Il romanticismo, incline ad esaltare il fuoco delle passioni anziché ridimensionarle e guardarle più da lontano, non è stato certo il periodo più fecondo per l’emergenza di tratti ironici. Dobbiamo pertanto operare un notevole salto temporale rispetto ai grandi autori che abbiamo trattato nella prima parte del nostro articolo (Rossini e Mozart), ed atterrare in terra francese più o meno alla fine del diciannovesimo secolo. Il primo autore da ascoltare con attenzione, sotto questo aspetto, è Jacques Offenbach – il cognome tedesco non inganni: egli nacque infatti a Koln nel 1819, ma passò il resto della sua vita in Francia. -Creatore instancabile, compose oltre 100 operette e due opere. La scelta di concentrarsi sulla forma della operetta, una specie di parente minore dell’opera, un genere apparentemente leggero in cui risulta quindi più facile e naturale assumere tratti mordaci, è rivelatrice della poetica di questo autore, che già nelle fotografie e negli schizzi che lo ritraggono si rivela un personaggio alquanto bizzarro.
Offenbach divenne ben presto il compositore “alla moda”: fu in grado di compiacere il pubblico parigino con melodie e ostinati ritmici di facile ascolto e godibilità, ma allo stesso tempo fu in grado di scuotere e pungere un certo moralismo diffuso nell’alta società parigina come solo i grandi autori di opere comiche sanno fare. Complici e al tempo stesso nemiche del regime politico, le operette di Offenbach testimoniano sia la vicinanza al potere che la vocazione eversiva. Caratteristiche del tutto assenti nelle operette italiane e viennesi, ma ben presenti nelle opere di Mozart – in particolare ne Le nozze di Figaro, in cui peraltro scompare la sudditanza ed emerge un feroce sarcasmo nei confronti della classe nobiliare
La più famosa tra le operette di Offenbach è Orfeo agli inferi. Orfeo è una figura mitica: incantatore, musico, sciamano, capace grazie al suo canto e al suono della sua lira di ammansire uomini, belve, rocce, e persino in grado di entrare ed uscire dal regno dei morti. I musicisti che precedono Offenbach, da Peri a Caccini a Monteverdi fino a Gluck (il cui Orfeo ed Euridice è peraltro successivo di qualche anno all’omonimo titolo di Offenbach) mantennero il carattere magico e tragico della storia di Orfeo così come viene narrata a partire dagli antichi racconti. Il viaggio che Orfeo intraprende negli inferi per cercare Euridice è tra le pagine più commoventi e toccanti; ma in questa operetta di Offenbach e ancor più nel libretto di Halévy e Cremieux la trama viene completamente stravolta.
Orfeo è qui un insegnante di musica che non riesce più a sopportare la moglie Euridice; quest’ultima a sua volta cerca di alleviare le noie dello stato coniugale facendosi corteggiare da Giove, Plutone ed altre divinità. Quando Euridice muore, Orfeo si vede costretto ad andarla a cercare all’inferno, poiché non può sottrarsi al dovere che il mito gli impone. Ma mentre Orfeo si trova sul cammino di ritorno, insieme alla sua compagna, Giove ci ripensa. La bella Euridice rimarrà negli inferi a fare compagnia agli dei, e Orfeo potrà ricominciare a godersi la vita, ormai liberato dal suo pesante fardello.
Questo soggetto, apparentemente divertente, è nel contempo sarcastico poiché colpisce sia l’istituto matrimoniale sia la moda ellenistica, allora molto in voga nel costume francese. Al di la dei contenuti corrosivi contenuti nel libretto, la musica di Orfeo riusciva particolarmente gradita ai parigini poiché rispecchiava la loro indole: eleganza portata all’estremo, ai limiti del Kitsch, leggerezza e briosità ai limiti della superficialità, insolenza e capacità di sfiorare l’indecenza e il cattivo gusto senza mai precipitarvisi dentro, polemica antiromantica e sguardo cinico sui “grandi valori morali” della tradizione.

Offenbach- Orfeo all’Inferno – Jeanne Granier and Eugène Vauthier – immagine del 1887
Quasi cento anni più tardi, in un momento tragico per l’umanità intera (1944, nel pieno della seconda guerra mondiale) un altro francese che alternava tratti burloni a slanci mistici e accorate malinconie, si rivolge nuovamente ad un personaggio mitico della Grecia, l’indovino Tiresia, e lo fa con le parole di Apollinaire: stiamo difatti parlando di Francis Poulenc (1899-1963) e della sua opera buffa in due atti Les mamelles de Tirésias. Poulenc aveva tutti i tratti per essere- come di fatto fu- messo in disparte dal mondo musicale dell’epoca: ricco di nascita (suo padre fondò la casa farmaceutica Rhone-Poulenc tuttora esistente), omosessuale, fervente cattolico, legato ad uno stile compositivo considerato da più parti superato e anacronistico: bellissime melodie, armonie e ritmi ben percepibili, forme tradizionali, in un’epoca sempre più dominata dalle avanguardie. Il destino si è però rivelato galantuomo poiché di tante musiche d’avanguardia poco è rimasto, mentre la musica di Poulenc ha continuato e continua a riscuotere notevole interesse e successo.
Lo stile di Poulenc manifesta ampi tratti provocatori e sarcastici; la sua poetica, superbamente elegante, rivela un disincanto che non sfocia mai nel cinismo né nell’ irriverenza. Semmai possiamo rilevare che insieme al gioco e al distacco ironico emerge sovente uno sguardo affettuoso che nasconde, pudicamente, un velo di malinconia.
Thérèse, la protagonista dell’opera di cui sopra, bella e capricciosa, decide di abbandonare il marito e di assumere un’identità maschile. Lega il marito, lo spoglia, ne prende i vestiti e decide di chiamarsi Tirésias, come il veggente del mito greco: nel far ciò si “toglie” le mammelle, simbolo della sua femminilità. Intanto il marito viene liberato e a sua volta cambia aspetto, diventa una donna e partorisce 40.049 bambini. A questo punto inizia una divertente sequenza di malintesi che termina con la ritrasformazione di Tirésias in Thérèse e la riconciliazione con il marito. Ecco un esempio della arguta prosa di Apollinaire:
(Excentrique , jeune e jolie, Thérèse, des que le rideau est levé, sort de l’immeuble, un balai à la main.) Non, Monsieur mon mari, vous ne me ferez pas faire ce que vous voulez. Je suis féministe, et je ne reconnais pas l’autorité de l’homme. Du reste je veux agirà ma guise, il y a assez longtemps que les hommes font ce qui leur plaît. Après tout, je veux aussi aller me battre contre les ennemis. (Elle se sert de son balai, comme d’un fusil, pour faire l’exercise) J’ai envie d’être soldat, un’deux, un’deux. Je veux faire la guerre et non pas faire des enfants. Non, Monsieur mon mari, vous ne me commanderez plus. Ce n’est pas parce que vous m’avez fait la cour dans le Connecticut que je dois vous faire la cuisine à Zanzibar.
Poulenc già nel prologo di questa composizione riesce a mescolare con sapienza e squisito garbo melodie popolari parigine e tradizione classica, con inimitabile leggerezza. Una leggerezza che gli consente di rivolgere a Tirésia e Thérèse uno sguardo lieto, certamente disincantato ma al tempo stesso affettuoso, atteggiamento piuttosto insolito nei compositori di opere comiche. In altri autori la comicità, quando ha dei risvolti impliciti, assume toni drammatici o di critica sociale, mentre in Poulenc il riso, semmai, nasconde un velo di malinconica nostalgia.

Francis Poulenc e Wanda Landowska
A volte- molto raramente in verità- compaiono autori assai difficili da inquadrare, avulsi dal loro tempo e da ciò che li precede, rivoluzionari senza avere alcun tratto polemico o critico, spesso più interessanti sotto l’aspetto concettuale che sotto quello artistico. In tempi più recenti, pensiamo a John Cage; nei primi anni del novecento, invece, la nostra attenzione si rivolge a Erik Satie (1866-1925) Considerato un maestro dell’ironia, egli ci sembra piuttosto un autore buffo, spiritoso, iconoclasta, piuttosto che ironico. Ironia è distacco da qualcosa: dalla pesantezza del mondo, delle passioni, delle ideologie. In Satie non mi sembra ci sia distacco da alcun modello proprio perché egli non conosce modelli. La sua musica è affatto originale e non allude in alcun modo ad altro. Divertente, innovativa: piuttosto anticipatrice del futurismo, del nonsense. Leggendo alcune sue dichiarazioni sembra di riconoscere un antesignano di Ionesco. “La giornata del musicista. Respirare con precauzione, poco per volta. Quando cammino, tengo lo sguardo fisso dietro di me. Molto serio d’aspetto, rido senza volere. Il mio medico mi ha sempre detto di fumare. “Fumi, amico mio: se no, un altro fumerà al suo posto!”
Oppure
“Quando ero giovane, mi dicevano: “vedrà quando avrà 50 anni”. Ho 50 anni, ma non vedo niente”
La sua musica è di allarmante semplicità: egli stesso amava definirla musica d’arredamento (musique d’ameublement), da ascoltare con leggerezza; l’opposto- è sempre Satie a parlare- della musica tedesca e di quella di Wagner in particolare, da ascoltare sempre con aria corrucciata e con la testa tra le mani.
Questi atteggiamenti, più iconoclasti che ironici, si ritrovano nei discepoli di Satie (il cosiddetto “gruppo dei sei”, Auric, Tailleferre, Milhaud, Poulenc, Honegger, Durey) mentre saranno Debussy e Ravel, in alcune loro composizioni, a rimarcare la discontinuità con il passato e con le accademie con satirico distacco. In particolare, la proverbiale eleganza e leggerezza che caratterizzano la musica francese trovarono importanti appigli per esprimere contenuti ironici nella cosiddetta “reazione al wagnerismo”, che impegnò molti tra i più brillanti compositori a cavallo tra ottocento e novecento, soprattutto in campo strumentale. Iniziò il pacatissimo e rispettoso Gabriel Faurè ( 1845-1924) a sbeffeggiare i temi wagneriani nei Souvenirs de Bayreuth, composizione per pianoforte a quattro mani scritta nel 1880 insieme ad André Messager, e a seguire Emmanuel Chabrier ((1841-1894), con il suo Souvenirs de Munich , anch’esso per pianoforte a quattro mani ( 1887) per finire con Debussy, autore di uno scherzoso motteggio sul tema iniziale di Tristan und Isolde nel sesto ed ultimo dei Children’s corner, Golliwoggs’ cake-walk (1908)
Se ci trasportiamo in terra italiana, è difficile ritrovare simili caratteristiche, poiché da un lato l’opera verista e dall’altro il severo rinnovamento strumentale proposto dalla “generazione dell’ottanta” non lo consentivano. Troppa passione, troppo coinvolgimento delle emozioni per lasciar trasparire quel distacco che, da Socrate fino a Jankèlèvitch, è la via maestra per l’insorgere dell’ironia. Ma ci sono luminose eccezioni: del Falstaff verdiano abbiamo già parlato nel corso della prima parte di questo articolo, così come del fatto che gli autori romantici, post romantici e veristi non amino l’atteggiamento ironico Ovviamente- come sempre nella storia della musica- vi sono delle eccezioni. Una di esse è rappresentata dall’opera comica in un atto Gianni Schicchi di Giacomo Puccini, scritta tra il 1917 ed il 1918; libretto di Giovacchino Forzano ispirato al trentesimo canto dell’Inferno dantesco. In questa opera i personaggi- coloro che sperano di essere gli eredi dei beni di Buoso Donati – non riescono a vincere la pesantezza delle proprie emozioni, si identificano talmente con l’oggetto del loro sentimento o del loro desiderio da rimanere poi tragicamente delusi. Il libretto ben esprime l’ipocrisia dei presunti eredi nel lodare le qualità del defunto, quasi con la speranza di averne una benedizione- e cospicui denari- dall’aldilà.
Con irresistibile effetto comico in chi ascolta: si badi bene, una comicità sempre improntata al sorriso, mai allo scherno, alla volgarità o al riso sguaiato. Ciò che muove al riso è qui proprio quell’aria di tragedia esagerata, del tutto falsa, in quanto chi la esprime è in realtà felice della morte del vegliardo poiché spera nell’eredità. La falsità dei personaggi emerge dalle iperboli con cui esprimono i loro sentimenti: osserviamo ad esempio il testo che compare all’inizio dell’opera:
(Gherardo) “io piangerò per giorni e giorni” – (Nella) “Giorni? Per mesi!” (Ciesca) “Mesi? Per anni ed anni!” (Zita) “Ti piangerò tutta la vita mia” (tutti insieme) “Oh Buoso, Buoso, Tutta la vita piangeremo la tua dipartita”
O ancora, subito dopo aver appreso che Buoso Donati ha espresso il desiderio testamentario di lasciare tutti i suoi beni ai frati:
(Betto)” se Buoso crepa, pei frati è manna! Diranno: pancia mia fatti capanna!” Simone “Se il testamento è in mano ad un notajo, … chi lo sa, forse è un guaio! Se però ce l’avesse lasciato in questa stanza, guajo per frati, ma per noi speranza!” (Marco) “privare tutti noi d’una sostanza, e i frati far sguazzar nell’abbondanza!” (Betto) “Io dovrò misurarmi il bere a Signa, e i frati beveran il vin di vigna” (Nello) “Si faranno slargar spesso la cappa, noi schianterem di bile, e loro pappa”
E a finire questa tragicomica commedia,
(Zita) “Chi l’avrebbe mai detto che quando Buoso andava al cimitero, si sarebbe pianto per davvero!”
Pochi anni dopo la composiziono dello Schicchi, all’inizio degli anni ’20 , contemporaneamente al prosciugarsi della vena creativa in ambito francese- relativamente all’opera comica- nasce in Germania un movimento o meglio iniziano a produrre opere autori che intendono l’ironia come mordace satira politica: penso a Kurt Weill, Hans Eisler, Ernst Krenek, persino l’insospettabile e in genere serioso Arnold Schoenberg, nei giovanili Brettlieder; mentre in Russia un esempio di ironia nell’opera è presente nel giovane Dimitri Shostakovich ( 1906-1975)
Tra il 1927 ed il 1928 egli scrisse una opera emblematica, sotto l’aspetto del nostro discorso, il Naso, il cui libretto è tratto da Gogol e scritto in parte dallo stesso Shostakovich Un brevissimo riassunto: l’assessore Kovalyov perde il naso, che viene ritrovato dal suo barbiere, che a sua volta lo getta nella Neva. Seguono una serie di peripezie: il naso assume forme umane, diventa consigliere superiore di grado rispetto a Kovalyov e non ubbedisce alla richiesta di ritornare alla sua vecchia posizione. Finalmente il naso viene catturato dalla polizia e restituito a Kovalyov, ma egli non riesce più a riattaccarlo. Nel frattempo tutta la città è in subbuglio alla ricerca del naso e la polizia fatica a ristabilire l’ordine, finchè K. Si risveglia (allora era tutto un sogno?), riesce a riattaccarselo e tranquillizza la città: tutto a posto.
L’ironia di Gogol era diretta al sistema di governo dell’epoca zarista, ma Shostakovich la attualizza ironizzando pesantemente nei confronti dei dirigenti del partito e della loro squallida e truffaldina burocrazia, che in modo reazionario pretendeva che l’arte fosse unicamente votata alla celebrazione trionfale della rivoluzione, con un linguaggio musicale facile e tradizionale. Al contrario nel naso troviamo urti dissonanti, uso grottesco delle percussioni- a commentare gli incubi di Kovalyov-, grotteschi glissandi dei tromboni e miagolii sovracuti dei violini ad imitare i versacci adenoidei emessi da K. una volta denasalizzato. Anche dal punto di vista sovrastrutturale nel Naso troviamo una parodia delle danze- allora ancora in uso- e della musica ecclesiastica: e questo sbeffeggiare gli stili della musica sia colta che popolare fa intendere la musica come un mezzo di critica politica. In questa opera l’ironia viene dunque adoperata come straniamento e messa in discussione dei valori della società borghese post-rivoluzionaria.
Nel Naso compaiono sessanta personaggi: un numero spropositato, mai visto in una opera lirica: questo ad indicare una grande confusione, allusione e parodia della società russa dell’epoca, burocratizzata al massimo ed incapace di un ordine morale e funzionale
Ritorniamo alla Germania, per incontrare un altro musicista che intese l’ironia come satira politica: si tratta di Kurt Weill (1900-1950). Nello stesso anno in cui Shostakovich scrisse il naso, Weill scrisse Die Dreigroschenoper (l’opera da tre soldi), con libretto di Bertold Brecht. Il compositore intese con questa opera compiere una denuncia sociale e politica, ed il mezzo adoperato fu un pungente sarcasmo: abbandonate le costruzioni complesse presenti in tutti gli autori precedenti, Weill adottò un linguaggio musicale volutamente povero, armonicamente elementare, spesso basato sulle canzoni di consumo dell’epoca. Con questa semplificazione, che ridusse arie e duetti ad uno stile prossimo alla volgarità, Weill intese esprimere lo squallore di una società ormai priva di valori e di coscienza, che si apprestava a spianare la strada alla dittatura nazista. I protagonisti non sono più dei veri cantanti lirici, ma piuttosto interpreti di cabaret, con voce naturale (non impostata). La musica si pone in strettissima sintonia con il testo, utilizzando stili e linguaggi eterogenei, tra i quali troviamo canti liturgici, ballate popolari, accenti clowneschi, ballate. Emblematica la ballata iniziale, in cui il testo recita la storia del bandito Meckie Messer:
A Schmul Meier, l’industriale, un ignoto un dì sparò.
Mac ne spende tutti i soldi, ma provarlo non si può.
Han trovato Jenny Towler strangolata nel bidet.
Che sia stato Mackie Messer? Testimoni non ce n’è.
Weill propone una serie di danze (tango, fox trot,) volgarizzandole per enfatizzare la miseria dei protagonisti ed essere così ancora più tagliente e corrosivo, in sintonia con le parole del librettista: celeberrima la massima “cosa è mai la colpa di chi sfonda una banca rispetto a quella di chi fonda una banca?”

Kurt Weill
Di tutt’altra natura le citazioni musicali di Igor Stravinsky, già ben presenti nel periodo neoclassico e rese ancora più esplicite nell’opera The rake’s progress (La carriera di un libertino). Questa opera, scritta tra il 1948 ed il 1951 e rappresentata in prima assoluta al teatro La Fenice di Venezia, destò notevole scalpore. Ancora una volta Stravinsky riuscì a meravigliare il pubblico cambiando rotta rispetto alle peraltro numerose rotte precedenti e, in epoca di avanguardia, mettendo in scena un lavoro fatto seguendo gli schemi dell’opera settecentesca, con recitativi, arie, duetti, concertati, con un libretto che si ispirava ad una serie di dipinti ad opera di William Hogarth, pittore inglese del ‘700. Ad un grande successo di pubblico (è una delle poche opere scritte dopo la seconda guerra che ancora vengono rappresentate in tutto il mondo) corrispose una certa freddezza della critica, più avvezza ad elogiare brani di natura più sperimentale. Probabilmente se l’autore non fosse già celebrato come uno dei più grandi musicisti di ogni tempo questa opera sarebbe stata del tutto ignorata, con grave danno per tutti noi ascoltatori: ma a Stravinsky, fin dai tempi giovanili della Sagra della primavera, non mancò certo il coraggio di cambiare rotta e sconcertare pubblico e critica
In Stravinsky non troviamo più una ironia burlesca, né una ironia da intendersi come critica sociale, ma una parodia. La musica del passato “parodiata”, “straniata”, presuppone la conoscenza della forma originale non solo per il compositore, ma anche per la coscienza dell’ascoltatore. La parodia in altri termini avrebbe il compito di ostacolare una percezione automatica della musica e di rendere consapevole l’ascoltatore degli automatismi che necessariamente si vengono a creare. In questo modo l’arte dell’epoca passata non viene sbeffeggiata, semmai rispettata ma riproposta con distacco e, in certo senso, depurata da ogni eccesso di emozioni- in questo, ecco ritornare il concetto di ironia così come lo avevamo inteso nella prima parte di questo articolo- Stravinsky sembra voler ritornare ad una concezione “pura” della musica: al contrario di Verdi, che per tutta la sua vita aveva affermato essere la musica al servizio della poesia, Stravinsky muove dalla concezione opposta: le parole sono un mero supporto che non deve disturbare la musica. Si spiega così il frequente ricorso alla lingua latina (ad esempio, nell’ Oedipus Rex), cioè una linga morta, e l’asciuttezza del libretto del Rake’s. Se, a titolo di esempio, consideriamo il finale del secondo atto, troviamo nella partitura tutto l’”armamentario” dell’opera buffa settecentesca: glissandi della voce, melodie dolci affidate ai clarinetti, ritmica rossiniana, duetti tra fiati solisti e voce che rimandano a Lucia di Lammermoor. Tutto sembra indurre al sorriso, ma poi gli strumenti sembrano impazziti, mentre la voce gorgheggia a lungo sulla parola “never”, cioè “mai”. É dunque il teatro musicale solo una finzione, ed i suoi personaggi dei meri meccanismi senza una vera vita, utili solo a far “girare” la musica, come in Rossini? La risposta è nelle mani- o meglio nelle orecchie- di chi ascolta. Il sorriso, in Stravinsky, è sempre serio (Jankèlévitch scriveva che le cose del mondo non sono mai troppo serie, ma occorre occuparsene seriamente)

Igor Stravinsky
In sintesi, Rake’s propone una musica apparentemente semplice- perlomeno in relazione a quanto veniva prodotto da autori coevi- e di più facile ascolto, ma in realtà straniante e molto “intellettuale”, una musica che mette in naftalina le emozioni ed esalta la lucidità (a volte luciferina) della ragione
Abbiamo iniziato la nostra indagine sull’ironia in musica con i grandi operisti del periodo classico, e la terminiamo con un altro grande operista del ‘900, Nino Rota (1911-1979), forse più noto per le sue musiche da film che per il suo capolavoro in campo lirico, Il cappello di paglia di Firenze, scritto nel 1945 e rappresentato in prima esecuzione al Teatro alla Scala nel 1955.
In una epoca dominata dalle avanguardie, Rota ci riporta ad una scrittura godibile da un pubblico più vasto, che riprende in forma moderna ed originale gli stilemi dell’opera buffa della grande tradizione belcantistica italiana. Nessun mistero, nessuna ombra (come nelle opere di Mozart su testo di Da Ponte), nessuna inquietudine: solo bella musica, garbata, intrisa di una ironia che fa sorridere. In conclusione, riportiamo il testo dell’arietta del tenore: il suo assillo, anziché essere di ordine metafisico, amoroso, morale, politico, è quello di… ritrovare un cappello perduto. E così, sopra le note intrise di lirismo e malinconia, si appoggia questo testo:
“io voglio quel cappello, dolcissimo pegno d’amor,
perché soltanto quello potrà salvarmi ancor.
Datemi quel cappello, se subito non l’avrò
Io non so che farò!”
Leggi anche: Tutto nel mondo è burla (Ironia in musica)
Autore: Maurizio Carnelli
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