I brividi gelati sulla pelle, mentre sfioravo tralicci e lampioni, o vedevo falene e pipistrelli colare sangue sui vetri del parabrezza, potevano essere di terrore ma anche di vertigine, di delirio, uniti a una sorta di languore, ad una stanca ebbrezza. Era nella facoltà del vento sostenermi o sbriciolarmi fra le sue dita come un moscerino. Tanto valeva lasciarmi cullare dalla fuga senza senso nella mia alata tomba d’aria.
Mi stupivo di non tremare al terrore di un rovescio di vento o di un leggero cedimento che avrebbero potuto riconsegnarmi alla forza di gravità e al precipizio dell’asfalto sottostante, in una caduta a piombo. Ero convinto che finché avessi continuato a schiacciare il pedale lanciando la macchina nei varchi infiniti del vento, dinanzi a me, il cuscino d’aria mi avrebbe sostenuto senza tradirmi. Se allentavo la pressione del piede, infatti, mi sembrava di affondare in un vuoto d’aria brusco, dove il lungo sciame dei catarifrangenti del guardrail mi scorreva a un passo dal volto. Dovevo proseguire così, diretto a una velocità costante verso il fondo buio della strada, dove ogni profilo d’ombra era solo un miraggio e lo spazio pareva schiudersi inesauribile. Solo da quel pozzo di buio sarebbe potuto venire a galla qualcosa per me, qualcosa di nuovo o forse di già visto infinite volte, l’evento che avrebbe spento nella catastrofe o nel risveglio di un senso qualunque la mia ormai incontrollabile corsa. Ero tentato di abbandonarmi definitivamente, di rilassare i muscoli delle braccia tese contro il volante e sciogliere gli ultimi grumi d’ansia, di chiudere gli occhi se non erano ancora chiusi, rigettandomi all’indietro sul sedile cigolante. E poi lasciarmi passare dinanzi, come su uno schermo nella notte, la cangiante folla di immagini che il mugolio del vento ora spingeva e proiettava nel mio cervello.
Mi abbandonavo come un soldato sicuro in un bunker, sotto i bombardamenti, o una scimmia cavia nell’abitacolo di un’astronave: immobile, scagliato nel vuoto alla velocità di un meteorite. Qualsiasi attimo di questo volo d’aquila dalle ali mozzate avrebbe potuto essere quello dello schianto, della fine delle mie immagini. Sarebbe stato già troppo tardi per accorgermi di essere un uomo in pericolo. Dubitavo a questo punto che quanto mi stava accadendo fosse la dilatazione dei due o tre secondi che mi dividevano dalla scarpata. Forse ero uscito fuori strada e il mio non era un volo rettilineo sopra la buia vegetazione della campagna, ma semplicemente un cadere, un piombare in verticale, verso un destino di nuda roccia, una cava di pietrisco e rottami, ben più reali di un misterioso pozzo di tenebre.
Poi il vapore ricoprì tutti i miei vetri e capii di essere penetrato in una nuvola di nebbia. Le luci dell’autostrada retrocessero in un bagliore sempre più grigio e soffocato. I tergicristalli scoprirono, dietro il velo di umidità rimossa, masse di volute bianche setacciate dal vento. Riccioli e globi di nebbia fluttuante si rovesciavano contro il parabrezza e si disfacevano come tuniche di fantasmi. Attorno a me un murmure, uno sgocciolio, la sorda musica di voci sommerse, come se mi sovrastasse una muraglia d’acqua. La luna scintillò per un attimo nello specchietto retrovisore, poi parve annegare anch’essa lasciando filamenti di luce diluita dalle rifrazioni della nebbia. Lasciai il volante e staccai finalmente il piede dall’acceleratore. Non riuscivo neanche più a tenere gli occhi aperti, quelle pareti biancastre di nebbia mi addormentavano. La macchina perse velocità e il cofano si sollevò lentamente davanti a me. Mi ritrovai pressato contro il mio stesso sedile, con le gambe che pian piano perdevano l’appoggio della pedana e cercavano di aggrapparsi allo sterzo. La cintura di sicurezza mi sosteneva, impedendomi di rovesciarmi sui sedili posteriori. Gli squarci che di tanto in tanto si aprivano nel muro di nebbia mi lasciavano intravvedere quelle stelle da cui la vettura si stava allontanando, avendo preso a roteare, a mutare la sua rotta e a precipitare ormai in diagonale verso il basso.
Poi la caduta fu come smorzata e paracadutata da una resistenza soffice, probabilmente la massa potente del vento, che curvò la verticalità della traiettoria lungo la linea di un grande arco nello spazio. Mi ritrovai spinto, con la mia vettura, verso una direzione diversa da quella dettata dalla gravità, ma non capivo esattamente quale. Mi vedevo come rimbalzato mollemente nel vento e risospinto altrove, a lato, sulla scia di una parabola. Tentai di aggrapparmi d’istinto a ciò che trovavo, curvo com’ero oramai sulle mie stesse ginocchia inchiodate al cruscotto. Ero un peso morto, imbottigliato in una automobile dal motore spento, e mi sentivo lanciato da una forza indomabile nella sua inerzia, lontana ormai sia dalla gravità che dall’accelerazione. Respirai di sollievo quando avvertii che qualcosa mi frenava, mi assorbiva, qualcosa di molle e plastico che mi lasciava affondare e mi respingeva, forse un’altra resistenza nell’immenso cuscino del vento. Mi accorsi allora di accelerare verso una nuova rotta, fuori di ogni gravità, scaraventato lontano dal punto precedente da una violenza naturale, quasi dolce, persuasiva. Ebbi allora la certezza di essere proiettato lungo il crinale di un tragitto curvilineo, scalciato da una inerzia dotata di una sua ragione, che mi lasciava decelerare verso un limite, il vertice della parabola, o il porto, oltre il quale non mi era consentito procedere.
A un tratto due fari spuntarono sopra di me nella nebbia e rapidamente si ingrandirono, diventarono due larghi, incandescenti occhi di camion contro i quali non capivo se stavo precipitando o risalendo. Il camion e l’intero nastro d’asfalto della strada mi passarono davanti al viso, a due metri dal finestrino, come rotolati dalle nuvole, e retrocessero poi curvando verso l’alto, dove c’era la campagna che tornava ad allontanarsi e a nascondersi dietro i banchi di nebbia. Cominciai ad accorgermi che, se assecondavo i bruschi mutamenti di rotta della mia macchina, quando si lasciava risucchiare dalla forza contraria alla fine di ogni parabola, potevo evitare di urtare contro vetri e cruscotto e farmi del male, e vivere per giunta la singolare sensazione, mai provata prima, di oscillare e ondeggiare nel vento. Solo da bambino avevo vissuto qualcosa di simile, nel punto più alto, quasi fermo per un attimo nello spazio e nel tempo, a cui saliva il seggiolino dell’altalena scagliata sotto i rami dei salici. Soprattutto, un nuovo senso di tranquillità si impossessava di me, all’accorgermi di danzare ormai nella vertigine di correnti che si incrociavano controbilanciavano l’un l’altra, e fluttuare come una mongolfiera palleggiata fra cielo e terra, incapsulata in un’oasi d’universo neutra e invulnerabile, in una bolla d’aria e nebbia dalla quale non potevo più cadere.
Il sogno dell’automobilista – parte 1 di 4
Il sogno dell’automobilista – parte 3 di 4
Il sogno dell’automobilista – parte 4 di 4
Autore: Roberto Caracci
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