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Il sogno dell’automobilista – parte 3 di 4

da | 11 Mar, 25 | Narrativa |

Una saetta di luce passò radente a pochi centimetri, rigando il buio alla mia sinistra e lasciando un’onda di fragore crescente e poi degradante, che mi svegliò. Poggiavo la testa e le braccia sul cerchio duro del volante. La bocca era schiacciata accanto al claxon. Una mano penzolava sotto il cruscotto, intorpidita dall’inerzia. Mi risollevai lentamente, mentre una station wagon sfrecciava alla mia sinistra, facendo tremare nell’urto del vento la mia macchina.

Stentai a sganciarmi la cintura di sicurezza e a ricompormi. La cravatta mi strangolava e sul viso mi sembrava di avvertire chiazze di bruciore. Mi guardai allo specchio retrovisore: avevo le palpebre pesanti e arrossate di chi ha dormito male, e a lungo. Ciocche di capelli sudate mi ricadevano tra gli occhi. Un filo di bava stagnava fra le labbra. Il viso era gonfio e congestionato, ma non presentava nè tumefazioni nè ferite.

Lentamente, districandomi da quel groviglio di torpore e rigidità, aprii la portiera e uscii dalla vettura. Faticavo anche a reggermi dritto sulle gambe legnose. Mi tenni poggiato alla portiera aperta a causa di un leggero senso di vertigine alla testa, che non mi garantiva per il momento l’equilibrio. I fari della macchina erano accesi e illuminavano un fossato di acqua immobile e fangosa, dietro cui si alzava una folta vegetazione di felci. Sentii il rumore di qualcosa che ricadeva e guizzava nell’acqua. Poi il silenzio fu intaccato solo dal ronzio lontano di un camion che tagliava lentamente la campagna con le sue luci.

Mi trovavo in una piazzola dell’autostrada. Come fossi capitato lì, e perché a un certo punto avessi deciso di parcheggiare la macchina in un luogo così isolato e insolito, in piena notte, davvero non riuscivo a ricordare. Un blocco del motore o la mancanza di benzina avrebbero potuto arrestare la mia vettura in un qualunque punto dell’autostrada, meno comodo di un’area di emergenza. Del resto la macchina non presentava nè forature alle ruote nè ammaccature sulla carrozzeria. Mi ero effettivamente fermato, volontariamente o meno, in piena campagna, ad un’ora impossibile. Mia moglie mi attendeva certamente a casa con un’ansia che, col procedere della notte, avrebbe potuto trasformarsi in angoscia.  Non avevo mai ritardato, tornando dall’azienda, oltre le due di notte. Il mio orologio segnava le quattro, e ormai erano rarissime le colonne di luce che apparivano in fondo alla carreggiata autostradale deserta, per sfiorarmi col loro sibilo e il loro fragore, e poi spegnersi oltre le curve.

Dovevo assolutamente ripartire, sbloccarmi dall’inerzia inspiegabile in cui ero piombato, porre fine a questa sosta ingiustificata.  Forse mi ero accorto del rischio di un colpo di sonno, alla guida, e avevo creduto opportuno accostare. Ma non ricordavo quando nè come questo aveva potuto verificarsi. Solitamente ero padrone di me e della mia lucidità, lungo il percorso abituale che mi separava da casa, ogni sera, e qualche tazza di caffè forte, prima di ripartire, mi aiutava sempre a tenere gli occhi aperti.

Tagliai corto con le ipotesi, e rientrai in macchina per accertarmi immediatamente se il motore funzionasse ancora. Accesi con ansia e udii il motore prima frullare e singhiozzare, poi rombare alla pressione dell’acceleratore.  Respirai di sollievo e riagganciai la cintura di sicurezza.

Innestai la marcia per ripartire. In quel momento, allo specchietto retrovisore dove controllai l’eventuale sopraggiungere di qualche macchina, vidi una sagoma bianca ferma nel buio. Era un furgone a fari spenti che non avevo scorto prima, immobile, parcheggiato nell’angolo della piazzuola più nascosto, a ridosso di alcune piante di acacia. Rimasi qualche secondo a fissare nello specchietto quella singolare presenza, e d’istinto pensai a una coppia squattrinata che utilizzava il furgone come motel ambulante, in piena solitudine, per fare l’amore.  Indugiai allora a ripartire, sorpreso e incuriosito dall’eccessiva cautela di una coppia che non solo sceglieva la più isolata delle piazzuole d’autostrada per amarsi, ma lo faceva per giunta a fari spenti e al riparo delle fronde d’acacia.

Fissai l’orologio al quarzo del cruscotto. Era disperatamente tardi. Immaginai mia moglie allungare il braccio nudo, tra lenzuola già bagnate di sudore, e cercare a tentoni il telefono per chiamare la polizia. Non avevo nemmeno idea del punto preciso in cui mi trovassi, a quanti chilometri ancora da casa. Eppure i fari spenti di quel furgone, nello specchietto, appena rischiarati dalle mie luci di retromarcia, sembravano fissarmi con una tale intensità, e una specie di muta desolazione, da impedirmi di azionare la freccia e ripartire. Quando fui sfiorato dal pensiero che avrei portato dentro di me per il resto del viaggio, con una punta di rimorso, l’infantile assurda curiosità per quel furgone bianco fermo in autostrada, girai mio malgrado la chiave dell’accensione e, spento il motore, scesi dalla macchina.

Ero a cinque passi dal furgone, ma l’oscurità mi impediva di indovinare dietro i vetri il profilo di un eventuale persona. Mi avvicinai lentamente, con discrezione. Non vedevo nessuno, nè al volante, nè alla destra del conducente. Il furgone non pareva in cattive condizioni, non presentava segni di incidente nè screziature di ruggine o fango. I pneumatici non consumati e la carrozzeria lucida erano quelli di una vettura quasi nuova. Sui finestrini laterali spiovevano le fronde delle acacie, dando al furgone un’apparenza di abbandono ingannevole. Tutto lasciava pensare infatti che non fosse parcheggiato lì da molto e che qualcuno vi fosse ancora dentro, pronto a ripartire.

Mi dissi che era prudente andare via, senza spaventare coloro che con molta probabilità facevano l’amore nel retro del furgone. Avrei potuto subire la reazione incontrollata della coppia terrorizzata dalla mia presenza come dall’incursione di un maniaco. Eppure una morbosa curiosità mi spingeva ad avvicinarmi ancora di più, fino a intercettare con l’udito le eventuali voci che avrebbero confermato la mia ipotesi. Invece tutto taceva. L’ansito leggero che mi pareva a tratti di udire ero solo quello della brezza notturna tra i filari di pioppi della campagna.

Sollevai una folta fronda di acacia, che mi impediva il passaggio, e accostai l’orecchio alla fiancata del furgone. Era fredda. In quel momento mi accorsi che il portello posteriore della vettura, che doveva dare su un ampio bagagliaio, non era perfettamente chiuso, ma solo accostato. Dovevo girare sul retro per guardare all’interno.  Avanzai cautamente, tentando ancora di percepire qualche respiro.  Mi convinsi definitivamente che non c’era nessuno. Fui obbligato a curvarmi sotto la vegetazione, che proprio a ridosso del portello si addensava più fitta. La ruota posteriore sinistra giaceva quasi in bilico sull’orlo del fossato, sicché dovetti tenermi aggrappato a una maniglia esterna per spostarmi sul retro. Sprofondai con la scarpa nel fango, ma riuscii a reggermi, senza scivolare nel fossato pieno d’acqua stagnante. In quell’attimo i miei occhi scorsero un oggetto bianco collocato nell’interno del furgone, qualcosa come una cassa di legno rettangolare. La mia presa sulla maniglia del portello a cui ero aggrappato rischiò di cedere, quando in quella cassa bianca riconobbi una bara aperta, e dalla bara a poco a poco si stagliarono nell’oscurità i tratti di una bambina: una immobile neonata di pochi mesi.

Sembrava una bambola. Rigida e pallida, con gli occhi chiusi, composta nella sua bara con le braccia allineate lungo i fianchi, aveva una carnagione così lattea, dalla pelle fragile, trasparente, uniforme, da sembrare un oggetto di alabastro.  Il piccolo viso gonfio, come tumefatto, dalle palpebre strette e informi, le vene delle tempie azzurre e a fior di pelle, la fronte spiovente sulle arcate sopraccigliari, le davano ancora l’aspetto di un feto prematuro.

La bara era collocata su di una tavola di truciolato inclinata, accuratamente sistemata nel fondo della vettura, come fungesse da piano di scorrimento per lasciar scivolare il cadavere fuori dal furgone. Ma in quella posizione la bambina sarebbe potuta scivolare solo nel fossato sottostante, sui cui bordi il furgone era parcheggiato, come in bilico. Salii nel retro della vettura, ma il buio lì era completo, e solo al tatto potevo rendermi conto di ciò che vi fosse.  Toccai con le dita una specie di panca in legno, che girava tutt’intorno lungo le pareti interne, e sulla quale sfiorai delle funi, dei chiodi, una sega rudimentale, un barattolo di vernice che mi impiastricciò le mani. Poi incespicai in uno strano campanaccio, appeso a una catenina di metallo, che diede un suono di ottone stridulo e senza eco.

Rovesciai uno dei sedili anteriori e mi ritrovai dinanzi al cruscotto del conducente. Mancavano sia le chiavi che i tagliandi del bollo e dell’assicurazione. Dallo specchietto ciondolava un cavallino rosso di stoffa. I sedili erano in buono stato, quello a destra persino con l’involucro di plastica ancora intatto. Girai la chiavetta dei fari e apparve a una decina di metri la mia vettura grigia con le due ruote anteriori curvate verso la corsia di accelerazione dell’autostrada. Mi balenò l’immagine di mia moglie, insonne, con la mano contratta sul ricevitore del telefono. Spensi i fari e balzai giù dal furgone.

Lo scalpiccio delle mie scarpe sull’asfalto, nel profondo silenzio della notte, mi parve quello di un altro. Sentii d’essere al centro di un grandioso ansimare, e non era solo il soffio della brezza notturna fra i rami alti dei pioppi. Sollevai gli occhi e in quel punto un diluvio di stelle, sfolgorante da un orizzonte all’altro della campata del cielo senza più nuvole, mi fece vacillare.  Ebbi l’impressione che il rigurgito di una voragine lontanissima, punteggiata dagli astri, mi schiacciasse sulla superficie del mio angolo di terra, della mia minuscola zolla di autostrada.  L’asfalto, che calamitava le suole delle mie scarpe cigolanti, non mi apparteneva. Vi ero stato catapultato, lo sentivo, da una tromba d’aria cosmica nella cui orbita ero stato rapito e rigettato.  Non ero nel mio luogo, ero a mille miglia dalla mia origine, forse ad anni luce dalla mia identità, dal mio nome. Ero stato respinto e sbalestrato a peso morto sull’asfalto della piazzola, come un inutile asteroide espatriato da una stella. Avevo perduto il mio equilibrio, la capacità di equidistanza tra i poli dell’universo, ed ero precipitato. Se chiudevo gli occhi e fiutavo l’aria, a fondo, nel buio della campagna, qualcosa nell’odore del vento mi ricongiungeva per un attimo all’oasi di cosmo che mi aveva generato, anche se poi tutto svaniva tra i profumi di legno umido e foglie marce della campagna. Guardai la mia macchina, poggiata con le sue quattro ruote al suolo, e mi sorpresi a chiedermi se potessi mai contare su di lei, rimettendomi al volante, per ritornare alla mia patria d’origine. Ma di questa non sapevo nulla, nè la via nè il nome. Sapevo solo che non era lì.

Il sogno dell’automobilista – parte 1 di 4

Il sogno dell’automobilista – parte 2 di 4

Il sogno dell’automobilista – parte 4 di 4

Autore: Roberto Caracci

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