Catherine Howard (1521 – 1542)
Questa lettera non ha destinatario. Nessuno sarebbe felice di ricevere un messaggio da una ragazza malvagia, giustiziata per aver tradito il re. La brucerebbero senza leggerla, come se fosse la benda di un appestato. La lascerò qui, nella stanza gelida in cui mi hanno rinchiuso. Prego Dio che qualcuno la trovi e abbia pietà della mia anima.
Non ho dimestichezza con penna d’oca e calamaio. La mia scrittura è stentata e al-cune macchie d’inchiostro imbrattano la pergamena. Sono brava a fare altro. Anche se non possiedo la furbizia di mia cugina Anna Bolena, né la sua sensualità, con gli uomini me la cavo bene. Persino il re è caduto nella mia rete. Se solo fossi stata me-no stupida ora avrei ancora una corona in testa. Invece domani non avrò più nem-meno la testa.
Ignoto lettore, se hai avuto il coraggio di prendere fra le mani il mio scritto, ti prego di continuare. Vorrei narrarti i fatti come si sono svolti. Non giudicarmi con troppa severità e perdona i miei errori di ortografia. Sono ignorante, come molte donne d’Inghilterra. Mia madre morì quando avevo solo dieci anni. Non ebbi neanche il tempo di piangerla. Mi affidarono subito alla nonna, la duchessa di Norfolk, che mi condusse nella sua dimora principesca a Lambeth, dove gestiva una scuola per ra-gazze di alto lignaggio. Lì s’impartivano lezioni di musica, danza e buone maniere. Niente grammatica o aritmetica. Imparavamo a destreggiarci nel mondo e a corte e ad accalappiare un buon partito. Avevamo molto tempo libero e pochi controlli. Il pa-lazzo ospitava anche dei giovanotti, che ci ronzavano intorno come mosche sul miele. Crescevamo insieme, maschi e femmine, pericolosamente vicini, come gli arbusti di una brughiera. L’innocenza del gioco sfociava spesso in licenziosa curiosità. Le mani si avventuravano in feudi proibiti e le labbra si schiudevano in sorrisi maliziosi. All’ombra della sera non si snocciolavano preghiere, ma parole sconce.

Lettera di Catherine Howard
Lettera di Catherine Howard a Thomas Culpeper
Quando mio zio Thomas Howard, duca di Norfolk, mi chiamò a corte, ero euforica. Mi sarebbe mancata la disinvolta libertà di Lambeth, ma mi attendeva una vita brillan-te, nuovi vestiti, forse qualche gioiello. A quel tempo non avrei mai pensato di diven-tare regina: i miei modi erano poco regali e le parole mi uscivano dalla bocca senza alcuna censura. Ero sciocca, come le cicale d’estate, che cantano fino a stordirsi, ignare dell’inverno.
Avevo sedici anni quando il re puntò il suo sguardo impudico su di me. I suoi occhi si abbassarono morbidi sui miei seni acerbi, sostarono sui fianchi e infine scesero fino ai piedi, stretti nelle scarpette di seta lucente. Faticava a contenere il desiderio che stava esplodendo dentro le brache.
“Ballate come una dea.” – sussurrò per stemperare l’imbarazzo – “E La vostra pelle è candida come il petalo di un giglio.”.
Deve aver pensato che anche il mio cuore fosse immacolato. Purtroppo non era così. A quel tempo il confine tra il bene e il male mi sembrava un rigagnolo incerto tra due campi di torba. Lo vedevo a stento. Pensavo che la legge fosse un compendio di nor-me a esclusivo uso del popolo: non rubare, non ammazzare, non fare risse, evitare di sparlare del sovrano e di violentare le fanciulle. In questo paese le regole non valgo-no per i nobili, soprattutto se maschi. I padroni concupiscono le serve, vergini o ma-ritate, e sfidano a duello chi le difende. Spesso ci scappa il morto. Non parliamo poi degli omicidi per vendetta o dei pettegolezzi sul re, che sono l’occupazione prediletta degli aristocratici. Tali misfatti non vengono mai puniti. Per questo motivo ho spesso confuso moralità e felicità, amore e piacere. E poi, per dirla tutta, quando Enrico mi chiese in moglie, non pretese una dichiarazione sulla mia verginità.
La leggerezza mi è costata cara, dato che ora sono rinchiusa alla Torre di Londra in attesa del boia. È il luogo più triste della città. Il sole fatica a penetrare attraverso le piccole finestre. I muri, impregnati di umido, generano infiorescenze di muffa grigia-stra che corrono lungo le fessure. La stanza è angusta e buia, impregnata di un odo-re stantio, come un ventre malato.
Sono circondata da visi seri e sguardi di biasimo. Non posso suonare o ballare. Le vesti ornate di ermellino sono rimaste a corte. Le mie perle orneranno il collo della prossima regina. Posso indossare solo un vestito di panno grigio, da penitente. Che fine faranno i broccati veneziani intessuti di fili d’oro? E quell’abito di seta rosa come la polvere di Cipro che mi stava così bene? Ahimè, ho perduto tutto. Mi è concesso solo di piangere e meditare sui miei errori, sulla lascivia, sul dolore che ho procurato al re. E pregare per salvarmi l’anima, che è l’unica cosa che mi resta. Domani, 13 febbraio dell’anno 1542, la scure si porterà via la mia testolina. Non è ancora prima-vera.
Non voglio pensarci. Continuo il racconto, mio paziente amico. Sono certa che prima che tu finisca la lettura riuscirò a strapparti una lacrima di compassione.
Quando Enrico, per la prima volta, mi cinse con le sue grasse braccia e avvicinò le sue labbra alle mie io lo lasciai fare. In fondo chi ero io per rifiutare un bacio al re? Ti stai domandando se sapevo che era sposato? Ma certo, ero una delle damigelle della regina.
A mio modo l’ho amato. Era vecchio, sì, e corpulento. Ma era colto e m’incantava con le parole. Teneva testa a prelati e a filosofi. Lo guardavo a bocca aperta, con l’ammirazione di una figlia per un padre potente. I cortigiani, invece, lo temevano. Impallidivano se il suo sguardo si posava su di loro. Abbassavano gli occhi e indie-treggiavano, come animali impauriti. Lontano dai suoi occhi, però, nascosti dietro le colonne di marmo, non perdevano occasione per sbeffeggiarlo. Risolini di scherno, occhiate d’intesa. Il re si è bevuto il cervello, bisbigliavano, spera che la sposa bambina rinvigorisca il suo sesso rinsecchito. Poi guardavano me con occhi languidi, come i lupi affamati osservano la preda fra gli artigli di un orso. Avrebbero voluto essere al suo posto, ma non osavano contendergli il banchetto. Pusillanimi e corrotti. Accidenti, un’altra macchia d’inchiostro. Quando mi agito mi tremano le mani.
Per la prima notte di nozze Enrico si era fatto lavare e profumare. La camicia di seta, chiazzata di sudore, aderiva alle membra grasse e flaccide. Mi montò senza prelimi-nari, era pazzo di desiderio. Attesi con il fiato corto che la sua voglia si placasse. Fu un rapporto doloroso e veloce. Poi mi tenne stretta a sé. Sentivo l’odore di animale selvatico invadermi, lo sentivo sulla pelle, nelle narici.
Provavo ribrezzo per quella carne molle, ricoperta di peluria rossiccia. A trent’anni era il più bel principe della Cristianità. Già, ma a quel tempo io non ero ancora nata. Gli anni e il peso del regno avevano rosicchiato quella bellezza, come tarli insolenti. Dolori e violenza gli avevano corroso l’anima.
Mi cercava tutte le notti. Restavo in silenzio, stretta nella morsa di lardo maleodo-rante. Chiudevo gli occhi, perché non vi leggesse il mio disagio. E sorridevo. La mia rosa senza spine, sussurrava, coprendomi di baci. Lo lasciavo fare; speravo che la fe-rita alla gamba cominciasse a fargli male, costringendolo a coricarsi di schiena.

Incisione di Francesco Bartolozzi su imitazioni di disegni originali di Hans Holbein
Mi mostrai devota e docile a ogni desiderio, anche i più illeciti. Finsi di non accorgermi che il suo membro era fiacco e il seme scarso. Era chiaro che non sarebbe mai riuscito a generare. A ogni luna, quando il sangue macchiava la mia camicia, il suo umore si oscurava. Guardava quelle gocce di rubino con rabbia, serrando le labbra, quasi che volesse picchiarmi. La mancanza di un erede maschio aveva già segnato il destino delle prime due mogli. Ero preoccupata. Raddoppiavo i baci e i giochi, mi aprivo a lui come un fiore alla violenza del temporale. Fu tutto inutile.
Poi incontrai Culpeper. Vidi il mare d’inverno nei suoi occhi e ascoltai parole intriganti dalle sue morbide labbra. Fu impossibile resistergli. Tu, ignaro destinatario di questa lettera, cosa avresti fatto? La sera in cui il suo membro vigoroso mi trafisse, pensai che il destino avesse voluto darmi una mano: un seme giovane per generare il figlio del re. In fondo, l’antichità del mio lignaggio avrebbe assicurato un rampollo degno della corona inglese.
Ahimè, non ci fu tempo. La prudenza è un talento della vecchiaia. E io ero troppo giovane. La relazione fu subito evidente a molti e qualcuno riferì al re.
Affido a questa lettera il mio punto di vista. Non cerco il perdono, ma il rispetto per la mia verità. Ti ringrazio, caro amico, se hai avuto la pazienza di leggerla. Da domani non avrò più parole, né concetti, né scuse. Li ho radunati e ficcati a forza in questa confessione di carta. E se getterai il foglio nel fuoco non ti biasimo: sono una ragazza cattiva e i miei pensieri diverranno cenere. Non fa nulla, io sono già polvere.
Rielaborazione del capitolo: “Caterina Howard, quinta moglie di Enrico VIII», tratto dal libro intitolato «Enrico a pezzi. Sei mogli e un re»

Copertina del libro Enrico a pezzi. Sei mogli e un re edito da Europa Edizioni
Autore: Virginia Coral
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