Non c’è nessuna ragione perché io racconti questo. Davvero tutto ciò è ingiustificato, privo di senso e di motivazione. O almeno non sono io il migliore candidato a rendere conto dello scopo, dell’utilità o del significato di quanto sto per raccontare, nonché di ciò che realmente mi spinge a farlo. Del resto a me questo non importa. Ci sono giorni in cui sento che il mio corpo vuole uscire di casa, come un cane insofferente, e non mi chiedo dove mi porti la passeggiata sui marciapiedi della città o perché io sciupi così il mio tempo. E anche se mi spiegassero che una ‘pressante necessità’ abbia spinto la mia biro a scarabocchiare parole su questo quaderno, mi verrebbe da sorridere al pensiero dell’assoluta gratuità del mio raccontare, di quella condizione di futile penuria e di disperata vacuità in cui sono germogliate le prime frasi.
Io quell’estate – e rubo già una logora metafora – ero in preda agli astratti furori della miseria. Non la miseria nera e senza speranza di chi ha fatto bancarotta ed è braccato dagli usurai; neanche quella di chi ha visto crollare le proprie azioni in borsa nel giro di una settimana. La mia era la miseria, molto meno eroica e più piccolo-borghese, dell’impiegato statale che parte per le vacanze col paterno beneplacito di un fido bancario equivalente all’entità del suo stipendio, avendo egli bruciato ogni suo residuo risparmio tra mutuo, condominio e assicurazione auto, nell’epoca del fatale passaggio dalla lira all’euro. Col mezzo pieno di super senza piombo che mi serviva per raggiungere il mio rudere al mare, sapevo di aver dato il colpo di grazia al mio debito bancario, colore rosso scarlatto, tanto vicino al fondo da volerne io stesso ignorare l’esatto importo, e naufragare ormai nell’acquitrino degli interessi passivi.
Sull’autostrada, il mio piede rimaneva morbido sull’acceleratore alla giusta pressione, per evitare il consumo di carburante. Mantenere così l’economia media dei 90 orari, in quinta, e il rombo del motore mai ruggente e sempre soffice, costante, mi garantiva che nessuna goccia superflua di benzina stillasse dalla pompa. Cercavo di non badare al sistematico lampeggio, nel retrovisore, dei fari di enormi camion articolati, costretti a rallentare dietro di me e poi a sorpassarmi dopo una lunga attesa. Li vedevo annunciarsi già a qualche chilometro, piccoli nello specchietto, e poi ingrandirsi rapidamente, con i loro musi aggressivi, pieni di fanalini multicolore e quei fari che sparavano razzi di luce. Avevo pensato anche di azionare i fari intermittenti posteriori, per simulare qualche problema, ma avevo poi rinunciato, vedendo che i TIR mi rasentavano ugualmente nei sorpassi con un boato rovente, carico di rabbia, e che dai loro finestrini spuntavano poi braccia esasperate e pugni tesi.
Dopo un paio d’ore di viaggio, l’abitudine quotidiana e la monotonia un po’ sonnolenta di quell’andatura mi evocavano il desiderio, forte e impellente, di un caffè. Ma sul cruscotto della mia Panda erano ammucchiati i pochi euro che mi bastavano a pagare l’autostrada al casello. Avevo il bancomat, ma non ero sicuro che gli autogrill vicini fossero provvisti di sportelli e inoltre pensavo che avrei già iniziato male questa vacanza da cenobita, se non avessi risparmiato fin da ora sui piccoli lussi, come le consumazioni al bar. Decisi così di non fermarmi né al primo né al secondo autogrill dell’autostrada, lasciando passare così l’ora del solito caffè di mezzo mattino, per avvicinarmi quanto possibile all’altro, l’indispensabile espresso dopo pranzo. Mi infilai in bocca un tronchetto di liquirizia per tenermi un po’ più sveglio e proseguii per altre due ore, alla medesima velocità.
Avevo già consumato un terzo del carburante, come indicava l’inesorabile asticella della benzina, quando cominciarono a contrarsi le pareti del mio stomaco, che non vedevano cibo dalla colazione di primo mattino. L’idea di infilarmi nel succulento self-service di un autogrill, per ordinare un’insalata mista con mozzarella e sedermi al tavolo col mio zaino zeppo di roba da tirare fuori al momento giusto, mi solleticò per un attimo la gola. Tuttavia non mi lasciai tentare, ricordando i quattro euro dell’ultima insalatona presa in autostrada. Preferii godermi un picnic all’aperto, sotto una di quelle rustiche capannine di legno e canne che spuntavano come funghi nelle aiuole di servizio dell’Appennino toscano. Ne scelsi una appena abbandonata, soffiando il posto a una famiglia tedesca appostata in attesa da qualche minuto forse, col suo camper. Stesi sulle assi sconnesse del tavolino una incerata unta ma comoda. Poi estrassi dalla borsa-frigo il vino in cartone, il pane di semola e il trancio di mortadella acquistato al discount, e mi sedetti con soddisfazione all’ombra della capannina, dopo aver spazzato via un po’ di briciole di biscotto dalla panca.
L’odore di pipì che arrivava a ondate regolari, misto a quello delle scatole di tonno aperte e sparse tra tovaglioli macchiati e qualche pannolino da neonato, sotto le acacie dell’aiuola, non mi guastarono l’appetito. Mi piaceva piuttosto spostare lo sguardo dal tranquillo teatro di colline e casolari che si apriva al di là del fossato, alla pista rombante delle macchine che saettavano tra i guardrail, a pochi metri dalla mia oasi, come razzi lucenti. E se poteva rattristarmi il pensiero di non scorgere una sola automobile dalla carrozzeria scrostata e antidiluviana come la mia Panda, d’altro lato mi crogiolavo all’idea che una situazione come questa – picnic all’ombra di una capannina sui colli toscani – fosse gratuita e rientrasse nella gran quantità di lussi possibili a costo zero che si trattava d’ora in poi, per uno come me, solo di individuare nel vasto e costoso mondo.
Provai a rendere ancora più credibile la mia fantasia di possidente toscano nel giardino della sua villetta, stendendomi sull’erba granulosa dopo il pranzo all’aperto, qualche minuto, per la pennichella. Ma sapevo di mortadella e una processione di formiche spuntate dal nulla stava iniziando il suo pellegrinaggio tra i peli dei polpacci. Cercai di resistere qualche minuto, tra fastidiose immagini postprandiali di lillipuziani e sanguisughe, poi dovetti alzarmi in piedi e scalciare come un cavallo per far volar via il nugolo di mosche verdi planate sulla fetta di pancia scoperta.
Il motore della macchina aveva intanto avuto il tempo di raffreddarsi. Io invece mi ero nel frattempo riscaldato anche troppo col cartone di Tavernello interamente vuotato e una euforia un po’ confusa e nervosa, anche a causa della pennichella mancata. Mi cantai qualche canzone popolare per tenermi sveglio, urlando a squarciagola nell’abitacolo della macchina. Poi però ci si mise anche il pannello stradale, col simbolo della tazzina e del piattino sottostante, a ricordarmi che mi mancava drammaticamente la giusta dose di caffeina nel sangue e che non avrei potuto farne a meno per molti altri chilometri. Cercai di calcolare quanto vi fosse in monete e monetine sul cruscotto e di ricordare a quanto ammontasse la tariffa alla stazione di Caserta, dove finiva l’autostrada a pagamento. Non avrei voluto trovarmi nella condizione di bloccare una intera fila di macchine e Tir al casello, per non poter pagare a causa di un miserabile espresso. Ma quando provai a mettere da parte il mucchietto degli ottanta centesimi necessari per il caffè, dovetti ripetere l’operazione due volte distraendomi dalla guida. A un tratto mi accorsi di viaggiare nella corsia di emergenza.
Rinunciai al riconteggio e percorsi i venti chilometri che mi dividevano dalla successiva area di servizio, senza più occuparmi del denaro. Il traffico intanto si era diradato, forse in occasione dell’ora meridiana che induceva molti a fermarsi per il pasto, profittare delle toilette o a sgranchirsi semplicemente le gambe all’ombra di qualche siepe. Notai infatti una gran fila di macchine parcheggiate davanti al bar dell’area di servizio, presso l’autogrill dove decisi alla fine di fermarmi. La gran parte delle vetture erano state lasciate all’ombra di una tettoia di canne, a qualche metro dal bar. Molte altre occupavano alla rinfusa l’intero spazio tra le pompe di benzina e i gradini dell’edificio. Un fuoristrada stava faticosamente uscendo dal parcheggio tratteggiato a linee gialle, antistante al bar, fra un pullman di turisti svizzeri appena arrivato e altre due vetture in manovra. Approfittai del momentaneo disordine per infilarmi nel posto lasciato libero dal fuoristrada e spensi il motore.
La mia attenzione fu in quel momento catturata dai parabrezza delle macchine parcheggiate come la mia davanti alle vetrine del bar, tutte con un tergicristallo sollevato. Ve n’era una sola in fondo alla fila, una monovolume, che non presentava questa particolarità. Si poteva pensare allo scherzo goliardico di qualche ragazzino perdigiorno. Ma ecco che un uomo in tuta da benzinaio, basso e tarchiato, si avvicinò con un secchio di plastica alla monovolume e sollevandosi sulle punte delle scarpe, passò una larga spugna schiumosa sui vetri e in un attimo li fece brillare, trasparenti e nitidi, con due rapidi colpi di spatola. Poi sollevò accuratamente il tergicristallo destro e lo lasciò sporgere così, ricadendo sui talloni. A quel punto notai che si guardava attorno, passando in rassegna con aria da caporale l’intera fila delle macchine. Mentre io osservavo lui, ritirando le chiavi dal cruscotto, fu inevitabile che il suo sguardo passasse attraverso una doppia e triplice coppia di finestrini, per incrociare il mio. E mi sorprese, pur così distante, il colore grigio-verde dei suoi occhi per un secondo fissi sui miei, gelidi e inespressivi come quelli di un rettile.
Sapevo come funzionavano le cose da quelle parti, alle soglie del mezzogiorno. Qualcuno ti lavava i vetri della macchina parcheggiata, in tua assenza, e al ritorno vedevi prima lo strano fenomeno del tergicristallo sollevato, come l’asta di una bandiera segnaletica, e poi la mano tesa dell’artefice che già ti ringraziava per quello che gli avresti offerto. Un lavoro non richiesto, appreso alla scuola dei magrebini che l’avevano esportato, ma così nascosto e garbato, con quella variante ingegnosa, anche se po’ intimidatoria, dell’indice di ferro puntato sul parabrezza, che sarebbe apparso un oltraggio alla manodopera il rifiuto dell’elemosina, spacciata più nobilmente per una mancia. Ciò che mi sorprendeva però, questa volta, era la tuta da benzinaio del lavavetri, che gli forniva una dignità ben diversa dalle sembianze di un accattone. E me ne uscii dalla macchina sotto il suo sguardo da predatore, o da fiero esattore delle tasse, col dubbio se si trattasse di un addetto alle pompe di benzina in pensione o di un poveraccio che si fosse fatto prestare una tuta dagli amici benzinai. Lo sentii poi fischiettare ‘Funiculì, funiculà’ mentre salivo i gradini che mi portavano al bar, ma sapevo che alla mia sparizione si sarebbe avventato sul parabrezza come un alligatore, con spugna, spatola e secchiello. Informarlo in anticipo che si trattava di un lavoro sprecato, non essendo nemmeno io sicuro se mi bastassero le monete per l’autostrada, mi sembrò inopportuno, anche perché fra me e lui si frappose una intera allegra comitiva di anziani turisti svizzeri, appena balzati giù dal pullman.
La tazzina posata sul bancone, con la solita violenta fretta dei barman autostradali, fumava splendidamente. L’avevo pagata 85 centesimi, 5 più del previsto, che avevo versato moneta dopo moneta sul piattino della cassiera, bloccando per un minuto la fila degli svizzeri. Gli ultimi due centesimi mi erano scivolati dal palmo della mano dentro un barattolo di bon bon. “Pazienza”, aveva sussurrato la cassiera, spedendomi con un gesto perentorio al bancone. Io versai nella tazzina due buste di zucchero, più una bella dose di latte freddo, lì pronto nel bricco, che trasformò l’espresso in un piccolo cappuccio (da 95 centesimi). Dovetti farmi largo con i gomiti aperti sul bancone e la schiena cocciutamente arcuata all’indietro, per resistere alla pressione dei turisti svizzeri che volevano accorciare i tempi del mio piccolo godimento. Solo quando ebbi scavato per bene, col cucchiaino, lo zucchero depositato nel fondo della tazza e altre tre bustine utili in tempi di indigenza finirono nelle mie tasche, mi girai sui tacchi e attraversai la folla degli scalpitanti svizzeri per guadagnare l’uscita. Non degnai di uno sguardo le audiocassette di musica da viaggio ammucchiate in un cesto, né i quotidiani in bella mostra davanti alla cassa. Forse un pacchetto di chewing-gum alla liquirizia mi avrebbe allettato, ma questo vizio di gola mi sarebbe costato altri 70 centesimi, ed era meglio accontentarmi di quel buon retrogusto di caffè che mi addolciva ancora il palato.
All’uscita fu proprio come temevo. La mia vecchia Panda, affiancata alle altre nel parcheggio incustodito, esibiva il suo bel tergicristallo sollevato, che non faceva per la verità magra figura in mezzo a tanti tergicristalli di recente annata. Era stato l’ultimo accessorio da me cambiato, cinque euro bene spesi, anni prima, da un rottamaio. Non vedevo però l’uomo dagli occhi di rettile che mi aveva reso questo implacabile servizio. Mi augurai che fosse andato in toilette o si fosse concesso un tramezzino vicino alle pompe. Sentivo infatti che sarebbe stato spiacevole negargli anche l’obolo di qualche centesimo. Allungai così il passo, ma non potei fare a meno di notare che il parabrezza, perfettamente lucido al punto di riflettere ogni contorno della mia testa scarmigliata, non sembrava nemmeno appartenere alla polverosa carrozzeria della Panda.
Entrai a testa bassa nella macchina e infilai le chiavi nel cruscotto. Ma fu nel momento in cui alzai il viso per controllare allo specchietto retrovisore se l’aria parcheggio fosse libera dietro di me, che alla mia sinistra, come il genio di Aladino sbucato dalla lampada, si materializzò la sagoma del falso benzinaio. Probabilmente l’unica ipotesi attendibile era che fosse accovacciato dinanzi al parafanghi della vettura. Così vicino al mio finestrino, con la spatola tergiversi impugnata come un piccone, sembrava più alto.
La voce con cui a un tratto tuonò “Grazie signore, lei è gentilissimo…”, mi fece sobbalzare sul sedile, perché del tutto inattesa. Pareva uscita da un pozzo profondo di acqua stagnante, cavernosa e con uno strano effetto di eco, reso ancora più inquietante dalla strozzata raucedine del fumatore.
Fu allora che, alzando gli occhi su di lui, lo osservai, mio malgrado, con attenzione. La sua faccia univa spiacevolmente quella del pugile ammaccato da mille scontri sul ring e del vecchio disoccupato napoletano. Una perfetta scriminatura divideva i suoi capelli neri, probabilmente tinti con un colorante di bassa qualità, perché il bianco pareva striargli le tempie come corsie stradali sull’asfalto. Se fosse brillantina o unto normale quello che gli attaccava i capelli sul cranio quadrato e spigoloso, non saprei dirlo, ma certo non era trascorsa meno di una settimana dall’ultimo shampoo. La fronte bassa, solcata da una doppia V di rughe, formava sopra le palpebre una specie di tettoia che rendeva ancora più incerto il colore grigio-verde di quel suo sguardo duro e rugginoso. Mi pareva quasi di vedere passare dei lampi sulle iridi immobili, guizzi di ironia pungente che minacciavano di spegnere di colpo la gentilezza di quel ‘Grazie signore’. Il naso rincagnato e ammaccato spuntava sul volto ampio, terminante in un largo, turgido doppio mento
Quel faccione squadrato da bulldog era diviso da un paio di rughe verticali, ai lati della bocca, due sfregi carichi di amarezza e ostinazione, come di chi abbia combattuto una lunga guerra a testa bassa, per raccogliere dalla vita un pugno di mosche.
Nella fretta, non avevo nemmeno rimesso a posto il tergicristallo, che sporgeva ancora dal parabrezza come un arto amputato. Il falso benzinaio stirò le labbra e scoprì una chiostra di denti piccoli e gialli, in un orribile sorriso; quindi allungò il braccio per sistemare il tergicristallo, con accurata lentezza. Poi rimase per un secondo a contemplare, con una smorfia di compiacimento, il vetro della Panda, che in effetti inquadrava le nuvole del cielo estivo con una insolita limpidezza. Ma dalla base del cruscotto erano sparite anche le monete che avevo rimesso in salvo nello zaino, per pagarmi il pedaggio, e dunque la mia Panda non era mai stata come allora così vuota di spiccioli.
Il gesto con cui mi rivolsi all’uomo, che aspettava d’esser pagato, fu doppiamente sconsolato: scossi vistosamente la testa in senso negativo, con l’espressione più dispiaciuta che mai, e allo stesso tempo agitai indice e pollice della mano, nel gesto della pistola scarica, a conferma dell’assoluta, irrevocabile mancanza di quattrini.
Girai la chiave di accensione, mentre il sudore cominciava a pizzicarmi la fronte nell’abitacolo surriscaldato dal sole del pomeriggio. Ma la sagoma da lottatore dell’uomo in tuta da benzinaio era ancora davanti a me. I suoi occhi grigio-verdi, beffardi, erano puntati in direzione delle mie mani, dalle unghie mangiucchiate e orlate di nero. Il sole delle tre era in quel momento coperto dalla sua grossa testa a cubo, di cui non scorgevo più distintamente i lineamenti. Il motore non si accese subito. Dalla gola cavernosa dell’uomo uscì allora una specie di lento latrato, con parole scandite tuttavia con nitida chiarezza malgrado la raucedine.
“Non tenete soldi?”, proruppe, in un tono che non era più quello di una domanda, ma di una delusa e sprezzante constatazione. Era passato al ‘voi’ e la parola ‘soldi’ era stata pronunciata con la ‘r’ al posto della ‘l’. Ne risultava un termine che mi pareva alludere da un lato alla ‘sordità’ del taccagno (io) che fa orecchie da mercante all’accattone (lui), dall’altra ai ‘sorci’ che mi sarebbero rimasti nelle tasche al posto dei ‘sordi’.
“Mi dispiace, non ho niente”, ribadii, più con le sopracciglia sollevate che con la voce, così bassa –questa- da non essere probabilmente udita attraverso il finestrino chiuso
Provai a riaccendere il motore per la seconda volta, ma non potei fare a meno di notare le due rughe verticali ai lati delle labbra dell’uomo, così tese e profonde da somigliare ora a due cicatrici.
“E allora” dichiarò l’uomo “iettateve a ‘mmare…”
Disse proprio così, “iettateve a ‘mmare”, nel suo dialetto campano, che io ben conoscevo, e che però non aveva la spigliatezza del napoletano di città, ma la goffa pesante cadenza dell’accento di campagna. Ciò che, tuttavia, mi colpì e contribuì a calamitare mio malgrado l’attenzione su di lui, fu il fatto che egli non si limitasse a pronunciare quella frase con una voce cupa e convinta, glaciale come la sentenza di un giudice civile, ma che mimasse con teatrale plasticità, oltre a un realismo di agghiacciante efficacia, il perentorio consiglio di gettarmi in mare. Lo vidi allungare le braccia, unire a cuneo le due manocce da contadino, una delle quali reggeva ancora la spugna, e indirizzarle in avanti, davanti a sè, alludendo a una curva, dosso, un piccolo cavalcavia, come quello che avrei dovuto superare, col più naturale dei salti, per finire in mare. L’abilità mimetica, così sottile e stilizzata contro il sole, con la grottesca eleganza di un profilo egizio, era accresciuta dal movimento della testa dell’uomo, che si sporgeva anch’essa in avanti con sorprendente elasticità sul collo taurino per protendersi nel tuffo: quello da suggerire a me, ovviamente.
Questa volta non ero sicuro se il motore non si fosse acceso perché era ancora un po’ ingolfato o perché le mie dita non avessero completato il giro di chiave. Fatto sta che avevo udito bene ciò che il rustico bifolco mi aveva detto e non potevo fingere di non aver capito. Malgrado il finestrino abbassato le sue parole mi erano scese nel cavo dell’orecchio come filtranti goccioline di piombo fuso, in un momento in cui tutto avrei tollerato udire tranne l’invito pronunciato dal falso benzinaio. In altre circostanze avrei facilmente sorvolato su una simile risposta da accattone, l’avrei anzi liquidata con un sorriso di disprezzo, come quando una zingara mi aveva biascicato incomprensibili anatemi per non essermi fatto leggere la mano per strada. Adesso sentivo che era diverso. Il buon senso mi induceva a rimettere in moto la Panda, senza far caso alle parole di quello scimmione miserabile e analfabeta. Eppure avevo sentito dentro di me come uno strappo. La percezione di un ferro rovente premuto dentro di me a tradimento. E non mi andava per niente di proseguire il viaggio in autostrada con la stilettata di quella sentenza velenosa nel sangue.
Con la bocca asciutta e una sensazione di freddo sulla pelle sudata sudata del viso, misi mano al finestrino e lo abbassai interamente, prima di rispondere con una voce sorda e metallica che non sembrava più la mia:
“Lei dice che io dovrei buttarmi a ‘mmare perché non ho un soldo da darle. Va bene, sono un poveraccio, un pezzente che non può neanche offrirle un caffè corretto. Ma allora non capisco perché dovrei gettarmi in mare solo io, e non anche tutti i morti di fame come lei che chiedono l’elemosina ai semafori e ora pure alle stazioni di servizio travestiti da benzinai, come a Carnevale. Su, coraggio, ‘iettiamoci a ‘mmare’ tutti e ‘due, cumpare!”
L’avevo detto e ora potevo andarmene, pur tremando di rabbia. Ma non era così facile. Talvolta, se odi qualcuno con tutto te stesso, anche uno sconosciuto e per un solo istante, ti senti attratto da lui come limatura di ferro da una calamita, ed hai solo voglia di aggredirlo o persino di esserne colpito, non di andartene. Una forza irresistibile, che può essere paragonata solo a quella della passione amorosa, ti lega a lui. E questa coscienza della inevitabilità del contatto fisico, si associa in qualche parte del tuo cervello alla consapevolezza che la fuga potrebbe essere ancora più pericolosa dell’aggressione, come davanti a un cane inferocito, dissuaso solo dal tuo abbaiare più forte di lui e non dall’adrenalina della tua paura. Solo questo può spiegare perché, mentre la sagoma dell’uomo si riavvicinava lentamente alla mia macchina, schermando di nuovo la luce del sole, io rimanessi con le dita ferme sulle chiavi di accensione alcuna fretta di rimettere in moto. Il mio finestrino si riempì dello stemma del cane dell’AGIP, cucito sulla tuta del lavavetri e quel fuoco vomitato a ritroso dal muso dell’animale mi parve di sentirmelo soffiato sul viso. L’uomo era ora così vicino al mio finestrino da non consentirmi di vedere della sua testa altro che la bocca, contratta in una smorfia amara di irreparabile danno, di offesa senza perdono possibile.
“Che avete ritto?” Continuava a darmi del voi, il lavavetri, come si usava dalle sue parti, e parlava ormai liberamente nel suo dialetto, quasi si trattasse della lingua universale.
“Ho detto quello che avete sentito” ripetei, fissando la coda del cane dell’AGIP “Non siete sordo.…”
Sentii delle nocche battere sulla tettoia della macchina, sopra la mia testa, poi sobbalzai al pugno violento sferrato sulla lamiera. Inghiottii la saliva e mi parve che mi fosse diventata disgustosa di colpo, come succo gastrico.
“Tolga quelle viscide mani dalla mia macchina” mormorai senza fiato, anche se avrei voluto urlare “Se avessi avuto dei soldi glieli avrei dati, animale!”
La testa dell’uomo entrò nel mio finestrino. Temetti per un istante che mi volesse mordere o sputare in faccia, invece si limitò a sussurrarmi sul collo, emanando una nuvola di fiato pestilenziale.
“Vui site n’omme e ‘mmerda. E sorde pe’ mme nun l’avite. Ma o ccafè v’o site pigliato, ah?”(Voi siete un uomo di merda. I soldi per me non li avete. Ma il caffè ve lo siete preso, ah?)
E mi accorsi che perlustrava l’abitacolo della mia Panda come cercasse le tracce della mia ricchezza, in mezzo al guazzabuglio di abiti, libri e bottiglie vuote.
“Vuoi vedere” gli risposi, senza però riuscire a reggere il suo sguardo da lucertola gigante “che avrei dovuto rinunciare al caffè per pagarmi la tua manodopera… Ma da dove scendi tu, dai ghiacciai del Matese?”
“Il racconto prosegue nella seconda parte qui”
Autore: Roberto Caracci
Dentro una plastica scrittura narrativa prende vita la prima parte di “Delitto senza castigo” di Roberto Caracci, pubblicato in 4 parti sulla rivista “Progetto Montecristo”.
Il racconto, un thriller surreale, e’ viatico di un viaggio verso il mare per l’incredulo e attonito vacanziere alla vigilia delle sue ferie, quando il piacere della vacanza attende progetti di libertà e di spensieratezza.
Il racconto, che si svolge nella pantomima di un autogrill, vede dialogare due protagonisti che, nella fervida fantasia del lettore, potrebbero essere l’uno lo specchio dell’altro o l’ombra oscura di molteplici personaggi che emergono da diversi mondi interiori, tanti quanti sono le voci che pullulano nel magma di luce e di oscurità di ogni individuo.