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Memorie dall’epoca del grande disordine – Serifoss 

da | 23 Mag, 25 | Letteratura |

Serifoss

Alla vigilia del mio venticinquesimo compleanno, l’ultima carrozza del rapido Brindisi-Milano mi riportava a casa, in un frastuono di cavalcavie e terrapieni, case cantoniere e muraglie di stazioni. Vedevo sfilare tra i pali telegrafici, sulle campagne acquitrinose, i primi paralallelepipedi della periferia, con finestre ostinatamente chiuse alle luci dell’alba e qualche lenzuolo immobile nella nebbia, e pensavo al villino bianco dell’isola di Serifoss, al suo terrazzo abbacinato nella luce del meriggio e alla camera sospesa sul mare Egeo, dove avevo trascorso gli sventurati giorni delle vacanze pasquali. Malgrado il passaggio di Mercurio del segno dei Pesci, segnalatomi prima di partire da una serafica astrologa di quartiere, le stelle avevano rovesciato sul mio capo cateratte di fango e malasorte, al punto da restituirmi ora alla mia grigia casa di città non come un turista deluso, ma come un reduce dalla più sciagurata delle battaglie.

Vedevo come fosse ancora lì, davanti a me, la brodosa chiazza di vomito lasciata sullo zerbino della padrona di casa, dopo che avevo abbondantemente innaffiato tre porzioni di masachi di sapino vino greco alla taverna sul molo, la sera stessa del mio arrivo. Per tre giorni ero rimasto a letto in balia della pietà della signora Laconia, quadrata come un armadio e con due bicipiti da lottatore, che entrava tutte le mattine a ripulire il porcile nel quale giacevo, e pinzava con due dita le mie mutande lasciate in ammollo nel bidè o vuotava le scarpe da tennis delle croste di pane cadutevi dentro. Brontolava in un martellante gergo locale, che mi sembrava quasi trasparente quando si piegava a raccogliere i miei calzini maleodoranti o sbatteva sul comodino una tazza di zachichi.

Io la ringraziavo con gli occhi lucidi di febbre e non le rivolgevo mai la parola, per il timore di vomitarle sugli zoccoli. Una volta sola le allungai un biglietto col nome delle pillole anti-gastrite prescrittemi dal medico in Italia, quello stesso che mi aveva minacciato di abbandonarmi alla mia sorte se fossi andato oltre il bicchiere di bianco a pasto. Laconia era tornata dopo un’ora, ansimando fin dai primi scalini, il testone incassato nelle spalle, e con un granitico sorriso da squalo mi aveva posato sul petto una scatola di supposte contro l’ulcera duodenale.

Avrei voluto almeno confessarle, per alleggerire il suo disprezzo, che questo era il mio primo viaggio all’estero da quando me ne ero andato a vivere da solo. Solo una volta ero andato a Lugano, dove però ero ospite di un amico di mio padre, che mi faceva telefonare a casa tutte le sere. Cercavo di perlarle di me, per dimostrarle che ero un figlio di famiglia e sperare di intenerirla. Ma mentre giravo le pagine del mio dizionarietto greco-italiano, sentivo il duro e secco battito dei suoi zoccoli che si allontanavano.

Sicchè, la mattina in cui mi feci trovare in piedi, vestito e rasato, perfettamente in forma nei bermuda verde-pisello e nella camicia in acrilico, e le annunciai a gesti la volontà di scendere finalmente sulla spiaggia, udii uscire dalla sua gola un roco sospiro di sollievo. Purtroppo, non ero ancora in condizione di curare tutti i dettagli delle mie necessità e responsabilità quotidiane. Mi ero avvicinato alla riva del mare, a pochi metri da due ragazze inglesi stese sulla sabbia deserta come ninfe al sole. Gettai via un sandalo e immersi l’   alluce destro nella fredda schiuma che lambiva la battigia. Ai margini del mio campo visivo, la chiazza bianca del vestito da collegiale di una delle due inglesine, fatto di trine pizzi e collarino, solleticava la mia curiosità su chi mai potessero essere quelle impeccabili compagne di solitudine. Ma nella mia mente frastornata ancora dai tre giorni di convalescenza, il gorgoglìo delle onde egee ne richiamò di colpo un altro, quello del rubinetto del lavello, nella mia camera, che non ricordavo di avere chiuso.

Arrivai col cuore gola sul luogo del misfatto, solo in tempo per seguire i rivoli della copiosa cascata d’acqua che rimbalzava allegramente di gradino in gradino e produceva sbuffi e mulinelli attorni ai polpacci nudi della signora Laconia, più taurina e ansimante che mai tra secchi e stracci, nel luminoso lago sorto dove una volta c’era il pavimento della mia camera.

Ma il colpo di grazia alla mia nefasta vacanza ellenica mi era stato assestato da Rosy, l’inglesina dalla vita di vespa, flessuosa come un giunco e con le efelidi al naso, che non mi aveva perdonato i quaranta minuti di ritardo all’appuntamento sul molo. Quel pomeriggio avevo caricato la radiosveglia prima della pennichella, per scattare arzillo e lucido alle fresche brezze del tramonto. Ma il sole era calato da un pezzo quando riaprii gli occhi sul quadrante inesoralmente muto della sveglia, a cui avevo dimenticato di azionare la suoneria. Sul molo disertato anche dall’ultimo raggio verde del sole, vagavo più solitario di un gabbiano, chinandomi fin sotto le grandi pietre degli scogli per cercare tracce di Rosy. L’avevo rivista il mattino successivo, stesa come sempre sul bagnasciuga accanto alla sua amica, ed era bastato un lampo di ripugnanza nei suoi occhi cerulei e due parole biascicate tra i denti, “Italian shit”, per tenermi a debita distanza come un cane tignoso.

Ora il rombo del treno, che galoppava con una furia sempre più selvaggia fra i ponti di accaio e i caseggiati della periferia, mi rintronava tra le tempie con il fragore stesso dei miei venticinque anni. Ogni volta che la carrozza sobbalzava cigolando sugli scambi delle rotaie o che una folata di vento gelido faceva tremare la mia ombra sul vetro del finestrino, sentivo quel numero scandito nei miei timpani da una voce ossessiva. Anche il fischio lacerante della locomotiva, che svegliava i cani nei cortili e i passeri tra i rami dei pioppi, penetrava nel mio cervello come l’annuncio perentorio dell’evento che si stava per abbattere, al di là del muro del suono, sulla brodaglia informe della mia vita. Ricacciato a duecento chilometri orari nell’imbuto di cemento del mio quartiere, del mio squallido monolocale, e del mio beffardo anniversario, la cui lucente lama di ghigliottina mi attendeva al termine della corsa, sentivo che non potevo continuare così, che non dovevo trascinarmi dietro la discarica filamentosa del passato, che adesso tornavo o verso la svolta della mia vita o verso il pozzo senza fondo.

E una parola brulicava come bolla di sapone sulle mie labbra, una lieve parola che il frastuono del vento sul finestrino non riusciva a cancellare. Una parola che udivo solo io e scaturiva spontaneamente dal magma ribollente della mia vita, di quel presente che mi aspettava al varco e voleva richiudersi su di me, man mano che il treno si incuneava tra i palazzi, come una trappola d’asfalto. La parola era ‘ordine’, unicamente e semplicemente ‘ordine’. ‘Ordine sotto le stelle’, echeggiava la voce antica di mia madre. Me lo ripeteva sempre, fin dai giorni in cui rovesciavo l’intera cesta dei giocattoli sul parquè, disseminandolo di camioncini, pentolame e soldati morti come una apocalisse. Oltre il soffitto sopra la mia testa immaginavo allora, alzando gli occhi, gli astri i pianeti e le comete sistemarsi ogni notte in disegni perfettamente armonici, in costellazioni parallele o circolari, che offrivano a me e a tutti i bambini disobbedienti il buon esempio dell’ordine.

Basta, dicevo adesso alla mia maschera di amarezza riflessa sul vetro. D’ora in poi non mi farò più sorprendere dal torrente in piena della vita, dal caos e dai nubifragi non previsti. Riprenderò fra le mie dita le redini e spingerò su strade sicure il mio corpo e la mia mente. Recupererò il potere di decidere e pianificare, ma soprattutto di difendermi dalle provocazioni del mondo, dalle sue richieste e dalle sue aggressioni. Umilmente, ma tenacemente, un gesto dopo l’altro, un pensiero, un bisogno: tutto dovrà essere governato, calibrato, programmato.  Raccoglierò schegge e frammenti dell’ultimo naufragio e li ricomporrò in un nuovo inviolabile ordine. E tutto il resto, detriti e marciume del passato, penzolerà come uno strascico morto dietro di me e verrà amputato.

In quel momento, si spensero le luci della carrozza e l’alba livida dilagò nello scompartimento. Sulle mie ginocchia giaceva dall’inizio del viaggio un libro di versi. “C’è un tempo per costruire e un tempo per vivere…”, vi era scritto. Ma la voce di mia madre, mentre un altro treno sfiorava il nostro come un tuono, continuava a ripetere squillante: ‘Ordine sotto le stelle!’

“C’è un tempo per generare e un tempo perchè il vento rompa il vetro sconnesso…” Così come quel vento che ora incalzava con la forza di un oceano sull’oblò del mio finestrino, avrebbe prima o poi sfondato le pareti di cristallo della mia vita. Tutto sarebbe mutato, avrebbe assunto una fisionomia, una misura, un ritmo. Vi sarebbe stato allora il ‘tempo delle stagioni e delle costellazioni’, il ‘tempo della mungitura’ e quello del ‘raccolto’. E io forse mi sarei risollevato dalla melma di sempre e dalle sabbie mobili.

E proprio mentre la testa del treno si tuffava sotto le nere volte della stazione, vidi il profilo delle mie labbra nel vetro distendersi in un sorriso per la prima volta dopo tanti giorni, perchè avevo deciso.

Avevo deciso di procurarmi un’agenda.

Fine parte 1a di 6

Autore: Roberto Caracci

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