Non era proprio il paragone più indicato, anche per quella faccia bruciata dal sole delle campagne meridionali, e poi mi accorsi di parlare quasi ormai come lui, passando dal lei al voi e dal voi al tu, senza controllo.
Il lavavetri mi disse allora che da una cosa sola si vedeva che ero un pezzente, da ‘chella schifezza ‘e caffettiera‘ con cui viaggiavo e dalla condizione di tendopoli cui era ridotta la ‘fenomenale monnezza’ della mia Panda.
“Mo’ ve rrong io vinti centesimi pe’ ‘ddà na pulizzata a sta fogna che ‘ssape e murtadella” (Ve li do io venti centesimi per dare una ripulita a questa fogna che sa di mortadella).
Allora provai ad aprire lo sportello, ma la sua pancia faceva pressione e mi teneva praticamente chiuso dentro.
“Io invece” gridai “con quaranta centesimi, se li avessi avuti, vi avrei pagato un dentifricio per liberare il vostro fiato da questo lezzo di uova marce!….”
Un braccio dell’uomo, tozzo e peloso, entrò dal finestrino e mi cercò il viso. Poi mi sentii afferrare il naso da due dita robuste come tenaglie. Mentre il mio naso veniva pressato e torto fino a sanguinare, i tergicristalli presero ad oscillare da soli, per un mio movimento involontario sulla levetta. L’uomo allora abbandonò la presa, poi allungò la mano fino a raggiungere la levetta e fermarla. Quindi bofonchiò qualcosa come “Mo v’o facce verè io chi è ’o spuorco in mmiezzo a nui” (Ora ve lo faccio vedere io chi è lo sporco fra noi due) e arretrò di due passi, per poi afferrare il secchio d’acqua sporca poggiato sul marciapiedi. Una ondata di schiuma nerastra si rovesciò sui vetri del parabrezza, cancellando completamente la mia visuale sulle vetrine dell’autogrill e le bianche nuvole del cielo estivo.
Uscii dalla macchina con un gran prurito sulla cute e i piedi diventati di colpo freddi.
“Adesso lei me lo lava di nuovo”, dissi all’uomo, che lì sul marciapiedi sembrava un po’ meno basso di me. Stava rimettendo tranquillamente spugna e spatola dentro il secchio vuoto, indifferente al mio indice puntato sul parabrezza ridotto a una chiazza di liquame colante.
“C’o’ cazzo che vv’o lavo” disse raccogliendo il secchio, senza guardarmi “E’ tale e quale a ‘pprima...” In quel momento, osservando il lavavetri che se ne andava, col testone incassato nelle spalle, mi venne da pensare che quel suo corpo taurino non offriva nessuna comoda presa per poter essere strattonato. Afferrarlo per il collo, quasi inesistente tra il doppio mento e le clavicole, sarebbe stato impossibile. Anche le braccia da gladiatore ricadevano grasse e tonde ai lati del tronco compatto, in perfetta adesione, come incollate. Fu così che nell’avvicinarmi a lui, mentre si dirigeva verso i parabrezza delle nuove macchine da lavare, non immaginavo neppure come avrei fatto a fermarlo, per costringerlo a ripulirmi il vetro insozzato. Vidi il mio braccio allungarsi sul suo petto, dove un ciuffo di peli brizzolati sporgeva dal bavero della tuta da benzinaio e le dita della mano contrarsi nella direzione del muso del cane dell’Agip, chiazzato anch’esso di schiuma, come bava. Si sentì uno strappo e la bretella destra, lacerata, penzolò malamente, lasciando che mezza tuta gli scivolasse sul pancione, tutta inclinata.
Il lavavetri alzò gli occhi grigioverdi su di me, aprendoli più del solito, come se mi vedesse per la prima volta. La sua bocca si schiuse allora in un glaciale sorriso a denti stretti, piccoli e gialli, tra i quali brillò un molare d’argento.
“Vui ve vulite male” disse piano, poggiando il secchio a terra. Si riavvicinò alla mia Panda e si sporse, con la solita goffaggine, sul parabrezza inondato di schiuma, come volesse ripulirlo. In quell’istante pensai, incredulo, che si fosse proprio convinto a rimediare al sopruso, quando lo vidi sollevare il tergicristallo sinistro. Invece, il lavavetri afferrò il tergicristallo con entrambe le mani e, con un gesto secco ma anche con estrema accuratezza, lo piegò in un baleno in due segmenti di eguale lunghezza, disposti in perfetto angolo retto.
“Ecco fatto” disse poi, osservando per un secondo il suo capolavoro “Mo’ avite sulo sperà ca nun chiove.” (Ora dovete solo sperare che non piova).
Allora sentii con profonda irresistibile convinzione che la mia vacanza finiva lì, ancor prima di cominciare. Come avrei potuto, ora, ripartire da quella grigia e anonima area di servizio con l’istantanea, impressa negli occhi, di un parabrezza striato di lurida schiuma e di un tergicristallo piegato a compasso dalle mani di un mascalzone? Fino a qualche secondo prima, avvertivo un tremito dietro la nuca e sulla punta delle dita, insieme a un gran gelo che mi paralizzava i movimenti del collo e mi prosciugava la bocca. Ora una vampata di calore mi bruciava le reni, un combustibile di odio e di implacabile violenza che mi spingeva in avanti, come una locomotiva a vapore, per colpire e schiacciare. Per giunta, il sapore del sangue incrostato, proveniente dal naso ancora dolorante, cominciava a farsi sentire sopra le labbra.
Il lavavetri mi studiava ora con attenzione, quasi con curiosità, riprendendo il secchio dal marciapiede e cominciando lentamente ad allontanarsi. Nessuno aveva assistito alla scena. Ma io non mi diressi verso di lui, bensì verso il parabrezza, dove quel moncone di tergicristallo spezzato faceva bella mostra di sé in mezzo alla schiuma. Lo afferrai con entrambe le mani, proprio come aveva fatto l’uomo, ma non per raddrizzarlo, cosa che sarebbe stata comunque inutile. Con un colpo secco lo strappai dal suo sostegno. Mi accorsi che alla base, dove si divideva a forca, era leggermente arrugginito.
“Bravo – commentò il lavavetri, tossicchiando beffardo, ma anche un po’ sorpreso “E ‘mmò mettitavello in culo...”
Mi parve di sentire una signora ridere dietro di me, farfugliando parole tedesche. Effettivamente, in piedi lì davanti alla mia vecchia Panda, col naso che mi si sanguinava e un tergicristallo spezzato in mano sporco di schiuma, sembravo un grottesco donchisciotte in atto di sguainare una forchetta. E mi sorpresi a sorridere anche io, per inerzia, sebbene quel sorriso non piacque al lavavetri, che impallidì di colpo.
Questa volta ero io a chiedermi perché quello sciagurato non arretrasse e non si spostasse di un centimetro dal posto in cui era. Mi fissava col secchio in mano, aggrottando le sopracciglia in atteggiamento insieme minaccioso e interrogativo, mentre avanzavo verso di lui. Ma quello schietto colore bruno di meridionale abbronzato dal sole della campagna, con mille puntini di barba sulle guance malrasate, gli era scomparso dal viso quasi del tutto.
“Dove diceva che dovevo mettere il tergicristalli?”, gli chiesi con un soffio di voce e un tono gentilissimo, quando fui a un metro da lui.
L’uomo doveva adesso alzare un po’ il doppio mento per guardarmi negli occhi. Le rughe ai lati della bocca e un cedimento degli angoli delle labbra, pendule come bargigli, gli segnavano il viso, simile quello di un vecchio mastino napoletano. Mi domandai quanti figli potesse avere a casa e quante volte il suo lavoro da filibustiere lo costringesse a saltare i pasti.
“Che ‘bbuò fa’, strunzo?”, inveì, serrando il labbro inferiore, colto da un leggero tremito. Sembrava fare fatica a tenere ferma quella piega di sferzante disprezzo.
“Accattone e ‘mmerda...”, sussurrai mio malgrado, in un goffo accento campano.
Sollevai con due mani il tergicristallo e ne spinsi con forza l’estremità, laddove il ferro si divideva a forca, nel collo dell’uomo, proprio sotto la giugulare, che indovinai al primo colpo, anche se non immaginavo di dover affondare nel grasso di quella gola con tanta violenza. Le parole del lavavetri proruppero immediatamente dalla gola mescolate al gorgoglio del sangue.
“Chella cessa e ma…”
Il secchio ricadde a terra. Si udì il tintinnio sordo delle gocce di sangue sulla plastica e la schiuma dentro il secchio cominciò a colorarsi di rosso. Lasciai la presa sul tergicristallo, rimasto perfettamente conficcato sotto il pomo d’Adamo e lo zampillo si divise stranamente in due rivoli. Un getto investì in pieno la scollatura di una signora svizzera, intervenuta a sorreggere l’uomo che stava per cadere. Poi il lavavetri cominciò a tremare e si afflosciò su se stesso, trascinando a terra la signora. Questa si mise a urlare con tutte le sue forze, schiacciata dal peso dell’uomo agonizzante sopra di lei, mentre un rigagnolo di sangue e schiuma le gocciolava sulle scarpe.
Io rientrai di corsa nella mia macchina e misi in moto nel momento in cui una coppia di commessi dell’Autogrill, probabilmente addetti alla mensa, interveniva su quel groviglio di corpi. Sapevo che tutti gli occhi erano puntati su di me, ma la schiuma che imbrattava il parabrezza mi nascondeva. Feci retromarcia sgommando sull’asfalto, superai le pompe di benzina spiando la strada da uno spiraglio di vetro pulito, e solo quando riuscii ad immettermi nell’autostrada dalla corsia di accelerazione, azionai l’unico tergicristallo rimasto, che per fortuna era dalla mia parte, per liberare il parabrezza dalla schiuma. Spinsi l’acceleratore al massimo senza più badare al consumo del carburante. Il motore della Panda rombava come quello di un aeroplano. Sul tachimetro la freccia non superava comunque i novanta chilometri orari. Anzi, a ben vedere, più spingevo l’acceleratore e più tendeva a scendere l’asticella della velocità. Il Tir carico di tronchi d’ulivo, che avevo superato pochi minuti prima, tornava a ingrandirsi nel mio specchietto retrovisore, ed ecco che i suoi fari prendevano a lampeggiare, tondi e incalzanti come quelli di una pattuglia dei Carabinieri. Sembrava un sogno, o meglio un incubo. Il tachimetro era sceso ora a cinquanta chilometri orari, sentivo i camion sopraggiungere sulla mia corsia e far stridere i freni, prima del fragoroso e radente sorpasso. A questo punto, immaginavo già di udire le sirene della polizia stradale alle mie spalle e di scorgere nel retrovisore i lampeggianti azzurri di una volante.
Ormai viaggiavo alla velocità di un ciclomotore, trenta chilometri orari. Mi domandai se non fosse il caso di uscire dall’autostrada, magari abbandonando la macchina a una piazzola, per fuggirmene nella campagna. Non c’era alternativa, a meno che stropicciando gli occhi non riuscissi davvero a sgusciare via dall’incubo, da questa impraticabile autostrada di schiuma, di sangue, di sudore.
Ma c’era una terza possibilità: che tutto questo non fosse capitato a me, fino a un certo punto, e nemmeno che si trattasse di una interminabile allucinazione, o di un incubo reale. Restava la possibilità che tutto questo io l’avessi semplicemente scritto.
Come l’ho scritto.
Ed è per questo che ora potevo fuggirmene via, non dall’autostrada o dal mio sogno, ma dalla pagina.
Come ora esco, prima che sopraggiungano gli abbaglianti della polizia.
“Il racconto prosegue nella terza parte qui
Autore: Roberto Caracci
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