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Barca alla deriva – parte prima

da | 17 Apr, 25 | Letteratura |

a) Sullo Squalo Blu

Mio padre mi aveva avvertito:
“Giancarlo il Professore è un poco matto. Si vanta di sapere tutto, ma sotto sotto sa un po’ tutto di niente. Di filosofia, di pittura, di pesca e barca a vela…. Ma ci ha fatto questo invito in barca, e io voglio approfittarne per imparare a pescare. Anche qualcosa di piccolo, una cernia o un merluzzino…l’ho sempre sognato.”
Giancarlo, il padrone di casa della nostra villetta in affitto ad Ischia, era effettivamente un uomo strano. Un fisico compatto, non tanto alto, dalle spalle larghe. Le lentiggini sparse sul volto abbronzato da contadino isolano, gli occhi di un blu luminoso, color mare, e la capigliatura rossa, a larghe ciocche un po’ arruffate, che lo facevano rassomigliare nella mia mente a una copia malriuscita di Robert Redford. La nostra villetta era piena dei suoi quadri ad olio, marine battute dal sole e banchi di pesce azzurro luccicanti nelle reti. Fin dalla mattina le nostre narici fiutavano un permanente e pungente odore di trementina, vernici, acqua ragia. Già questo lezzo non piaceva a mio padre, lui che russava a bocca aperta la notte e diceva di avvertire in quella casa un bruciore fastidioso nelle mucose della gola.

Giancarlo insegnava qualcosa in una scuola dell’isola e tutti lo chiamavano il Professore, anche se lui avrebbe voluto essere definito tra i compaesani Artista o persino Maestro. Mio padre, che da tutti e anche da lui pretendeva essere interpellato per conto suo come Cavaliere, preferiva chiamarlo semplicemente Giancà.
Tra le tante passioni di Giancarlo c’era la barca a vela. Erano giorni che insisteva a proporci di fare un ‘giro’ di buona mattina, finché mio padre gli confessò un giorno il suo desiderio di imparare a pescare, e il Professore lo bloccò subito afferrandogli il braccio:
“Cavalie’, domani alla spiaggia alle 7,30 puntuale, in costume. Il mio Squalo Blu è il primo a sinistra del molo di Casamicciola. Il necessaire per la pesca glielo porto io….”
“Lo Squalo Blu?”
“E’ il nome della mia barca, Cavalie’, che quando vuole fila sull’acqua come un pescecane di razza…”

Ero presente alle trattative di quell’affare e mio padre, un po’ perplesso, si lasciò convincere dal mio sorriso entusiasta ad accettare la proposta e portare anche me.
“Il secondino di bordo! – esclamò Giancarlo spostando su me i suoi occhi azzurri. Né io né mio padre ridemmo, ma oramai non potevamo deludere il Professore velista.

La levata del giorno dopo fu dura, almeno per me che sarei rimasto a poltrire nel fresco delle lenzuola fino alle 9, ma mio padre mi strappò dal letto, giustamente, alle 7 in punto, per vivere quell’emozione che io stesso avevo desiderato. Ci precipitammo in infradito e costume da bagno lungo i vicoli di Casamicciola, dopo una colazione in piedi fatta di un bicchiere di latte e una banana che ancora mi colava fra le labbra, e ci dirigemmo verso il molo. C’era una leggera brezza, che risentiva ancora della freschezza della notte e faceva tintinnare i pali degli ombrelloni ancora ripiegati sulle spiagge. Il mare si stendeva come una tavola verde, su cui la luce del sole nascente faceva scintillare le piccole creste delle onde trasversali, con scie di schiuma bianca che si arricciavano a riva. Le spiagge erano ancora deserte, a parte due figuri di bagnini che andavano qua e là raccogliendo carte e cicche di sigaretta con un retino per l’abituale pulizia mattutina. Udimmo un fischio, un richiamo che saettò nell’aria limpidissima e poi si perse, nello sciabordare sommesso delle onde e nel gridio dei gabbiani. Lasciammo passare un’ape a tre ruote solitaria, sobbalzante sull’ asfalto sconnesso del lungo mare, e ci avviammo lungo la banchina antistante il molo, vedendo sfilare a sinistra yacht, motoscafi, gommoni, in ordine decrescente, dalle imbarcazioni più grandi e fastose, alle più piccole.

La figura di Giancarlo, che agitava le braccia verso di noi, si profilò a un certo punto all’imbocco del molo di Casamicciola, lontana e controluce, col sole basso che lo investiva alle spalle. Indossava, come notammo avvicinandoci, degli orribili calzoncini gialli, grandi e flosci, sotto una canotta piuttosto consunta, dello stesso colore.
“Cavaliere! Secondino!…” urlò, facendo volare via due gabbiani che stavano zampettando sul bordo del molo.
E intanto indicava con la mano destra, vistosamente, qualcosa sotto di lui, a ridosso del molo. Era evidentemente lo Squalo Blu, ancora per noi nascosto dalla fila delle imbarcazioni più grandi.
Ciò che poi vedemmo, dietro l’ultimo lussuoso gommone, fu una barchetta di legno bicolore, rosso-azzurra, tutta scrostata, che non aveva nulla da invidiare alle barchette di carta di quaderno che avevo recentemente imparato a fabbricare in classe, in prima media, nei tempi morti delle lezioni. Uno scafo dove uno strato di ruggine marina faceva strani ghirigori lungo i fianchi, tra coriandoli di alghe seccate al sole e spuntoni di legno marcio. Pareva una faccia bifronte piena di brufoli e cicatrici, devastata dalla varicella, dove tra abbozzi di marine verniciate e delfini folli di gioia, campeggiava un’artistica pennellata in giallo cromo, con le parole Lo squalo blu.
“Gianca’, ma da quanti anni non la prendete ‘sta barcarola? disse mio padre, d’istinto.
“Cavaliè, voi non sapete cosa dite- rispose alquanto risentito il Professore- Tutto quello che vedete qui è lavoro delle mie mani e del mare. Io non ritocco niente di quello che fa il mare….”
“Sì, ma una pulitina….”

Giancarlo non udì queste ultime parole, perché saltò giù dal molo fra strida di gabbiani in cerca di cibo, e si accingeva a indicarci il suo capolavoro, una tenda di lino bianco, al centro della barca, tutta dipinta a squali e stelle marine, sospesa su quattro pali, che mi ricordavano manici di scopa senza spazzola.
“Questa capannina un metro per un metro e mezzo- disse- fa miracoli contro il sole. E solo gli aerei e le nuvolette lassù in cielo possono godersi gli acquarelli su lino che ci ho ricamato…”
In realtà, quella mattina precoce di agosto, di nuvolette, nonché di aerei, non v’era traccia. Sopra il mare appena increspato si stendeva un cielo pulito, terso, spazzato da una brezza che tendeva a crescere e a far sbattere quelle che riconoscemmo subito come strane lenzuola bianche, in verità molto pulite, appese all’esile e altissimo albero pencolante della barca. Sapemmo poi che il Professore stesso aveva piantato quel lungo palo alla prua della barca, legandolo al fondo dello scafo con delle catene da bicicletta, e che quelle che vedevamo erano una decina di lenzuola matrimoniali cucite accuratamente l’una all’altra per fare da vela.
“Giancà, disse mio padre piuttosto allarmato, ma voi la patente nautica ce l’avete?”
“Cavaliè, state scherzando? -sbottò Giancarlo impallidendo, mentre si sfilava uno zaino militare dalle spalle e spargeva sulla sabbia davanti a mio padre l’attrezzatura per la pesca- Il patentino nautico per una barca così, trovata nella baia di Lacco Ameno e rifatta dalle mie mani di sana pianta? Lo sapete quanto tempo mi è costato calafatare il comento con la stoppa, il catrame e la pece?

Sovrapporre il paramezzale ai madieri per rafforzare la chiglia, corrosa da ricci e molluschi? Rifissare le costole alla chiglia, con le serrette e i dormienti….”
Io e mio padre ci guardammo negli occhi, in piedi davanti alla barca, senza più capire una parola. Una smorfia della sua bocca, tutta tirata di lato, mi comunicava: Vedi, hai visto che questo qui non è normale?
“… E poi poggiare meglio il fasciame di coperta sui bagli e fissare il fasciame esterno alle costole. E poi sistemare il mascone e il giardinetto a prua e a poppa, che cadevano a pezzi. Per non parlare dello sbilanciamento della barca abbandonata, con l’opera viva che non si distingueva dall’opera morta…”
“Giancà, ma questo che c’entra col patentino- lo interruppe seccato mio padre- Se voi vi mettete a parlare inglese, a non parlare come mangiate a tavola, io qui me ne vado e porto via anche mio figlio. Allora…. Che cos’è che mi avete portato per la pesca?”
Giancarlo, mortificato, mise in mano a mio padre un pezzo di legno lucido, che pareva il manico strappato a un tiretto, avvolto da un rotolo di filo plastificato.
“Questo è tutto? disse mio padre, maneggiando l’oggetto come un rifiuto da bidone – E la canna dov’è?…”
Il Professore alzò gli occhi al cielo, sbuffando, poi tirò fuori dal un sacchetto di cellofan un barattolino di vetro, pieno di piccoli immondi vermetti che ancora si muovevano.
“Cavalie’, voi siete rimasto ancora alla canna? – disse il Professore avvicinandosi alla barca in secca sulla sabbia- Volete per caso anche la fiocina? Qui non siamo sulla baleniera di Moby Dick. C’è tutto quello che serve a pescare da una barca: amo, galleggiante, filo a piombo…È il dessert preferito dei pesci, vermi freschi come neonati, da infilzare con cura nell’amo….”
Mio padre si lasciò depositare sul palmo della mano libera, disgustato, anche il barattolino dei vermi. Lo scafo della barca era incassato della sabbia ancora umida dell’alba. Tutto inclinato da una parte, lasciava poggiare il lunghissimo albero direttamente sulla parete del molo di Casamicciola, con quelle lenzuola arrotolate che pendevano dalla cima e un groviglio di corde penzolanti. Sotto una sola asse centrale che andava da un fianco all’altro per fare da sedile, all’ombra della capannina con la tenda di lino dipinto, si allungavano due remi diversi l’uno dall’altro, di legno vecchio, striato di crepe e fenditure, ma anche anch’esso dipinto a squaletti e stelle marine.
“Mi aiutate a metterla a mare?” disse il Professore.

Vidi l’albero maestro pencolare pericolosamente sopra le nostre teste, mentre anch’io con le mie piccole forze mi aggrappavo ai bordi dello scafo per trascinarlo in acqua. Giancarlo faceva ‘oh!oh!’ ad ogni strappo, e sentivo già mio padre bestemmiare, mentre la poppa dello Squalo Blu lasciava profondi solchi nella sabbia, tra il cigolio delle assi e il crepitio del pietrisco sparso sulla spiaggia. La pala del timone sobbalzò pesantemente, dietro di noi, fino a che la poppa della, spinta all’indietro, non galleggiò sulle prime onde del bagnasciuga. Il barattolo dei vermi rotolò da una parte all’altra del fondo dello scafo e la prima cosa messa in opera da Giancarlo, prima di farci salire a bordo, fu vuotare due pozze d’acqua rancida e algosa con un secchiello da bambino.
“Oplà!”, esclamò il Professore saltando infine a bordo. Si assicurò che mio padre ed io ci fossimo sistemati, l’uno sull’asse trasversale, sotto la tenda di lino della capannina, l’altro accoccolato allo schienale della barca, col costumino già bagnato dall’acqua rimasta nello scafo. Lui, Giancarlo, si appollaiò sopra di me, a poppa, afferrando con sicurezza i manici dei remi ed esibendo due bicipiti tatuati, me ne accorsi allora, a conchiglie e orche marine.
“Vàmos! – urlò al sole crescente, innaffiandomi già con il primo colpo di remi- E col vento in poppa, come si suol dire anche a scuola! Vero secondino?…”

Per il momento il vento non pareva scuotere nemmeno le foglie pendule degli eucalipti allineati sul lungomare, la barca si muoveva e costeggiava la banchina del molo a colpi di remi robusti e faticosi. Ma Giancarlo, tutto inclinato all’indietro oltre la poppa, ci assicurava che quello era libeccio, vento di nord-est favorevole a golette e lupi di mare. In effetti, oltre l’albero che oscillava rumorosamente, con un cigolio di armadio vecchio, la costa dell’isola che si allontanava sembrava già avvolta in una sorta di tremolio dell’aria, come in un’immagine vista attraverso una lastra di vetro bagnata. E quello era il libeccio che, giurava il Professore, portava aria umida dal mare alla terra, aiutando i marinai a non faticare quando era tempo di tornare a riva.
Poi però successe qualcosa che non prevedevamo, e né io né mio padre, piuttosto preoccupato, pensavamo facesse parte dell’arte della barca a vela. Giancarlo, a un centinaio di metri dalla fine del molo, si sollevò in piedi e urlando nella brezza crescente ‘A bientot, Nostalgia e Speranza!’, lasciò scivolare entrambi i remi colorati in mare. Li vedemmo galleggiare sulle onde tranquille, con tutti i loro squaletti e le loro conchiglie dipinte, e viaggiare lontano da noi, ruotando su sè stessi come due cadaveri abbandonati alla deriva.
“Che cazzo state facendo, professo’?” sbottò mio padre. Fui sorpreso che questa volta non lo chiamasse Gianca’.
Il Professore scavalcò le mie gambe, schivò il braccio di mio padre, allungato come a fermarlo dall’asse su cui scomodamente seduto, e lo vedemmo dirigersi deciso verso l’albero maestro, in precario equilibrio sulla barca.
“Nostalgia e Speranza non servono più, Cavaliere, state tranquillo- disse poi, afferrando una manciata di corde- Loro sanno dove tornare, e lo fanno da soli, dopo i loro viaggi brevi o lunghi. Sono bravissimi a seguire la corrente giusta. E i miei compaesani li hanno sempre ritrovati, uno qua, l’altra là, sulla battigia. Li rimettono insieme, se non li ritrovo io, li riconoscono, e riecco Nostalgia e Speranza con me. Due capolavori di colore, se permettete, che si distinguerebbero a un chilometro….”

Mio padre lo fissava come un pazzo, mentre districava un paio di cime dal groviglio di corde e cominciava a tirare, guardando in alto, verso il vertice alto dell’albero. Vedevo le piante dei suoi piedi nudi sollevarsi nello sforzo da una nuova pozzanghera, ed esibire un biancore che contrastava con l’abbronzatura da africano del polpaccio e della caviglia.
Trovai allora il coraggio, anche per sdrammatizzare la situazione e distrarre mio padre sconcertato, di chiedere a Giancarlo cos’erano Nostalgia e Speranza.
Capii subito che non era il momento giusto per formulare simili questioni. Il vento stava crescendo e la barca priva di remi sbandava proprio nella mia direzione, seguendo una traiettoria obliqua rispetto a prima. Vidi mio padre scagliare il rotolo di filo plastificato contro uno dei paletti della capannina, a cui del resto finì con l’aggrapparsi. Era imbufalito. Riuscì a malapena ad accendersi una Nazionale, con la fiamma dell’accendino protetta dal palmo della mano. Ma il Professore non si scompose. Afferrò a due mani la cima che pareva più grossa, legata all’albero maestro, e cominciò a tirare. Poiché il piede d’appoggio, nudo e abbronzato, tendeva a scivolare sulle assi bagnate della barca, pareva a tratti che si aggrappasse alla corda, più di quanto la tirasse. Quella che doveva essere la vela più grossa, ed era in realtà un’artistica composizione di lenzuola bianche cucite l’una all’altra, prese ad aprirsi, a tendersi e a schioccare.

E mentre questo avveniva, come mandate dal vento mi giunsero le parole di Giancarlo, deformate per giunta da un coltellino a serramanico che serrava tra le labbra.
“Se vuoi intraprendere un qualsiasi viaggio- iniziò a urlare- la Nostalgia è il primo remo che devi lasciare andare. È come voler procedere con una zavorra più grande della portata della barca, o con un’àncora perennemente trascinata contro il fondale del mare. Il dolore del ritorno ti guasta ogni piacere dell’andata. Non devi mai partire con la certezza di tornare. La vita da godere è un viaggio di sola andata. Che presente è mai quello di una testa girata verso il passato, ruotata verso la banchina di partenza fino al torcicollo? La vita va lasciata andare. Tu pensi di decidere la rotta e manovrare il timone, di poter far questo per tornare un giorno a casa. Ma nessuna a casa ti aspetta, e se tu immagini e sogni che ti riattenda al varco, hai rovinato il piacere del viaggio e dell’esistenza stessa. E tra l’altro il vento, l’unico dio a cui dovresti affidarti, non ti perdonerà questa superbia…”

Lo schiocco finale della vela maggiore, ora tirata al massimo, ci colpì le orecchie simultaneamente ad uno scossone violento della barca, che si riassestava, e alla bestemmia ai danni della Vergine Immacolata di mio padre la cui sigaretta, dopo avergli bruciato le dita, stava già volando in mare. Non tutte le parole di Giancarlo, tra l’altro così misteriose, così difficili, mi erano giunte alle orecchie. Lo sciacquio delle onde, i tuffi selvaggi della prua nel mare un po’ più agitato, la schiuma bianca che mi schiaffeggiava la guancia, si univano al frastuono della barca, fatto di cigolii, crepitii, colpi alla fiancata, schiocchi improvvisi e schianti.
“E dopo la randa, il fiocco!…” urlava Giancarlo, flagellato dalla schiuma delle onde crescenti. Si gettò su un’altra cima, sbandando, se la avvolse questa volta al polso, e altre lenzuola cucite, più piccole di prima, si levarono poco a poco contro il cielo, come una bandiera bianca garrente al sole.
Mio padre era aggrappato a due mani all’asse mediano, su cui tendeva a scivolare pur seduto. Provò ad accendersi una seconda Nazionale, col braccio sinistro avvolto attorno al palo della capannina, ma le oscillazioni della barca e il vento che spegneva ogni volta la fiamma dell’accendino, rendevano l’impresa impossibile. I nostri occhi s’incrociarono e vidi a un tratto il suo dito indice puntare la tempia come a dirmi: ‘Non vedi che è pazzo? Che domande gli fai?’ Un ciuffo dei suoi capelli corvini, ritoccati dalla tinta, ricadeva su quella tempia già bagnata di schiuma e di sudore e già cedeva a chiazze di canizie sottostante.

“Quanto alla Speranza- proseguì Giancarlo inginocchiandosi sotto la prua per assicurare un fascio di cordami alla base dell’albero-, è una bestia peggiore della Nostalgia. Ti serve a remare fino a un certo punto, per lasciarti illudere di avere un sogno, una meta, una direzione…. Ma poi bisogna abbandonarla, perché t’impedisce di farti sognare dalla vita, anziché sognarla. T’impedisce di guardare la ruota intera degli orizzonti che ti girano intorno, e non uno solo, quello che magari hai criminalmente imposto a te stesso. La speranza, più che l’ultima a morire, è la prima a dover morire, se non vuoi farti ipotecare il futuro a danno della libertà del presente. Cosa spera un marinaio? Di trovare un porto? Sì, ma poi? Si accontenta del porto per il timore di naufragare rimettendosi in viaggio? Ulisse ha fatto forse così? Il vero marinaio vede il porto come uno scalo e non come la destinazione. A lui non interessa arrivare da qualche parte, ma poterci arrivare per ripartire. Lasciamo il remo della speranza ai pesci che se ne possono nutrire per sopravvivere un giorno di più, ma noi….noi abbiamo forse bisogno di farci alimentare da questa sonda intravenosa per la sopravvivenza, da questo accanimento terapeutico per non morire di noia?….”

A quel punto accadde un’altra cosa inaspettata, che mi spaventò al punto da percepire lungo la colonna vertebrale poggiata al fondo della barca un brivido di freddo, accentuato dagli schizzi d’acqua che mi scivolavano tra schiena e assi di legno. Vidi la base della vela maggiore muoversi verso di me, dapprima lentamente, poi prendendo velocità, e finendo con il ruotare come un boomerang impazzito sopra la mia testa e quella di mio padre, che stava in quel momento piegandosi per raccogliere il rotolo della pesca. Giancarlo si getto incespicando sulla cima di prima, quella della vela maggiore, che si era nel frattempo srotolata. Nel vento carico di spruzzi, e con la barca che virava attorno a sé stessa, udimmo delle parole che il Professore ci avrebbe spiegato solo dopo, urlate con una strana intensità, fatta di paura scansata e di euforia.
“La boma, cazzo, la boma!….Tu non dovevi strambare, Squalo Blu, non te l’avevo chiesto! Il libeccio fa brutti scherzi, quando cambia direzione, la deriva mi tradisce e lo scarroccio manda tutto a puttane….”

Raddrizzata la vela maggiore, il Professore, senza perdere la calma ma con una rapidità da scimmia, balzò sotto il boma- capimmo subito che il boma era proprio la base di legno che ci avrebbe scaraventati in mare se ci avesse colpiti- e sputando acqua e sudore agganciò un cavo di metallo a un anello in fondo alla banchina di prua. A quel punto la barca, come un ubriaco barcollante che dopo una botta sul cranio abbia ripreso di colpo il controllo di sé, prese a filare liscia, solcando il mare azzurro e schiumoso con un’andatura obliqua che pareva puntare, dietro una leggera scintillante foschia, il lontano promontorio di Sorrento.
“Andiamo di bolina! annunciò misteriosamente il Professore, tornando ad appollaiarsi a poppa con il braccio sulla leva del timone- 45 gradi! E il libeccio, questo pazzerello, ci sculaccia a sinistra, in appoggio!…”
Nel dire questo aveva estratto dalla tasca con la mano libera una bussola piccola come un dado e fatto il gesto di succhiarsi il dito medio, per poi esporlo al vento. Fra i fischi e gli schianti delle vele, che garrivano come gabbiani al vento, udimmo una specie di strappo violento, come di tessuto lacerato. Vidi mio padre, alle prese con il rotolo di filo di pesca, sollevare allarmato gli occhi verso il pennone dell’albero.

“Gianca’ scusate tanto- disse girandosi verso il timoniere, che pareva distratto da mille incombenze su quella barca- Ma dovevate mettere proprio il bucato di casa al posto delle vele?…”
Non so se per un altro colpo di vento o per una reazione nervosa del Professore, la barca ebbe uno scossone che la inclinò tutta dalla mia parte, tanto da sollevarmi i piedi contro il cielo e tuffarmi l’intera nuca nell’acqua salata. Mio padre stesso scivolò col sedere sull’asse slittando nella mia direzione e afferrandosi ai miei polpacci per evitare di schiantarsi a poppa. Le sue labbra vennero a trovarsi non lontano dal mio orecchio quando mi raggiunse la più pesante fra le sue bestemmie, quella contro lo Spirito Santo. La barca filò per una trentina di metri così inclinata a pelo d’acqua, finché il bicipite tatuato di Giancarlo afferrò una specie di palo di ferro sporgente dalla poppa, che non avevo visto prima, e si allungò tutto su un fianco dalla parte opposta, torcendosi a pelo d’acqua come un alligatore, con metà corpo fuori dallo scafo. A poco a poco lo Squalo blu si raddrizzò e tutto tornò come prima, anche se mio padre livido di rabbia aveva deciso di sedersi acanto a me all’interno dello scafo, a poppa, e io sentivo la banana della colazione venirmi su dalle mucose dello stomaco.
“Cavaliè, disse il Professore come se nulla fosse, lo sapete di cosa erano fatte le vele al tempo dei Fenici? Di fibra di canapa, di lino…..e si viaggiava benissimo. Se morivano in mare, o non riuscivano a portare il mais o l’olio a destinazione, non era perché si rompevano le vele. Ovviamente erano materiali che piacevano al mare, bio-de-gra-da-bili si direbbe oggi, come il cotone del resto, e i pesci se ne potevano cibare senza crepare…Ma secondo voi, io mi vado a comprare il dakon, il kevlar, il mylar, e tutta quella robaccia sintetica che offende l’intera rosa dei venti e fa venire persino la nostalgia del nylon? Le lenzuola di mia nonna erano resistenti come acciaio già un secolo fa, e tali sono rimaste. Un corredo quasi tutto in cotone pregiato, che era un peccato lasciare lì ad ammuffire nella naftalina della cassapanca. Ad uno ad uno, ho cucito con la vecchia Singer nove lenzuola matrimoniali (i nonni non badavano a spese) e sette singole. L’unico rammarico è che non avuto ancora il tempo di dipingerle, ma l’idea c’è: il golfo di Napoli sulla randa, l’isola di Capri sul fiocco….”
Nel parlare così, Giancarlo non sembrava aver badato più che tanto al timone, sicché la prua ora aveva descritto una gran curva che mi aveva fatto sfilare sotto gli occhi come una pedana girevole, da lontano, l’intera penisola sorrentina, oltre che un orizzonte punteggiato da pescherecci, golette e motoscafi, e nessuna imbarcazione più piccola del nostro guscio di noce. Mio padre allungò d’istinto il braccio verso il boma, che sembrava tremare minacciando di rollare una seconda volta sopra le nostre teste.
“Gianca’, guardate dove andate, per favore, gridò mio padre parandosi con la mano il sole che batteva sulla schiena del nocchiero, voi portate sta barcarola con troppa distrazione. C’è un ragazzino di undici anni dentro…”

Il Professore si limitò a riafferrare la leva del timone con maggiore convinzione e, fissando la nuca di mio padre, proseguì:
“Le lenzuola non sono fatte solo per dormire, ma anche per fuggire. Lo sanno gli ergastolani, che guardano il cielo attraverso le sbarre e sognano di annodarne tante, proprio tante, per evadere. Io non annodo, cucio. E cucendo aggiungo questo ad ogni altro elemento che mi serve per evadere, per sapere di non essere solo. Faccio sposare le lenzuola col vento, il letto con la libertà. Talvolta sogno di fuggire dalla finestra sdraiato sul materasso, tra fresche lenzuola, supino sulla più meravigliosa delle piattaforme volanti. Uso l’acqua del mare come strada, l’aria degli oceani come motore. Anche i gabbiani, gli animali più liberi su questa terra, lo sanno loro che non hanno mai vissuto le sbarre di una gabbia domestica. Il bucato che dice lei, cavaliere, è sinonimo di bianchezza, freschezza, libertà. Ha mai notato la bellezza delle lenzuola bianche sventolanti come bandiere da un filo teso su un prato, nel vento, al passaggio di un treno?…”
Io non capivo più a chi il Professore stesse parlando. Le sue parole si perdevano nel libeccio, divorate dallo sciabordio delle onde sempre più schiumose, più veloci. Mio padre gli voltava duramente le spalle. Girava tra le dita il barattolo dei vermiciattoli da pesca e li fissava con disgusto, mentre si muovevano brulicanti dietro il vetro. Poi accade che davvero un gabbiano, bianco ed enorme, come evocato dalle parole di Giancarlo, si posasse sul pennone più alto dell’albero e rimanesse lì, senza alcuna fretta di volarsene via, con la peluria delle ali tremolante nel vento.
Tra le mani di mio padre vidi spuntare il manico di tiretto avvolto dal filo di nylon. Si era deciso a pescare, senza nemmeno chiedere l’aiuto di Giancarlo. Ma già l’estrazione dell’amo in cima al filo, come udii, gli costò una prima trafittura al dito e l’ennesima bestemmia.

“Cavalie’, che state facendo? – urlò il Professore nel vento abbandonando il timone- Aspettate che orziamo un poco e poi ci mettiamo di lasca, così che il mure ce lo mettiamo sotto vento…Vado a smollare la scotta del fiocco….”
Il Professore, barcollando in piedi nel vento dopo il suo delirio di parole, andò ad afferrare la cima della vela piccola, facendo inclinare ancora una volta la barca dalla mia parte. Il gabbiano aprì le sue ali enormi, senza fretta, e se ne fuggi verso un faraglione vicino, d’una pietra nerissima.
“Qui sì andremo a traino Cavaliere, visto che il libeccio non ci consente di fermarci – prosegui il Professore- Qui si acciuffano totani, cernie, corvine, ombrine, palamiti, lampughe. Anche piccoli tonni, se va bene…”
Ricadde accanto a mio padre e lo aiutò a sbrogliare il filo di nylon, poi a sistemare il galleggiante e ad infilare un vermetto all’amo. La barca se ne andava nel frattempo per conto suo, col timone abbandonato a sè stesso e le lenzuola che sbattevano al rombo del vento. Già il faraglione di roccia nera pareva più vicino e sembrava proprio che la prua lo puntasse, sobbalzando allegramente sulle creste oblique delle onde.
La domanda che mio padre rivolse a quel punto al Professore, impegnato ad insegnargli come afferrare il manico del tiretto e a gettare amo e galleggiante oltre il bordo dello scafo, mi giunse smorzata dal frastuono del libeccio.
“Giancà, perdonate… ma com’è che avete detto che il vento non ci consente di fermarci? E l’àncora che ci sta a fare?”

Il Professore allora rise fragorosamente, proprio mentre una specie di cavallone attraversava la barca e si abbatteva su noi tre, infradiciandoci. Allungò un braccio, come nulla fosse, verso il fondo della poppa e ne estrasse un piccolo retino per i pesci, che sistemò accanto a mio padre.
“Questo per non afferrare il pesce viscido e squamoso con le mani, Cavaliè. Magari un cefaletto col sangue al muso vi fa anche schifo…. L’àncora, avete detto? Ho capito bene? Avete visto un àncora per caso, Cavalie?….”
Allungò poi un’asciugamani colorata e consunta a mio padre, che la rifiutò con un gesto di stizza. Preferì rimanere bagnato come una seppia, con i capelli nero corvini schiacciati sulle tempie e stinti dall’acqua del mare.
“L’ancora è figlia della terra- proseguì Giancarlo riprendendo il timone- E anche nel mare continua a cercare quel fondale di terra che noi, proprio scegliendo la libertà del mare, vogliamo evitare. Fermarsi in mezzo a questa meraviglia, tra il profilo del Vesuvio laggiù in fondo, Capo Miseno, Capri e Meta di Sorrento, vuol dire offendere la bellezza, Cavaliè, fare opposizione all’aria e all’acqua, ai venti e ai mari, a tutto ciò che abbiamo scelto per partire senza tornare…”
“Come, senza tornare? urlò mio padre. Ma che cazzo state dicendo?”

“Cavaliè calmatevi, e cominciate a guardare il galleggiante. Lo vedete quel pezzo di sughero, quel tappo rosso di buon vino ischitano che gioca e saltella sui giochi delle onde? A lui che cosa interessa di un ancora che lo fissi al suolo prima di andare sotto il pelo d’acque perché un cefaletto ha abboccato? E francamente sarebbe ancora più contento se il filo vi scappasse di mano e lui potesse, chi sa, fuggirsene tra i cavalloni verso il sud, magari varcare lo stretto di Messina e viaggiare nell’aperto Mediterraneo, e poi ancora ad ovest verso Gibilterra, penetrare le colonne d’Ercole e far perdere traccia di sé nell’Atlantico….Uno spazio davanti a sé dove finalmente l’orizzonte non si veda. L’àncora…. Ce l’avevo un giorno, anzi ce l’ho ancora, un blocco di ferrovecchio dietro uno scoglio di Barano, arrugginito da dieci anni di onde e mareggiate. Mollare gli ormeggi, è sempre stata la mia gioia, mollare ciò che ti lega, ti frena, ti ancora, appunto. Cosa c’è più da temere dal mondo, dall’acqua e dal vento, se noi di questo in fondo siamo fatti? Già da bambino odiavo la vasca da bagno, coi suoi invalicabili confini di marmo, e chiudevo gli occhi sotto la schiuma per immaginare che quella vasca fluttuasse nel mare aperto, senza bordi e senza mura, abbandonata alle correnti come una barchetta di carta…”
“Voi siete proprio malato di mente”, disse mio padre, non a così bassa voce che il Professore non riuscisse a sentire.
“Perché dite così, Cavaliere? Mi fate torto e dispiacere. Siete venuto in questo paradiso d’acqua solo per pescare?”

Mio padre borbottò qualcosa d’incomprensibile, rimanendo a fissare ostinatamente il rosso sughero del galleggiante sulle onde. imbronciato come un bambino che mediti una vendetta.
“Speriamo-disse poi chiaramente- che almeno ad Alessio trovi divertente questa gita di pazzi …”
Desiderai che mio padre, seduto all’estremità dell’asse e tutto curvo sul suo filo teso nell’acqua, si voltasse per guardarmi. E vedere la felicità che in quel momento doveva luccicare al sole sul mio viso bagnato d’acqua salata, malgrado il precario equilibrio della mia schiena nel fondo della barca e gli schiaffi delle onde che a tratti, quando Giancarlo virava, colpivano le mie guance. Non capivo molto di quello che diceva il Professore. Capivo solo che la sua visione delle cose era l’opposto di quella di mio padre, e che quella visione, anziché spaventarmi, mi faceva respirare meglio. Nella luminosa foschia del mare, dove l’aria tremava, punteggiata da una specie di polline di luce frastornato dal vento, intravedevo la piccola sagoma dell’isola di Capri che uno stretto braccio di mare separava dal promontorio di Sorrento, a forma di pesce spada. Ecco, mi dicevo, laggiù l’orizzonte marino aveva due varchi per poter salpare per le mie colonne d’Ercole: il mare aperto e profondo, privo di ogni riva o roccia emersa, che si spalancava sulla destra di Capri (o a dritta, come diceva Giancarlo), e quel meraviglioso braccio d’azzurro fra le due rocciose coste. Lì avrei voluto che la barca del Professore s’insinuasse, zigzagando sui cavalloni, col più fresco dei venti in poppa, sino a portarci di là, oltre lo stretto di Messina, nel Mediterraneo aperto. Da lì sarebbe stato un gioco sognare Gibilterra, quella terra dal suono così magico, così prezioso, per poi dileguarci nell’Atlantico, con la libertà del tappo di sughero dipinto fissato ora da mio padre e che tirava, tirava, danzando sui riccioli delle onde, quasi volesse staccarsi dal filo.

“Cavaliere, annunciò a un tratto Giancarlo, adesso tenete bene il filo tra le mani! E la testa bassa, mi raccomando. Il vento ha cambiato direzione e ci soffia dritto nel culo. Randa al centro! Attenzione alla strambata. Cazziamo randa e fiocco, e andiamo a farfalla, come gli antichi Vichinghi. Tu, secondino, non ti muovere di lì….”
Era da un’ora che io non mi muovevo, o per lo meno chi mi muoveva e mi strattonava di qua e di là erano le oscillazioni dello scafo, dove sempre più numerose erano le volte che Giancarlo vuotava le pozze dentro la barca con un secchiello da bambino. La pozza nella quale oramai sedevo fluttuava sotto le mie gambe ripiegate da un bel po’, ma non mi dava fastidio, innaffiato com’ero dai balzi delle onde. Il Professore abbandonò ancora una volta il timone e, mentre il barattolo dei vermi rotolava dai piedi di mio padre verso di me, si aggrappò al palo dell’albero alto, che oscillava paurosamente sotto uno stuolo di gabbiani. “Attenti! Randa in centro! – ripeté fradicio d’acqua e schiuma. Sciolse un paio di cime dai ganci, altre ne lasciò scorrere e rotolare con un rumore di sega nel legno, poi una specie di frastuono precedette lo spostamento pauroso della vela grande. Vidi passarmi ancora sulla testa il boma, quell’asse di quercia –o almeno così mi pareva- che avrebbe potuto portare via la testa a un gigante e fiondarlo in mare. Mio padre bestemmiò San Francesco, santo per lui minore, col manico di tiretto stretto in mano, ma solo per esprimere l’emozione dello scampato pericolo.
“Come cazzo faccio Gianca’ a tenere qui sto filo di merda|- diceva- Questo si spezza…. Non vedo più neanche il sughero, è a mezzo chilometro….”
In effetti, con le lenzuola tese al massimo e il libeccio che le gonfiava come mongolfiere, lo Squalo Blu aveva preso a filare tra le onde come un razzo, cigolando e strepitando, come se mille diavoli si fossero risvegliati dall’inferno. L’andatura a farfalla, come la chiamava Giancarlo, somigliava piuttosto a quella di una libellula impazzita, dal volo obliquo e sbilenco. Mio padre dunque faticava a tenere quel filo tesissimo, il galleggiante scompariva e riappariva tra i flutti spumeggianti e il manico del tiretto gli scivolava tra le dita. Il pilota di un piroscafo bianco, che procedeva lento alla nostra sinistra, ci fissò preoccupato dal volante del timone, e ci urlò qualcosa di sgradevole. Da un peschereccio, poco più lontano, partì un suono minaccioso nel rombo del mare, tra la sirena e il muggito di un toro.

“Potete andare più piano, Gianca’, porca Ma….?!- urlò mio padre.
Il Professore rise ancora, con una mano afferrata al timone e l’altra alla barra esterna, dove usava aggrapparsi per controbilanciare con tutto il corpo, come ci aveva spiegato, la barca inclinata.
“Andare più piano?… Cavaliè, ma avete presa la barca per un trattore? Qui è il vento che decide la velocità, e quando s’alza bello potente è un grande spreco non farne l’unico motore dello Squalo… Lasciatevi andare, Cavalie’. Godetevi questa brezza, questa schiuma in faccia….Le vedete laggiù quelle macchie nere sull’acqua? Sono i giganti del mare. I faraglioni di Capri. E non vi preoccupate, sono troppo lontani per andarci a sbattere….”
“Io non vedo più neanche il galleggiante, rispose mio padre, secondo me il filo si è spezzato o sto tirando qualche scarpa vecchia….”
“Si tende, si tende, Cavaliè, abbiate fede….Li vedete quei due cormorani che galleggiano vicino al vostro filo? Stanno aspettando la pappa. Sanno che sì sotto si incrociano dentici e pesci spada….”
La risata del Professore, rannicchiato come un macaco lì al timone di poppa, si liquefece nel vento che lo investiva alle spalle. Poi morì di colpo quando udimmo tutti un ennesimo fragore di tessuto lacerato e sollevando gli occhi vedemmo al posto della vela piccola, attaccata sotto la penna dell’albero, una bandiera bianca, lunga e sbrindellata, che sventolava come quella di una zattera alla deriva, con le sue quattro lenzuola matrimoniali cucite.
“Il fiocco, cazzo, il fiocco!” urlò Giancarlo avventandosi sull’albero maestro e pestandomi un polpaccio nella frenesia. La barca cominciò a ruotare su stessa. Mi ritrovai la schiena di mio padre, che cercava ancora il galleggiante in mare, dalla parte opposta, contro il profilo lontano del Vesuvio. Ora il filo di nylon si avvolgeva attorno allo Squalo Blu come un fuso.
Il Professore non smarrì la calma. Cercando di non perdere l’equilibrio sulla barca che rollava come una trottola, gettò uno sguardo da capitano su quella singolare bandiera, che un minuto prima era una vela, e che sarebbe potuta apparire alla Guardia Costiera dell’Isola, per fortuna latitante, la segnalazione di un naufragio. Poi decise. Si sollevò sulle punte dei piedi nudi e arpionò con due mani d’acciaio le lenzuola, per poi strapparle violentemente. Rimase l’intelaiatura triangolare della vela piccola, attraverso il quale si vedevano il cielo assolato, i paesini dell’isola e i grappoli di casette alle falde del monte di Somma.

“Addio fiocco! urlò soddisfatto Giancarlo tornando al timone con un fiatone da mantice e il rotolo delle lenzuola sotto il braccio, che sistemò sotto la poppa- Se ne può anche fare a meno… E ora raddrizziamo lo Squalo Blu, il più fedele amico tra quanti ne ho mai avuti. La crociera riprende!….”
Lo squalo si raddrizzò in tempo, prima che lo stomaco, sottoposto a tre minuti di vortice, mi si ribellasse riversando tra le assi della barca latte e banana. Mio padre, per conto suo, si abbandonò supino in fondo allo scafo, sfinito, con il filo di nylon tutto arrotolato su un polso, e per qualche minuto non andò oltre la sentenza:
“Gianca’, siete un criminale.”

Procedemmo per qualche minuto su un mare sempre più increspato, ma che pareva non infierire sulla nostra barca a vela unica, malgrado le onde si abbattessero sempre più pesanti dietro la mia nuca e la randa, come la chiamava il Professore, fischiasse sotto la pressione del libeccio, con la minaccia di lacerarsi anche lei. Il sole delle dieci aveva iniziato a battere sul mio viso bagnato, ma l’acqua e il vento fresco del mare attutivano l’effetto torrido dei raggi. Lo Squalo blu s’insinuò fra golette, piroscafi e pescherecci, filando con una andatura che Giancarlo definiva non più di bolina, ma di traverso, col rombo del vento che pareva volerci spostare da ogni traiettoria dritta e continuava a inclinare lo scafo, far tintinnare l’albero, gonfiare l’unica vela rimasta. Dalle altre imbarcazioni ci guardavano stupiti, talvolta costernati, come dei profughi o dei pirati (il Professore s’era messo sul capo una bandana da cui sporgevano ciuffi di capelli rosso fuoco). Mio padre si ostinava a rimanere steso supino sulle assi della barca, senza più godersi il sole, il vento, la gita. Non bestemmiava più, ma questo era il suo atto di disappunto, di sprezzante ribellione.

Barca alla deriva – parte seconda

Autore: Roberto Caracci

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