Delitto senza castigo parte quarta

da | 12 Feb, 24 | Narrativa |

No, non andò così. Non sarei qui a raccontare, se fosse andata così. Ovvio e banale. Le mie vacanze sono alla fine. Il mare spumeggia a cinque metri dai miei piedi nudi, un mare uguale alle acque in cui, in uno scenario diverso da quello della mia vita, io sarei precipitato con la mia Panda se fosse andata come ho narrato. Siedo sulla chiglia di una barca rovesciata e scrivo queste parole: “A che vale allora averlo raccontato?” A che vale aver tradito ancora una volta la vita reale? Per farmi perdonare dai ventisei lettori che non avessero la pazienza degli amici di famiglia, rivelerò loro qualcosa che nessun narratore di razza dovrebbe dichiarare, per non rompere il patto della finzione e pagare il prezzo del ridicolo oppure soddisfare la più falsa delle domande “È autobiografico?” con la più falsa delle risposte.

Ebbene sì, dichiaro, con il candore di un adolescente dietro il banco di scuola o di un dilettante. D’ora in poi tutto quello che sto per raccontare è autobiografico, è accaduto veramente. Qualcosa può succedere insieme all’autore, alla voce narrante e al protagonista, tanto per scandalizzare i narratologi.

Potrebbe iniziare qui la parte più deludente del racconto. Quella della cosiddetta ‘vita reale’ E dei fatti, inevitabilmente, a senso unico. Accadono, sono accaduti, non riaccadranno più. Non se ne esce né da un lato né dall’altro. Una volta nati, sono destinati a morire, fossilizzati nei loro bunker impenetrabili. Ciò che loro manca, ineluttabilmente, è la possibilità di essere diversi da ciò che sono. E questo il racconto non lo può sopportare. Non sta infatti inciso su nessuna tavola della Legge che l’evento non si sarebbe potuto svolgere in maniera diversa da come si è svolto, e non una ma cento e mille fogge completamente diverse. Nella dinamica di quell’evento, si è verificata come una strozzatura, in cui un solo ‘io’ ha avuto la forza o la ventura di riversarsi, e non i centomila che premevano alle soglie dell’accadimento per infilarsi: tutti questi io, stremati dalla lotta e sfiancati dalla delusione, battono in ritirata come spermatozoi rifiutati dal santo Graal dell’ovulo regale. Per loro non c’è davvero altra speranza, prima di popolare il cimitero delle vite abortite, dalle azzurre galassie del sogno o del racconto.

E allora la vita reale, di cui il racconto sarebbe una copia ossequiosa e più vile di qualunque fantasia se le facesse solo da specchio, riaffiora dalle ceneri solo quando il racconto implode su se stesso come una stella nana e si avvia, per mancanza di carburante, verso la verità del suo buco nero o della sua entropia.

Insomma, ero appena partito senza soldi per la mia casa di vacanza, un cumulo di pietre incollate a secco ed evocanti un monolocale balneare a due passi dalla foce di un canalone.  Meno male che anni prima avevo avuto l’idea di quell’investimento da salvadanaio. Altrimenti sarei stato condannato alla vischiosa umidità estiva della mia città, in mezzo al triste carnevale di intrattenimenti per pensionati ed extracomunitari organizzato dal comune. Era la prima volta nella mia vita che indugiavo a concedermi un espresso al bar per non correre rischi. Ma sarebbero venuti tempi migliori, pensavo tra un autogrill e l’altro, quando magari avremmo fatto tutti il callo all’euro, poveri e benestanti, e l’attuale governo neoliberale sarebbe caduto come gli altri.

Del resto, come accade ai fumatori con le sigarette, i caffè risultano sempre più morbidi al palato quando si è costretti a dimezzarne la dose. E quell’espresso macchiato come un cappuccino e costatomi 85 centesimi, di cui due inghiottiti dallo scaffale dei bon bon, mi aveva per qualche minuto riconciliato col mondo.

Uscendo dal bar, col buon gusto del Kimbo ancora in bocca, mi ero ripromesso di puntare diritto sull’autostrada verso il paese campano del mio rudere al mare, mantenendo il limite massimo dei 90m orari e fermandomi in qualche piazzola solo per lasciar riposare il motore della vecchia Panda. Ciò anche per evitare di lasciarmi tentare da qualche nuovo espresso o, peggio ancora, da la piccola bomba di un pacchetto di pocket- coffee.

Il momentaneo buonumore svanì quando osservai il tergicristallo destro della mia macchina sollevato. Non vedevo il tozzo lavavetri in tuta da benzinaio, che mi aveva già colpito prima di entrare al bar, con la sua frenetica attività di scimmiotto sui parabrezza delle vetture parcheggiate.

Scesi i gradini del bar facendo tintinnare con sicurezza le chiavi della macchina e mormorando a fior di labbra: “Tanto, non gli darò un cazzo”. Non potevo infatti rischiare di trovarmi senza soldi al casello dell’autostrada e comunque non mi piaceva affatto essere costretto a pagare un lavoro che non avevo richiesto, per giunta svolto in mia assenza con la felina rapidità di uno scippatore: sarei stato fermo nel negargli il compenso. E non mi sarei neanche soffermato a spiegargli che ero in debito passivo di millecento euro con la banca e gli spiccioli mi erano necessari come il pane. Tanto, non mi avrebbe creduto, né gliene sarebbe importato un fico secco della mia eventuale povertà.

Mi infilai in macchina e quando già mi rallegravo di poter sgattaiolare via in retromarcia senza affrontarlo, eccolo lì apparire come per magia a un metro dal mio finestrino, un piede sulla strada e uno sollevato sul marciapiede, nella posizione dei bravi di don Rodrigo. Statuario e solenne, aveva la compostezza del gendarme e insieme del controllore del gas. Il cane dell’AGIP ricamato sulla tuta, sotto il mio naso, sembrava il solo a muovere la testa, soffiandomi la sua zaffata di fuoco sul viso, ma non avevo intenzione di lasciarmi impressionare, né dal molosso da guardia né dal suo padrone, che mi fissava con sollecitudine bonaria e stringeva in mano una spugna come fosse un blocchetto di contravvenzioni.

Per fortuna avevo tolto dalla base del cruscotto il mucchietto di centesimi necessari per il pagamento al casello, sicché anche il fiero lavavetri, con la sua faccia da pugile in pensione, poteva rendersi conto che di monete da rastrellare, lì sul momento, non c’era neanche l’ombra. Ma il suo sguardo grigio-verde, sempre più pungente, aveva ora tutto il tempo di allungare occhiate significative sul mio zaino da pellegrino e sul taschino un po’ scucito della mia camicia. Fu con la mano sinistra, mentre la destra provava ad accendere il motore, che gli mostrai platealmente la desolazione di quel cruscotto, ingentilito da qualche scheggia di crackers, ma da nessun centesimo

Ma lui non si accontentò di registrare al volo la condizione in cui versava la macchina del suo cliente. Mi sentivo inchiodato sul sedile della Panda, come un debitore insolvente, da quello sguardo da caimano. “Non tenete i sordi?”, disse, o meglio tuonò, con una voce stentorea da Mangiafuoco. Il tono era piuttosto brusco, intimidatorio, accentuato da un timbro rauco, da carta vetrata.

Io non risposi a voce, ma sollevai le sopracciglia e strinsi le labbra, nella forma più desolata e dispiaciuta possibile, anche se nella mente mi frullava una risposta nel più istintivo romanesco, tanto per fare da contrappeso alla sua arroganza napoletana: “Nun c’è trippa pe’ ggatti, bello mio.’

Il motore cominciò a ridare qualche segno di vita. Ero pronto a ripartire e a riprendere il viaggio per raggiungere finalmente, senza altre soste, il mio rudere al mare. Alzai gli occhi sullo specchietto retrovisore e innestai la retromarcia, sicuro di essermela cavata, con un pizzico di diplomazia, a buon mercato. Ma mi sbagliavo, perché nel momento stesso in cui gettavo l’ultima occhiata, di sfuggita, al lavavetri, pronto a raccogliere secchiello e spatola per piombare su altre vetture in sosta, mi giunse la sua voce bassa, secca, baritonale, che diceva a lettere chiare, lapidarie: “E allora, IETTATEVE A ‘MMARE.

E come se ci fosse il rischio di non essere capito, nel suo stretto dialetto campano, il lavavetri tradusse immediatamente la frase nel linguaggio universale del mimo, quello che sarebbe stato decifrato senza difficoltà anche da un turista giapponese appena atterrato da Tokio. L’uomo si trovava in quel momento di profilo, avendo probabilmente già compiuto un mezzo giro su se stesso per dare un’occhiata ad altre vetture, cosicché le sue braccia protese in avanti e le sue mani giunte in atto di rappresentare il tuffo, si stagliavano in perfetta silhouette contro lo sfondo chiaro del cielo di luglio, come la figura di un sarcofago egizio.

La tempestività della scena e l’efficacia da vecchio attore fecero di quell’atto unico una sorta di cartone animato, a fotogrammi lenti e staccati, in una cornice ipnotica e fuori dal tempo. Rimasi mio malgrado con la mano ferma sulla chiave di accensione, a subire fino all’ultimo scatto quella piccola sceneggiata, capace di imprimersi nelle mie pupille sbarrate con la perentorietà di un’oscena violenza. E quando il lavavetri, con una torsione del collo taurino di insospettabile elasticità, completò il quadretto ruotando la testa quanto bastava per fissarmi con gli occhi da pitone e controllare se il messaggio – con le istruzioni per l’uso – fosse arrivato a destinazione, il messaggio e le istruzioni erano arrivati.

E la abbondante dose di veleno di cui ero saturo già si ramificava rapidamente per vene e arterie, soprattutto quelle del cervello, facendo ribollire come mosto il mio sangue. Ciò che pensai in quel momento, lasciando che il motore della macchina si spegnesse ed evitando di rigirare la chiave, fu che adesso non potevo più proseguire come prima per le ferie. O, almeno, il mattone che era stato scagliato addosso a quel che restava del mio orgoglio di impiegato statale in bolletta, mi impediva ora di partire per le vacanze con la rassegnata tranquillità di prima. Dovevo regolare anzitutto i conti con quella specie di minotauro che sentenziava da pubblico ministero sulla mia vita al verde, quella vita che contava a sentire lui meno dei cinquanta centesimi utili a strappargli il suo ‘Grazie signore, buon viaggio’. Sapevo che avrei fatto male a confrontarmi con un bifolco delle falde vesuviane, disoccupato da sempre o ex detenuto, che faceva probabilmente della lotta per la vita e della mortificazione il suo pane quotidiano. Ma ormai era troppo tardi. Avevo il palato secco e il cuore che mi picchiava sullo sterno. Lui poteva essere in quell’istante l’immondo Minotauro e io il fulgido Teseo, ma il mio sangue in ebollizione diceva che non era così, che eravamo tanto uguali nell’odio e nella miseria da poterci rotolare nello stesso torrido fango.

La mia mano sinistra impugnò la manovella del finestrino per tirarlo giù e far sentire al bifolco l’adeguata risposta. Per qualche secondo indugiai ad abbassare il vetro, chiedendomi se non stavo per fare una sciocchezza a stuzzicare pericolosamente un tale ceffo da pregiudicato. Ma intanto la frase che volevo rivolgergli mi si riduceva a parole sempre più essenziali e taglienti sulla punta della lingua, e non potevo più tirarmi indietro. Così, quando mi decisi a girare la manovella, la risposta era già bell’e stampata nella mente. Più che una risposta era una domanda, che non sapevo ancora con quale tono sarebbe fuoriuscita dal mio palato prosciugato dalla indignazione, ma suonava pressappoco così:

Senta, amico. Ammettiamo pure che io, in quanto povero in canna, incapace di darle due centesimi, meriti di gettarmi in mare con tutti i panni e l’auto al seguito. Ma lei allora, che manterrà una famiglia di cinque contrabbandieri di sigarette sputando schiuma sui parabrezza degli altri, perché non si lega una pompa di benzina senza piombo al collo e mi dà il buon esempio nella baia più vicina?

Non sono proprio sicuro che fosse così elaborata la frase cucinata in quegli istanti dalla mia testa in fiamme. Certo, non mi sarebbe uscita dalla bocca in perfetta punta di fioretto, e qualche parolaccia inframmezzata ne avrebbe certo rovinato l’eleganza e smascherato la concitazione. La verità è che non saprò mai quello che avrei esattamente urlato al falso benzinaio, ricamando stilettate di raffinato sarcasmo o vomitandogli addosso volgarità immonde da taverna, se non fosse accaduto l’imprevedibile.

L’imprevedibile fu di una banalità disarmante. Nessun racconto, che volesse calamitare l’attenzione del lettore o dare soddisfazione a chi lo scrive, potrebbe lasciar passare come momento decisivo, spannung lacerante o tonante apice del climax, un incidente attinto alla più scalcagnata vita quotidiana. Avrei mai potuto raccontare solo ciò che accadde, all’esordio delle mie vacanze, lungo una torrida autostrada estiva, diretta a mezzogiorno, e imboccata da poche ore? Ma allora non sarebbe stato meglio e più dignitoso abbandonare all’oblio la casualità, la banalità, la stupida grettezza di un episodio così poco eroico, così vacuo di senso, di fantasia e di destino?

Insomma, il finestrino non si aprì. Sapevo da mesi che era difettoso e che più volte avevo rischiato di ritrovarmi la manovella tra le dita. Non era bastato vuotarci una pompetta piena d’olio né spalmarci una ditata di grasso lubrificante per attenuarne il crescente cigolio, poi trasformatosi in orribile perdurante stridore, e ora- a quanto pareva -nel fatale blocco stesso del cristallo. Farlo riparare era un lusso per le mie possibilità economiche e del resto, se avessi proprio dovuto rinunciare ai risparmi per la macchina, avrei cominciato dalla marmitta forata come un colapasta o dalla tappezzeria dei sedili ormai a brandelli.
Provai una seconda volta a forzare la manovella, con uguale esito. Allora rinunciai. Rinunciai di colpo, mentre le rughe della fronte dell’uomo si aggrottavano sugli occhi da lucertola in una sconcertata espressione di disprezzo, di dubbio e di allarme. Infatti egli aveva notato il mio gesto e anche la mia rinuncia. E nella sua testa da gladiatore poteva pensare che io avessi voluto rispondergli e poi rinunciare, ciò che spiegava il suo sguardo di sfida, torvo e fermo. Oppure aveva potuto pensare che io intendessi offrirgli davvero una qualche mancia, non avendo udito subito quello che mi aveva detto o essendomi vergognato immediatamente del rifiuto.

O più semplicemente, egli aveva ritenuto che io stessi per andarmene, ignorando la sua frecciata, e mi accingessi ad abbassare il finestrino per aerare la Panda, surriscaldata dal sole.  Quanto al perché, in questa terza ipotesi, io avessi rinunciato ad abbassare il finestrino, a lui probabilmente non importava niente, né doveva più importare a me, in procinto di iniziare le mie brevi benedette vacanze.

Ma poi, superando le pompe di benzina e rimettendomi in autostrada per riguadagnare i miei tranquilli novanta chilometri orari, un ultimo dubbio solleticò il mio cervello, ancora un po’ annebbiato dal mezzo litro di vino bianco; mi domandai se mi avrebbe fatto piacere che il lavavetri si rendesse conto del perché alla fine non avessi abbassato il finestrino. Da una parte infatti avrebbe innescato l’apice del godimento, e per me il fondo dell’umiliazione, la scoperta che i miei astratti furori fossero stati inceneriti da una manovella difettosa. E il pezzente avrebbe smascherato le toppe al sedere di un altro pezzente, in partenza per le ferie con un relitto di guerra spacciata per automobile. D’altra parte, però, avremmo potuto salutarci con la convinzione che a lavare i vetri al posto suo avrei potuto esserci tranquillamente io, mentre lui non avrebbe avuto alcun problema a trascorrere le vacanze in un rudere come il mio, anche mangiando tutti i giorni uova e patate come mi ero ripromesso. Se l’avessi chiamato accanto alla Panda e gli avessi detto, urlando un po’ contro il cristallo bloccato, ‘Guarda in che condizioni mi trovo, amico, non ho neanche cinque euro per farmi riparare il finestrino’, forse il suo grugno beffardo si sarebbe aperto in una grassa risata, e mi avrebbe odiato un po’ di meno.

Invece, me ne ripartivo ora per il mare con quel bel viatico. Sapevo che me ne sarebbe derivata un po’ d’amarezza per qualche decina ancora di chilometri. Poi, inevitabilmente, mi sarebbe passata. Dopo Vietri, infatti, fischiettavo nella Panda ballonzolante come un canarino. Avrei trascorso delle belle vacanze, me lo sentivo. E come un morso di zanzara, l’anatema del lavavetri, mio compagno di miseria, si sarebbe pian piano cancellato sotto i lunghi raggi del sole di luglio, già obliqui alle soglie del tramonto.

Lo posso ripetere anche da qui, ora che le vacanze sono terminate e la pioggia di un temporale senza fine martella il tetto della mia Panda parcheggiata sulla ghiaia, davanti al mare, dove ho deciso di chiudere questa storia. Oggi penso a quell’uomo e gli sono grato, suo malgrado, per avermi dato l’opportunità di raccontare ciò che è stato e ciò che non è stato. Chi sa che al ritorno, in autostrada, non me lo ritrovi sulla carreggiata opposta, davanti a un altro autogrill. Ora sì che potrei mettere nel palmo grassoccio della sua mano tesa qualcosa, centesimi e monetine che mi sono rimasti, malgrado il rincaro fine-stagione delle uova e delle patate. Dovrò controllare anche il mio conto in banca, ma non credo di aver bisogno degli usurai.

Vorrei che questo racconto finisse con la fine della pioggia. Ma il mare è plumbeo e il cielo è una sola massa grigia di nuvoloni fermi nel vento.

Dal mio parabrezza punteggiato di goccioloni e perfettamente lavato, vedo pozzanghere sulla spiaggia e barche già capovolte, che mostrano chiglie piene di alghe. Se ci fosse qui lui, con il secchio e la spatola davanti a me, gli potrei dire tranquillamente: “Guardi, non c’è bisogno. Il temporale ha lavato tutto”.

E invece no. Gli direi di sollevare ugualmente il tergicristallo e fare una bella insaponata, perché la pioggia non basta a togliere le cacche dei gabbiani e la sabbia di una intera estate. Poi lo porterei al bar, come quello che sul litorale davanti a me agita le sue lamiere nel vento come ali di cormorano e gli direi:

“’Na bella tazzulella di caffè bollente, amico? Senza complimenti! Anzi, ci aggiungiamo pure una sfogliatella calda. Offro io, paisà!

Autore: Roberto Caracci

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