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Barca alla deriva – parte seconda

da | 17 Apr, 25 | Letteratura |

b) Tregua del vento in mare aperto

Dopo una mezz’ora ci trovammo in mare aperto, e tra barcollamenti, virate e nuove strambate, Giancarlo osò sollevarsi in piedi a poppa, e rimanere lì, come una statua della vittoria, i ciuffi rossi al vento, e il timone mollato, in un gesto di trionfo e di sfida che lo faceva somigliare a un ammiraglio impazzito dopo la battaglia. I calzoni gialli erano uno straccio intriso che gli grondava sulle ginocchia.  E poiché mio padre non lo ascoltava più, il Professore cercò i miei occhi per la prima volta e si rivolse a me, proprio a me, come fossi un uomo.

“Hai paura, piccolo? urlò nel vento- Hai paura, perché ho abbandonato il timone? E a cosa serve il timone? Per andare da qualche parte, giusto? Ma noi abbiamo bisogno di andare da qualche parte, secondo te? Non è molto più bello, mille volte più fantastico, non andare da nessuna parte, eppure andare? Vedi, mio secondino, noi potremmo scegliere come nostra meta l’isola di Procida, la vedi? detta l’isola dei carcerati…E’ vicina, potremmo arrivarci in un paio d’ore. Oppure il porto di Anacapri, laggiù, nell’isola che già piaceva a quel criminale, lui sì, Tiberio imperatore romano…l’avete fatto a scuola? Potremmo puntare su Napoli, vedi quella linea scura là in fondo?  Mergellina, Posillipo….otto ore e ci arriviamo. Oppure la meta potrebbe essere, senti qua, Meta di Sorrento… non è divertente il gioco di parole, ma ci sta. E tu, piccolo, sì anche tu che non ti sei spostato tutto il tempo da quella pozzanghera a poppa….preferisti arrivare a uno di questi porti, o continuare a navigare, circondarti solo di acqua sconfinata, di sole pieno e di vento? Vuoi forse tornare a casa? E tornare a casa non è come puntare su quei porti dove la terraferma ti aspetta solo per risucchiarti e mettere fine a tutto, al tuo navigare, al tuo perderti, al tuo andare?… “

“La volete smettere …Gesù Cristo! -gridò all’improvviso mio padre, risollevandosi- Potete riportarci a casa, a questo punto, anziché continuare a sparare puttanate…. E lasciate stare per favore il bambino, altrimenti mi rischia di crescere come voi, squilibrato…Basta!”

Mio padre era davvero arrabbiato, me ne accorgevo dalle vene del collo e dalla pelle che gli si era infiammata, e non era solo scottatura di sole. Il pittore per tutta risposta si ficcò il medio in bocca, poi lo espose al vento, e non sembrava solo un gesto da marinaio.

“È strano, disse cambiando espressione, il vento si sta riducendo. Quando cade il buon libeccio, resta in mare il peschereccio…”

In effetti, la vela grande non schioccava più come prima e Giancarlo riusciva a rimanere in piedi a poppa, tranquillamente, senza vacillare.  Le onde scivolavano oblique verso di noi, scintillando sotto un sole che si faceva sentire ora più intenso. E io ne potevo approfittare per raddrizzare la schiena e spostarmi accanto a mio padre sull’asse dove lui si era riseduto, girando tra le dita nervosamente il manico del tiretto, con l’intero filo ancora penzolante nell’acqua.  Gli misi un braccio sui fianchi, per dare il mio piccolo contributo a calmarlo, così come si stava calmando anche il vento. Lui ebbe un leggero brivido, quasi stupito dal mio gesto, e mormorò a bassa voce: ‘Beata incoscienza. Almeno ti diverti tu. Io non ho più l’età per sopportare un evaso dal manicomio…’”

Lo Squalo Blu continuò a fluire sull’acqua in mare aperto, ma il rombo del vento stava cedendo ad una brezza sottile, piacevole, che però non gonfiava più la vela. Le lenzuola della randa dapprima si spiegazzarono come sdrucite, manifestando sotto il cielo teso e azzurro la loro reale natura di lenzuola da corredo matrimoniale, poi si afflosciarono attorno all’albero maestro, vibrando all’aria senza più alcuno schiocco.

“E adesso che succede?” disse mio padre in quel silenzio che nessuno si aspettava, rotto solo dal fruscio tranquillo delle onde e dal muggito di una nave lontana che usciva dal porto dell’isola.

“Succede che adesso sì che potete pescare, cavaliere –rispose Giancarlo asciugandosi togliendosi la bandana e passandosi l’asciugamano sulla testa- Volevate la pace? Ed ecco la pace. La grande alleata dei pescatori doc…”

“Ma quale pace, professo’, io voglio tornarmene a casa.”

“La casa eccola là. Se strizzate gli occhi al sole e puntate nella direzione del mio dito laggiù, su quella collina sotto la montagna, riuscite a intravedere un puntino rosso, più rosso degli altri. È il tetto del nostro villino. Una trentina di chilometri. La casa è lì e non si sposta. Ma per il momento è poco meno lontana da noi del pianeta Venere….”

Mi sforzai anch’io di strizzare gli occhi e scorgere il tetto del villino. Ma non vedevo nulla. L’isola mi pareva lontanissima, era una macchia nebbiosa di roccia e boscaglie in mezzo al mare, dove anche i paesotti si perdevano nel grigio e nel verde. C’eravamo davvero allontanati. Non pareva ora invece tanto più lontana, dietro le spalle, quell’isola di Procida dove il Professore diceva ci fossero i carcerati. Lasciai spenzolare il braccio nell’acqua del mare, in quel punto azzurra e profonda. Nella trasparenza delle onde, che mi colpiva per la prima volta, scorsi una flottiglia di pesciolini guizzare sotto lo scafo. Quella scintillante fauna di mare non sfuggì a Giancarlo, che sollecitò mio padre a rigettare l’amo.

“Tutta manna per voi, Cavalie’! Questa è la vostra grande occasione. Stasera … frittura di paranza!”

Ma mio padre si girò verso Giancarlo e lo fissò dritto negli occhi, con una ruga sulla fronte che non mi piaceva.

“Non avrete mica detto sul serio che questa barcarola, oltre ai remi, non ha neanche il motore….”

Il vento era caduto del tutto. La barca scivolava dolcemente sull’acqua ma pareva quasi ancorata al fondo del mare. La prua aveva preso a ruotare lentamente, davanti ai miei occhi, insieme al promontorio lontano della penisola sorrentina. Era la prima volta nella mia vita che mi trovavo fermo in mezzo al mare.

“Il motore è il vento, Cavalie’, e se non c’è il vento, lo si può attendere, tranquillamente, senza sfidare la sua assenza mettendoci al suo posto uno scoppiettante aggeggio di metallo che succhia benzina.  Una vita senza motore. Ora qui c’è solo da aspettare che la vita si rimetta in moto, anche se sotto di noi, sotto questo scafo fermo sulla tavola del mare, c’è un’altra vita, dalla quale forse veniamo, liquida e salata. Se non dobbiamo temere il vento, che è il motore anche nelle grandi burrasche, non dobbiamo temere neanche l’acqua, che ci ha allevati dal primo giorno e ci sostiene come questa barca: non dobbiamo temere l’aria, che ci aspetta da sempre; non dobbiamo temere neanche la terra, che come ci ha nutriti così vorrà nutrirsi di noi. Aspettando che il vento ritorni, retrocediamo al tempo di prima, quando aspettavamo di nascere, o qualcuno aspettava per noi. Eternità, solo eternità prima del tempo. Che cosa faremo per tutta l’eternità se non attendere di nascere, o rinascere? Come si chiama l’attesa eterna di rinascere se non…. morte?”

“Gianca’, sentite, voi dovete farvi ricoverare –disse mio padre, rigirandogli le spalle- Se volevo sentire una predica, me ne andavo a Messa, non mi facevo intrappolare in questa schifezza di scodella…”

“E’ il libeccio, Cavaliè. Il libeccio, come la vita, fa di questi scherzi- proseguì il Professore volgendo lo sguardo verso me e fissando le mie ginocchia sbucciate- A un certo punto se ne va e ti pianta in asso. Allora tu sprofondi nell’immobilità del mare, sopra o sotto la superficie dell’acqua, e non ti resta che attendere. Ma attendendo sei ancora qualcosa, anzi sei forse più di prima, quello che attendeva eternamente di nascere e rinascere.  Ma non può più perdersi, perché si riassorbe negli elementi di cui è formato, che lo hanno nutrito, ed esiste ugualmente. Alessio ad esempio…”

“Lasciate stare mio figlio, pezzo di merda…”

“Carmelo, allora, Giovanni, Nicola….- il Professore guardava ancora me, come trasognato, a piedi nudi al centro della barca, ignorando mio padre – sprofondano in questo silenzio, in questa attesa, e si ricordano di non essere Carmelo, Giovanni, Nicola….di non aver bisogno di essere questo per esistere, e per giunta il misero tempo di una vita, ma essere venuti dalla dissoluzione, dallo scioglimento, dal senza nome di un paesaggio, ad esempio, come questo incanto del golfo di Napoli. Cosa ci può accadere se attendiamo troppo, se ore, giorni, anni passino prima che il libeccio si ridesti? Marciremo nella barca come i diecimila naufraghi che furono ritrovati scheletri in pieno oceano, su zattere, scafi arrugginiti, relitti di gusci di noce? Ebbene, anche se fosse? Si finisce sulla terra, che è madre, così come si è iniziato. Si viene riassorbiti, punto e basta. E il sole è con noi, l’aria è con noi, l’acqua del mare è con noi. Un giorno questo pianeta esploderà e sarà con noi anche il fuoco, l’elemento padre che mai ci abbandona. Io mi chiamo Giancarlo. Perché ci tengo tanto ad essere Giancarlo? Una notte ho dipinto un quadro con una finestra che dava sul vuoto e l’ho intitolato Autoritratto.  Noi non ci siamo molto prima di essere, ma saremo il nostro non essere Giancarli, Carmeli, Nicola, come non lo siamo mai stati. Eppure siamo. E il mondo c’è. E noi facciamo parte del mondo come di questo mare d’Ischia. Saremo sempre, ma nessuno ci chiamerà per nome. Come nessuno adesso sa nulla di noi, e se ci venisse in soccorso non verrebbe veramente in soccorso di noi, ma di Giancarlo, del cavaliere, di Ale….”

“Smettetela di farneticare….”

“…E di altre comparse.”

Fui contento di vedere che, mentre il Professore mi fissava e pareva parlare, ispirato come un sacerdote, esclusivamente a me che lo capivo poco, mio padre si era deciso –pur di ignorare il pazzo- a rigettare l’amo e il galleggiante in acqua. In quell’improvviso silenzio in mezzo al mare, dove le parole di Giancarlo suonavano come preghiere o come bestemmie, non avrei saputo stabilirlo, mio padre sembrava volersi chiudere in un mutismo esasperato. Ogni tanto si girava verso me e mi gettava un’occhiata furiosa, complice e insieme allarmata, come se potessi rischiare di farmi incantare da quel delirio.

Il Professore tacque all’improvviso, sedendosi a poppa come su un pulpito. In quel momento forse si accorse, in mezzo al silenzio del mare, di quanto poco fosse ascoltato, di come neanche i gabbiani che sorvolavano la randa afflosciata fossero interessati alle sue parole. Mio padre, con lo sguardo fisso e torvo sul sughero rosso del galleggiante, continuava a voltargli tenacemente le spalle. Io, accanto a mio padre, ma seduto con le ginocchia tra le braccia in direzione del timone, osservavo la scia lontana lasciata da una nave da crociera, in direzione di Sorrento, e la confrontavo con quella bianca, spumosa, di un aereo che pareva lasciare dietro di sé nell’azzurro del cielo un fumo bianco di nuvole in corsa. Le nuvolette spuntavano dalla coda e si allungavano a fiocchi, poi ad una ad una ad una, a partire dall’ultima in coda sfumavano, si sfilacciavano nell’azzurro che le riassorbiva. Tutto questo lo osservavo dietro le spalle abbronzate di Giancarlo, che pareva sovrappensiero, immobile in uno strano momento di silenzio, a godersi il sole col viso verso l’alto, a fiutare il minimo alito di vento, a cercare un interlocutore. Poi mi sentii i suoi occhi addosso e non potei fare a meno di incrociarli.

“Questo bambino, Cavaliè- disse- ce l’ha un berretto?”

Mio padre non rispose, e allora Giancarlo infilò un braccio nella sacca dello zaino e ne tirò fuori un vecchio cappello di paglia, unto e sbrindellato, che mi calcò sul capo a piccoli colpi di mano.

“Ecco qua, il mio piccolo John Wain è pronto a sfidare il sole del Mediterraneo…”

La paglia mi pungeva un po’ la cute, ma il sorriso del Professore, che si stiracchiava sulla poppa in quella calma di mare assoluto, mi fece sentire meno solo.

Allora mi feci coraggio e dalle mie labbra uscì spontaneamente una seconda domanda per Giancarlo. La formulai a bassa voce, un po’ tremolante, sperando di non essere udito da mio padre, che in quel momento non sembrava tra noi.

“Don Luciano ha detto che un giorno risorgeremo con la nostra anima e il nostro corpo…. Ad uno ad uno. Come faremo a salire tra quelle nuvole, se non ci chiameremo più come ci chiamiamo?….”

Una bestemmia contro San Gennaro annunciò che mio padre aveva in quel momento tirato su un amo senza più esca, e doveva riporre mano a quegli schifosi vermi nel barattolo. Qualcosa aveva perduto sotto quelle onde terse.

Vidi Giancarlo stordito, quasi imbarazzato, per quanto avevo detto. Distrasse gli occhi da quella specie di alunno timido di cui finora non si era interessato, a parte il berretto di paglia, e fissò un punto oltre la mia testa, in direzione di Capri. Poi il suo sguardo tornò su di me, come trasformato, più umido, giovanile, e infine una gran risata pose fine a quel momento di stupore.

“E già, il mio secondino, come in cielo così in terra…. E perché non come in terra così in cielo? Risorgeremo sì, ma senza accorgercene, senza saperlo, perché il tuo ‘ad uno ad uno’ sarà un noi senza memoria, e forse solo un grande uno che non si è mai dimenticato di essere uno…. E’ difficile, lo so, piccolo, tu sei ancora all’analisi logica, ma devi sapere che nella vita c’è qualcosa che muore e qualcosa che non muore, perché resta sempre vivo….Quello che resta sempre vivo non siamo noi e non sono io, Giancarlo Mangone, ma è qualcosa che resta senza noi come io, senza io come noi, senza il nostro nome e cognome. Sai cosa vuol dire dimenticare di esistere, dimenticare di essere esistiti, ed esistere lo stesso? Vuol dire che non c’è qualcuno che ricorda e dimentica, ma qualcosa…. E di quel qualcosa siamo fatti, senza sapere né che cos’è nè chi saremo quando il qualcosa ci riassorbirà come granelli di sabbia…. Resteranno le spiagge, resteranno anche tutti i granelli, ma non sapranno di essere granelli, e di chiamarsi Giancarlo o Alessio. Gli alberi fioriscono verso l’alto, ma l’alto non può dettare legge alle radici da cui dipende….E in quelle radici ci siamo tutti noi, ad uno ad uno, una sacra inviolabile poltiglia che farà da humus per altri come noi, con un nome e cognome dalla scadenza segnata biologicamente…un secolo se va bene. Se qui affondiamo i pesci si nutriranno di noi e qualcun altro come noi dei pesci…. Che cosa cambia se al posto di Giancarlo Mangone, a mangiare i pesci che hanno mangiato lui, c’è Giovanni o Matteo? E’ la memoria la nostra rovina, ne siamo abituati e viziati, vorremmo che fosse eterna e ci seguisse nei secoli dei secoli…. Per questo vogliamo risorgere ad uno ad uno, per ricordarci di essere esistiti, per fare, scusa la parola da Professore, tradizione di noi stessi, storia che non è più neanche storia, perché è infinita. Una follia. Ben vengano i don Luciani per farci sperare. Ma una vita di sola speranza non è una vita sprecata?….”

Quest’ultima frase mi era un po’ più chiara delle altre. Speranza si chiamava uno dei remi abbandonati a inizio viaggio. L’altro si chiamava Nostalgia. Giancarlo me lo lesse forse sul labiale, mentre mormoravo fra me e me questa parola. Speranza.

“….Credere nella resurrezione del corpo e dell’anima di Giancarlo Mangone è un trucco inventato dalle religioni per alimentare l’altra grande malattia di sempre, la Nostalgia della vita, di una vita. Il dolore del ritorno è la vera malattia perché vorresti tornare lì dove non puoi tornare, vuoi rinascere, rifare magari eternamente il percorso, e ingannare questo pagamento del debito che è la morte….Fin dal primo giorno di vita ti insinuano il rammarico, l’angoscia, il ‘che peccato!’ che ti sfuggirà l’ultimo. Vita ti amo, morte fai schifo, fece scrivere un cantante sulla sua tomba. Avrebbe potuto far scrivere, più onestamente, Vita mi hai fatto schifo, da quando mi hai indicato la morte. La speranza e la nostalgia distruggono anche l’effimero della vita…. Mi spiego, bambino, distruggono la bellezza di ciò che dura poco…. Ma noi, che dovremmo scegliere effettivamente ciò che dura e non lasciarci trascinare dal provvisorio, non possiamo allora scegliere la vita, e neanche la morte, allora, sua figlia e sorella. E che cosa dura qui al mondo? Tutto ma non io e te…. Dura ciò che ci contiene, non il contenuto che cambia e cambia e cambia. Siamo in grado di adeguarci al contenitore senza fare dello scopo il contenuto? … Cioè, piccolo (scuso, mi dimentico che sei appena uscito dalle elementari), siamo in grado di vivere come granelli di sabbia senza nome sulla spiaggia? A un granello di sabbia, vento terra aria e fuoco bastano per giustificare la propria esistenza senza nome, e nel senza nome il granello di sabbia è eterno. Hai mai visto nascere e morire un granello di sabbia? La sabbia, come l’aria e questo mare che ora fluisce come olio sotto la chiglia dello scafo, ci sopravvivrà. Il problema è come farne parte….”

Nella pace del mare, dove la voce di Giancarlo risuonava oramai limpida e tranquilla, malgrado l’astrusità delle parole, e qualcosa di incomprensibile e di ipnotico mi stava inducendo a chiudere gli occhi, si udì all’improvviso l’urlo di mio padre. La barca stessa subì una scossa, dopo un’ora d’immobilità assoluta. Mio padre si teneva un dito che sanguinava leggermente, dopo aver scaraventato secchiello e retino da pesca sotto la prua.

Sotto la panca trasversale della barca si agitava in una pozza d’acqua un pesciolino dalla faccia mostruosa, con una fitta dentatura seghettata e due occhi da murena rovesciati verso l’alto. La pinna squamosa sbatteva sul fondo dello scafo da una parte e dall’altra. Tra le branchie sanguinolente, attraversate ancora dall’uncino dell’amo, sporgevano ciuffi di spine acuminate.

“M’ha punto questo bastardo! M’ha punto!” gridava mio padre, continuando a stringersi il dito ferito. Scivolò dalla panca e rimase rannicchiato contro il fianco dello scafo, flagellando il silenzio del mare con bestemmie a raffica.

Il Professore, pur con una smorfia di dispiacere che gli incrinò il volto, non si scompose neanche questa volta. Con una paletta andò a raccogliere il pesciolino sussultante, se lo pose accanto agli occhi azzurri, per osservarlo bene, poi sentenziò:

“Cavaliè, siete sfortunato. Questa è una tracina, il pesciolino di fondo mare più velenoso del Mediterraneo. Neanche gli squali osano avvicinarsi a queste minuscole belve, i famosi pesci ragno. Escono dalla sabbia e zac! Paralizzano i centri nervosi….”

“Invece di farmi una lezione di ittiologia, mannaggia Santa Lucia – ruggì mio padre- …perché non mi aiutate?”

Mio padre assestò un pugno contro uno dei pali della tendina, che si piegò tutta da un lato.

Giancarlo, dopo aver rigettato la tracina in mare, dove il pesciolino velenoso continuò a galleggiare presso lo scafo a pancia in su, recuperò la bandana e lacerandola ne estrasse una striscia di tessuto stropicciato. La avvolse e strinse attorno al pollice di mio padre, che pareva già livido e gonfio, e poi lo invitò a sporgere il dito oltre il bordo dello scafo.

“A che diavolo serve? protestò mio padre- deve prendere aria? Piuttosto lo lascio in acqua. Fa un male cane….”

“Cavaliè, sentitemi, qui non abbiamo l’alcool a bordo, e a parte l’acqua del mare che non serve molto manca ogni tipo di disinfettante, e c’è una sola cosa da fare, come ai tempi di guerra, se lo ricorda?…”

Ci mettemmo un po’ di tempo, io e mio padre, a capire che cosa Giancarlo volesse fare. Ma quando il Professore si fu aperto fino all’ultimo bottone la brachetta e, dopo avermi accennato di guardare altrove, tirò fuori l’uccello per puntarlo sul pollice di mio padre, vidi la botola dell’inferno spalancarsi di colpo sotto l’anima di mio padre, se era vero che la mamma mi aveva garantito che bastavano una bestemmia a settimana per aprirsi la strada della dannazione eterna; laddove in questo caso furono bruciate tutte le possibilità d’indulgenza divina in un minuto. Ma poiché, a quanto pareva, il dolore aumentava, mio padre finì col diventare un agnello e si fece orinare sul pollice dal Professore a spruzzi intermittenti. Questi si scrollò soddisfatto e sfiorò la nuca bagnata di sudore di mio padre con una carezza rassicurante. Il libeccio, promise, prima o poi si sarebbe ridestato.

Ma passò un’altra ora. Il sole risaliva lentamente l’arcata del cielo. Tutto luccicava intorno a me e il mare pareva sorvolato da una cortina di vapore che faceva vibrare le navi, all’orizzonte, i pescherecci, l’isola di Capri raccolta come una testuggine sull’acqua, e la punta del promontorio sorrentino. Mio padre aveva accettato il consiglio del Professore di sdraiarsi sotto la tenda di lino della capannina. Doveva avere ancora un po’ di pazienza. Ma intanto la vela della randa pendeva floscia, implacabilmente, dal palo dell’albero, e i gabbiani non riuscivano più a fare i loro volteggi ad ali spiegate sopra di noi nel vento.

Giancarlo, ora fermo come le vele, con l’inutile mano sul timone e la testa al sole, senza più la bandana, mi fissava come sovrappensiero. Il mare ruotava lentamente dietro di lui, e ci fu un momento in cui la sua testa fulva coincise, coprendolo, con il cratere del Vesuvio, lontanissimo. Si aspettava forse che il bambino accoccolato ai suoi piedi, in fondo allo scafo, gli rivolgesse un’altra delle sue domande, da scuola elementare.  Le domande che mi frullavano nella testa, in effetti, erano tante. Ma non osavo farne neanche una, a causa dei gemiti di mio padre rannicchiato ora come un feto sotto la squassata tenda di lino.

Poi a un certo punto mi parve che quel silenzio sul mare, cullato solo dal fruscio sommesso di onde dolcissime, fosse eccessivo. Allora dissi, e la mia voce di undicenne parve perforare il silenzio come un suono di tromba:

“Mia madre ha detto che, come Dio ha amato noi e ci ha resi capaci di vivere eternamente… proprio perché ci ha amati, noi… noi non possiamo morire perché c’è sempre una madre che ci ha veramente amati…. e con questo amore ci ha preparati per l’eternità….Tu sarai sempre il mio Alessio, ha detto. L’amore vince sempre sulla morte… sul tempo… Alessio ci sarà sempre.”

Alle mie parole confuse seguì un lungo silenzio. Mi sentivo fissato da Giancarlo, e per vergogna abbassai la testa fra le ginocchia. Udii persino il sibilo d’un volo di gabbiano, che mi passava radente sopra il vecchio cappello di paglia. Poi sentii che il Professore abbandonava il timone di poppa e mi si avvicinava. Una carezza sfiorò la mia nuca, proprio come quella che aveva provato a consolare mio padre.

“La cosa peggiore che possa fare un adulto a un bambino- disse Giancarlo ricadendo accanto a me con un profondo sospiro- è rivelargli che Babbo Natale non esiste, o che gli Angeli, custodi o meno, sono miseri fantasmi castrati. Ma a un certo punto anche i bimbi crescono, e devono sapere in che mondo sono nati, altrimenti vivono nel sogno, e rischiano di destarsi dal coma dopo novant’anni al momento dell’estrema unzione. L’amore è il motore della terra, ma vive quanto l’uomo, e solo l’Amore con la A maiuscola, quello che ci attraversa e ci sorvola, sopravvive alla terra e all’uomo: ma noi non ne usufruiremo. Ciascun genitore promette eternità a un figlio che a sua volta prometterà eternità al suo, e via scorrendo.  L’eternità è vera ma la promessa di eternità di ciascuno di noi è eterna solo come menzogna. Promessa da marinaio, guarda caso, che giura di ritornare in quella patria in quella casa, da quella donna che non rivedrà più. Sperare sarà anche lecito, sognare altrettanto, ma viene prima o poi il tempo di rimettere i piedi su una terra che è l’unica terra che abbiamo, e affonda attimo per attimo in quel vuoto che non vogliamo vedere, in quel silenzio che non vogliamo sentire. Qualcosa ritornerà ma noi non ritorneremo, qualcosa resterà come questo mare limpidissimo sotto il sole di mezzogiorno e quella baia di Sorrento laggiù, e l’amore dell’uno per l’altro finchè ci sarà l’uno e ci sarà l’altro, ma noi…. Io, te, tuo padre….siamo fatti per rientrare, per dissolverci, per salutare questa pace per sempre. Qualcuno, come una madre, ci avrà amato e ci avrà reso immortali per un attimo, ma sarà come guardare un bel film, e appassionarvici anche. Niente di più… Ora siamo qui, piccolo, e tu mi hai fatto una domanda. Scusa se ti tratto come un uomo fatto. Ma qui siamo dentro un’oasi, una tregua del vento che dura da un paio d’ore, in mezzo al mare più calmo, maestoso che si sia, e sarebbe un peccato non approfittarne per dirci tutto, per non mentire una volta…. Dico bene, cavaliere?”

Mio padre gettò un lamento, schifato da quei discorsi, dal veleno di pesce che aveva dentro, dall’odore di orina che gli saliva dalla mano.

“Gianca’- disse poi cupo, stringendosi il dito- sentitemi. Appena avete un po’ di tempo, legatevi il timone vecchio al collo e buttatevi dal molo. I pesci ve ne saranno grati… Voi non ce l’avete un figlio, non ne siete capace, e per questo fate questi discorsi da criminale a un bambino…Quanto a me, quando creperò, mettetemi dentro un sacco di spazzatura e lasciatemi in qualche discarica…. Una volta finita, siamo monnezza.”

“Voi vi sopravvalutate, cavaliere- disse il Professore, mettendomi un braccio sul collo con la complicità di un vecchio amico- Pensate che una volta finito voi, crolli l’universo. Per voi, ovviamente. Ma non c’è un universo per voi, ce n’è solo uno –e sempre lo stesso- oltre voi, prima e dopo voi. Quello resta. E poi al tempo stesso vi sottovalutate. Perché comunque ciascuno di noi, nel suo piccolo, nella sua infima piccolezza, è indispensabile all’universo per sopravvivere, per fare humus e concime anche dopo morti. La terra non aspetta altro. Ha sempre bisogno che i suoi frutti, marcendo, ritornino a lei. Anche tracine e murene, sotto di noi, non aspettano altro. I naufragi alimentano il cibo del mare, come ogni morte alimenta la vita. Ma anche ogni vita alimenta la morte, e questa ruota non siamo noi a spingerla. Piuttosto siamo farina di frumento, schiacciato dalle ruote di un mulino a vento…Lo so che al piccolo non si dovrebbero raccontare queste cose. Ma non vi preoccupate Cavaliè, voi che siete troppo interno a succhiarvi il pollice straziato, … E neanche tu non ti preoccupare Alessio, tra poco il vento si ridesterà e si tornerà a casa, alla madre terra, alle favole di babbo Natale e della resurrezione dei morti. Ma tu farai così, piccolo, dimenticherai tutto, riterrai questa una favola assurda udita in pieno mare, o penserai d’averla sognata addormentato nel fondo dello scafo. Oppure tuo padre e tua madre ti riporteranno alla vera realtà, dove la tua, la mia, l’immortalità di tutti è parola sacra, verbo di Dio, ed io tornerò il Professore pazzo, ateo e scellerato che mi si descrive…”

“Mio figlio è troppo intelligente- disse la voce rauca e sofferente di mio padre- per credere alle stronzate che dite… State tranquillo.”

“Meglio così, rispose Giancarlo tornando a sedere al timone di poppa- Mi sembra che anche il vento cominci a farsi risentire e ponga fine alla predica, vero cavaliè? Perché, come diceva qualcuno, prima di scandalizzare l’anima innocente di un bambino, meglio che ti leghi al collo un motore vecchio e arrugginito e ti lasci cadere nel fondo del mare, a meno che… a meno che il vento non riprenda gonfiare l’unica vela rimasta….”

“Siete un pagliaccio, Gianca’, e lo sapete –disse mio padre, rimettendosi a sedere, e allentandosi un po’ la fasciatura al dito- Non so come i vostri studenti possano seguire le vostre buffonate.”

Ma Giancarlo ora era intento ad andare verso la randa, per cominciare a tirare la cima. La barca riprendeva a scorrere sull’acqua, sbilenca, e il fruscio delle onde si faceva più sonoro.

“Si cazza! Si cazza! – urlava esagitato il Professore- Si cazza la randa con la scotta!…”

Il libeccio era tornato, e con il vento non si sollevarono solo le onde e le lenzuola sopra l’albero, ma tutti i miei pensieri e le domande che avrei continuato a rivolgere al Professore, ora che non ne avevo più vergogna e paura. Un pulviscolo di parole, di questioni, di aghi dolorosi, più velenosi degli aculei della tracina che aveva annientato mio padre, turbinavano e si davano battaglia nella mia testa frastornata. Il cappello di paglia, alla prima raffica, volò via in mare come una piuma di cormorano, ma Giancarlo lo lasciò andare, troppo impegnato tra timone e randa, dove era tornato a muoversi saltando come una scimmia. Lo Squalo Blu ebbe un contraccolpo, urtando su un’onda che si inerpicò all’improvviso e si abbatte, schiumando su di noi e allagando mezzo scafo. Il Professore mi urlò di fargli il favore di aiutarlo a vuotare lo scafo con il secchiello, mentre mio padre sotto la tenda di lino si teneva il dito fasciato con una unica smorfia di dolore scolpita sopra le labbra.

Ad ogni secchiata di mare che rigettai tra le onde, mi sembrò di ributtare via le parole sentite, la crudeltà delle frasi, quei nuovi scenari sulla morte che nessuno prima di Giancarlo mi aveva spalancato così crudamente. “ “Son tutte balle, balle, balle” -gridava la schiuma delle onde con la voce di mia madre – Tu sei nato nel mio amore e non puoi tornare a non esistere… Balle, balle, balle di un povero miscredente pazzo!…” Poi il boma della randa prese a cigolare all’improvviso, e Giancarlo urlò nel vento, disperatamente, “Randa al centro!” un istante dopo che io schivassi il boma scivolando con un piede dentro il secchiello. Il libeccio agitava pericolosamente l’albero maestro e gonfiava le lenzuola cucite della vela, come una immensa vescica. Nel vento ero costretto a chiudere gli occhi alle raffiche di schiuma e acqua salata che mi flagellavano e facevano viaggiare la barca obliqua sulle onde, verso una direzione che neanche il Professore sembrava poter controllare, tutto ora intento a tirare e lottare con le cime della randa.

Fu a un suo segnale col braccio puntalo a indicarmi la poppa, che capii di dover mettermi al timone, per raddrizzare la barca ed evitare di sfracellarci contro qualche isolotto o un peschereccio. E solo dopo un paio di sbandate e di virate dalla parte opposta a quella verso cui volevo indirizzare lo Squalo Blu, imparai a muovere la leva del timone dalla parte giusta, a destra per andare a sinistra e viceversa. Giancarlo, fradicio d’acqua e con i capelli rossi sugli occhi, mi fece un ‘ok’ col pollice, poi si aggrappò alla corda e indicò con la testa l’isola d’Ischia verso la quale stavamo tornando rapidamente, pressati da un libeccio molto più assordante di quello iniziale. Intanto la tenda di lino si era staccata dai pali e avvolgeva il corpo dolorante di mio padre, tornato in posizione fetale dentro lo scafo, come un sudario.

Una pioggia di mare mi flagellava gli occhi, ma riuscivo ugualmente a mantenere la rotta verso l’isola, che rimaneva una macchia grigioverde sul mare.  Anche il disco del sole pareva schermato dal vento come da una vetrata, e tremolava sopra le nostre teste, fluendo nel cielo insieme allo Squalo Blu. Stranamente, il muovere la barra del timone tra le mani mi aveva placato una parte di angoscia. Le parole di Giancarlo mi avevano sballottato e frastornato come un naufrago alla deriva, ora mi sentivo responsabile della vita di mio padre e del Professore, oltre che della mia, come il prigioniero di una nave trasformato in nocchiero e capitano. Sapevo che ci stavamo riavvicinando a casa, che laggiù c’era la terraferma, oltre che mia madre, che ci aspettavano. Avrei lasciato sul mare le parole del Professore, o sarebbero rimaste dentro di me più a lungo di quanto pensassi, come il veleno della tracina nel corpo di mio padre? No, me lo sentivo, io sarei ritornato sulla terraferma solo per ripartire, e ritrovare disseminate sul mare, nell’aria, nel vento, quelle parole. Non si poteva tornare indietro, aveva detto Giancarlo. Chi aveva conosciuto la libertà del mare, la freschezza di quel vento, e le parole che ci si potevano raccontare, li avrebbe ricercati ancora, sempre e sempre. Rimaneva l’angoscia per tutte le mura di casa che crollavano, attorno a me, come potevano crollare randa e fiocco in assenza di vento da un momento all’altra. E si era costretti a navigare sempre liberi, aveva detto Giancarlo, senza remi, senza motore, senza delle vele che somigliassero a delle vele, come su una zattera. Sarebbero crollate anche le colonne d’Ercole, prima o poi. Ed ero certo che quel timone che a undici anni manovravo, e forse manovrava lui me, mi avrebbe portato da allora in poi dovunque, in un’aspra e affascinante libertà, anche dove non l’avrei desiderato. Perché se la vita non era una certezza, neanche la morte poteva esserlo, quella morte che esisteva, ma che non era ciò che mi avevano raccontato, non era l’inizio di qualcosa e non era neanche la fine di tutto.

Il Professore stava ver venire a darmi il cambio al timone, poi ci ripensò e mi ridiede l’okay col pollice, visto che dirigevo la prua esattamente verso la baia di Barano e lui doveva rimanere aggrappato alle scotte della randa, dalle lenzuola messe a dura prova dal vento e già sdrucite in più punti. Riappariva nitida la montagna dell’isola, la sua roccia a picco sulla scogliera, e poi le boscaglie di ulivi ed eucalipti, fichi ed acacie. Si aprivano davanti a noi i golfi, le grotte, le calette, e infine le spiagge abbacinate dal sole, dove già si individuava la nostra, punteggiata dal colore rosso-verde degli ombrelloni. Lo Squalo Blu, che nel filare sbilenco tra gommoni nuovi di zecca e motoscafi di lusso, mi si rivelava più che mai ora la zattera di un mitomane, procedeva spintonato dal vento, con i suoi stracci bianchi sballottati in cima all’albero. Ogni intanto Giancarlo mi gridava ‘Attento’! quando incrociavamo la rotta di qualche barcone tropo vicino, tra l’altro dotato dei respingenti di gomma che noi non avevamo, e ne allarmavano l’equipaggio. Ma il mio braccio si era allenato a non muovere troppo bruscamente il timone e lo assecondava, a piccoli spostamenti che tranquillizzavano il Professore.

“Farai fortuna nella vita, secondino! – mi urlò Giancarlo, dopo aver subito a prua il manrovescio dall’ennesima onda. – Quando si dice: imparare a governare il timone della propria vita….”

Eppure, pur ringraziandolo e restituendogli l’ok, come un vecchio lupo di mare, non era proprio così. L’ equipaggio dello Squalo Blu, fatto di un uomo accasciato in un angolo dello scafo che non mi pareva più mio padre, e di un falso velista esagitato che si atteggiava a filosofo, dipendeva da me, da un bambino di undici anni che avrebbe potuto catapultare quella barca contro il primo scoglio e lasciarla sfracellare come un giocattolo. La pala del timone mi esaltava, e allo stesso tempo mi bruciava fra le dita. Avrei volentieri virato e proseguito la navigazione lontano da ogni attracco, da ogni porto, da ogni isola e baia e spiaggia. Se la morte era un ritorno, pensavo vedendo gli ombrelloni della spiaggia avvicinarsi, io non volevo ritornare. Se la morte era un rientrare nella terra, nell’humus e nel fango che mi avrebbero assorbito per risputarmi sotto il cielo come concime, pianta, animale, o bambino diverso da quello che ero stato, non avrei voluto sbarcare. Se il mondo si chiudeva attorno a me e sullo stesso mare come un recinto o un globo d’aria, dove le stesse colonne d’Ercole a Gibilterra assumevano l’aspetto fitto e invalicabile di sbarre di prigione, io avrei piuttosto provato a sollevare la barra di quel timone come quella di un ottovolante, per issarmi oltre le onde e puntare le nuvole, come Peter Pan, e poi il corridoio d’azzurro fra le stelle.

Avrei voluto continuare ad essere il pilota di una barca che né attraccasse alla terra e alla morte, né si sbriciolasse nella luce del mare o nell’implacabile azzurro che mi sovrastava, ma si facesse eternamente condurre da un bambino chiamato Alessio, che non meritava di sparire dal momento che era nato, e diventare acqua terra aria o fuoco. Un bambino che conservasse la memoria di essere stato quel bambino, di essere stato amato, di essere e basta, per sempre. Guardavo Giancarlo, mentre si sbracciava in un groviglio di cime intrecciate, e pensavo: ‘Devi andare anche oltre quel pazzo’, devi oltrepassare quelle misere colonne d’Ercole e decollare da solo. E non devi più abbandonare nelle sue mani questo timone, lasciagli solo i quattro stracci delle vele, già pronte a fargli da sudario. Un giorno, certo, avrei potuto lasciare il timone, ma solo se il vento non avesse potuto più mandarmi a sfracellare contro isolotti e porti e faraglioni e parole dure di roccia come quelle stesse del Professore. Avrei potuto abbandonarmi alla corrente, e rischiare di non essere me stesso, ma senza lasciare alle parole degli altri, alle loro innumerevoli favole, il monopolio della barca, la verità sulla vita e sulla morte. Meglio ascoltare la voce del mare, del vento, e dell’amore come quello di una madre, forse, che mi ricordassero chi fossi io, chi fosse il piccolo Alessio, senza il bisogno di chiederlo a un prete, a un maestro, o all’oracolo. Lo scheletro sulla barca sarebbe stato quello di un altro.

Nugoli di mocciosi in costumini colorati si raccolsero incuriositi accanto all’ombrellone alla cui ombra la grande sagoma di mio padre si rotolava nella sabbia, gemendo come un neonato, con il pollice dolorante in bocca. Il fischio dell’ambulanza si era già sentito a distanza, sulle viuzze dell’isola, quando la prua dello Squalo Blu si era arenata sul bagnasciuga scricchiolante e mia madre ancora vestita era stata la prima ad accorrere, con un telo già pronto per asciugarmi, come se quello punto dalla tracina fossi io.

Solo dopo avermi strofinato forte e per bene, volse l’attenzione al Professore che sosteneva mio padre e lo aiutava a scavalcare il bordo dello scafo e adagiarsi sulla sabbia.

“Mi sembrava che stesse per morire, le disse Giancarlo, la tracina non è più grande dell’alluce di suo marito, signora…”

La mamma spalancò gli occhi. Poi, confortata dal fischio della sirena dell’ambulanza che già arrivava, si rivolse ancora a me, un po’ tremante dentro il telo che mi fasciava, e disse!

“Allora, mio eterno gioiello! Com’è andata la tua prima gita in barca, a parte la disavventura del babbo?…”

Farfugliai qualche risposta, tossicchiando, colpito da quell’eterno con cui mi coccolava. Mi passò come un’ombra sul viso. Che anche la mamma menta? pensai. Poi chiesi di accompagnare il papà nell’ambulanza. La mamma me lo negò.

“Ci sono io, tesoro. La barca sì, l’ambulanza no. Non è un posto per bambini.”

Quando il Professore si propose anche lui di entrare nell’ambulanza con la mamma, mio padre tuonò dalla barella degli infermieri l’ultima feroce bestemmia contro l’Immacolata Concezione e allungò anche il braccio non fasciato, cotto dal sole, in direzione del collo di Giancarlo.

Rimasi da solo a gambe incrociate sul basciasciuga, a pochi passi dallo Squalo Blu lì inclinato, ridotto a un rottame, sfasciato. Il Professore, che per fortuna mi stava lasciando in pace, era intento a dissuadere un paio di ragazzacci dell’età dei suoi alunni dal salire a bordo dello sfacelo per rubarvi magare qualche lenzuolo. Il sole ora scottava un po’ di più sulle mie spalle. Odoravo di sale e avevo i polpastrelli delle dita striati. Il frastuono di grida, risate, colpi di tamburello, pianti di bambini, radio accese, dietro di me, fece da sottofondo innocuo e stagnante alla mia solitudine. Avevo dinanzi a me il golfo di Napoli, da Capo Miseno alla punta di Sorrento, e per la prima volta lo vedevo stretto. Una immensa baia, che ispirava solo il desiderio del ritorno, della casa, della madre terra, ma non quello della fuga. Ti serrava nella sua liquida dolcezza, ma forse anche la morte doveva essere così, dolce, languida, zuccherina, fino alla stucchevolezza, al disgusto. Quel sapore solare della fine che io dovevo assolutamente valicare. E salpare da quell’isola non mi bastava più, non mi sarebbe mai più bastato. Da quell’isola come da nessuna altro lembo di terra. Davanti a me, oltre le barche, i pescherecci, i piroscafi, si stendeva un orizzonte occupato, abitato da terre e da paesi, da case e campanili. Anche laggiù si andava a morire.

Mi stesi sulla sabbia calda e chiusi gli occhi. La schiuma del mare mi lambiva le caviglie. Rimasi così più di un’ora, finchè non udii le voci di mia madre e di mio padre che rientravano dal pronto soccorso.

Prima ancora che la voce di mia madre dicesse: ‘Dov’è Alessio’’, mi ero già alzato e fissavo la forma del mio corpo impressa nella sabbia, mezzo bagnata e mezzo asciutta. Era l’impronta della mia salma, lo sapevo.

Ma io le voltavo già le spalle. Ci avrebbero pensato l’acqua e il vento a farla sparire. Non sarebbe mai più stata la mia.

Barca alla deriva – parte prima

Autore: Roberto Caracci

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