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Due versioni di Orfeo

da | 12 Nov, 24 | Filosofia |

Note sul linguaggio magico e la poesia

“A word is dead/ when it is said,/ some say./ I say it just/ begins to live /that day.”

Possiamo assumere questa poesia di Emily Dickinson come caratterizzante non solo, come ovvio, il linguaggio poetico, ma anche quello della magia? È possibile riscontrare una prossimità fra le strutture linguistiche dei due mondi? La parentela non è forse, prima di apparire come eventuale manifestazione storica, radicata in una affinità di organizzazione di queste forme espressive? Se sono per natura simili, devono avere in comune l’esigenza originaria che li fa nascere, ponendosi come scarto nei confronti del linguaggio della quotidianità dal quale poesia e magia si separano. Due sovversioni del linguaggio quotidiano. Ma sono identici gli obiettivi di tale trasgressione? O non giungono poi ad un fine diverso? La rottura del linguaggio quotidiano ha forse scopi distinti. Le strutture affini da ultimo divergono? Poesia e magia si pongono contro gli stessi limiti linguistici, ma, come vedremo, trovano per sè stesse limiti diversificati.

Il linguaggio magico

Per affrontare tali quesiti, occorre partire dall’analisi della struttura generale del linguaggio magico, sviluppata in particolare da Marcel Mauss. Il celebre etnologo evidenzia la presenza di elementi fondamentali, universali e costanti, mettendone in rilievo particolarmente tre: il rifiuto dell’astrazione, le operazioni di un processo di trasformazione e la necessità di una formalizzazione.

– Per il pensiero magico, l’atto dell’enunciazione non è un atto di rappresentazione. Pronunciando una parola non si richiama alla mente l’idea astratta corrispondente, ma si ‘chiama’ direttamente la realtà segnata da quel nome. Non esiste una scissione, tale per cui il linguaggio faccia riferimento ad un concetto non sensibile, che poi l’azione si preoccuperà di rendere eventualmente concretamente operante nella realtà del visibile. L’enunciazione è già, senza mediazione, azione: la voce è una forza che rende disponibile, per i nostri sensi, la cosa nominata. Per la quale l’impellenza delle parole è talmente vincolante e radicata nell’essenza, da non potere sfuggire al richiamo. Nel linguaggio magico, dunque, non si dà mai un momento isolato di significazione, ma, fin da subito, operazione, come viene sempre definito il semplice incantesimo, ‘cantato’ o scritto. Nel De occulta philosopia, testo fondamentale della magia europea rinascimentale, Cornelio Agrippa di Nettesheim più volte ribadisce che “…i nomi propri delle cose sono raggi ovunque presenti, che serbano la loro possa sinché l’essenza della cosa segnata in essi domini e sia discernibile.. i nomi delle cose, a guisa di sacramenti e veicoli delle cose spiegate, apportano con sé dovunque la loro essenza”. “La forza d’una cosa è nascosta nella voce o nella parola stessa e nel nome”: nei termini della linguistica moderna, si direbbe che la magia rifiuta la triade significante-significato-referente, abolendo l’esistenza autonoma del significato e saltando direttamente al referente. Al termine dell’operazione di enunciazione, ci troviamo già al sensibile cospetto della cosa cui pretenderebbe riferirsi il significato. Penso che presentificazione sia il termine che meglio racchiude l’operazione magica, che non definisce le caratteristiche astratte di un oggetto e non lo rappresenta in sua assenza, ma lo rende efficacemente presente senza bisogno di mediazioni. La parola non è un sostituto, la convenzione al posto di ciò che manca, ma è una manifestazione dell’intimità delle cose. Le parole cedono “la loro possa” non perché sia finito un loro compito di simulacri, ma perché la loro energia (“veicoli delle cose spiegate”) si assorbe in quel tutto dal quale l’avevano tratta. L’estremo limite di identificazione cui tende la parola magica è il linguaggio angelico, di cui Agrippa dice che “Se si potesse ridurre al nulla il proprio soffio e identificarsi quasi a colui che ascolta, la parola non avrebbe bisogno d’alcun suono per essere udita, ma s’insinuerebbe nell’ascoltatore come l’immagine nell’occhio o nello specchio…in tale maniera gli angeli e i demoni parlano.”

–  Il linguaggio magico agisce, chiamando delle forze altrimenti assenti, e con esse trasforma la configurazione attuale del mondo visibile; ma non crea quelle stesse forze di cui fa parte. La magia tiene ben fermo che ‘ex nihilo nihilo oritur’. Tutte le sue operazioni sono di trasformazione di una realtà che già sussiste. La creazione pertiene solo alla divinità; la magia umana può solo agire su tale realtà, completandola, come dice la kabalah. Esemplare la leggenda di Rabbi Low di Praga, che con una sola parola diede vita al Golem, enorme fantoccio di terra (imitazione della nascita di Adamo, adamah,‘terra’); e gliela tolse mutando quella stessa parola. Era dovuto partire dalla terra informe, ed un mucchio di terra informe ritrovò alla fine. Questo è il senso generale dell’alchimia, vera e propria attività di trasformazione di una materia già data. Per gli Indù, la magia faceva parte dell’arte dei mutamenti, Maya, e, con essa, non poteva sottrarsi al sensibile ciclo del samsara. Ancor meglio, dice Paracelso nel Paragrano che la natura “…non porta nulla alla luce che già di per sè stesso sia computo, è l’uomo invece che deve portarlo a perfezione. Questo perfezionamento si chiama alchimia. Poiché l’alchimista è in ciò simile al fornaio che cuoce il pane…” Si può al limite produrre un oggetto perverso e imprevedibile come il Golem, ma non si possono inventare forze che non fanno parte dell’ordine naturale, che non si può abolire in favore di un altro che non c’è. La parola magica opera non in base ad un arbitrario e illimitato potere, ma grazie all’unione non discordante di armonia naturale ed intervento umano. Così Cornelio Agrippa: “ogni voce significativa significa anzitutto per l’influenza dell’armonia celeste poi per l’imposizione dell’uomo.”

– Evidente la necessità di una formalizzazione. Occorre conoscere l’armonia naturale fondamentale su cui si opera e le corrette regole per modificare il reale. La magia deve continuamente adattare e controllare la propria operatività rispetto al risultato da raggiungere e nell’ordine della maggiore efficienza possibile. Non agisce mai a caso, accumulando esperienze contraddittorie e fortuite, ma solo secondo un corpus coerente di interpretazioni e di tecniche, che garantisce il felice esito dell’operazione. Secondo Paracelso, “Non esiste caso fortunato che non abbia la sua ragione o che l’esperto non abbia già conosciuto in precedenza. Che altro è la fortuna se non un mantenere l’ordine conoscendo la natura? E che cos’è la sfortuna se non una violazione dell’ordine naturale? “Se esiste un modo non casuale di regolare l’intervento di trasformazione, le formule magiche ne sono dunque la cristallizzazione più immediatamente empirica. Non come ripetizione liturgica, ma come il precipitato delle esperienze e dei procedimenti dimostratisi più efficaci, la più pratica forma di circolazione del sapere magico, l’universalizzazione delle innovazioni di riconosciuto successo. Il processo linguistico magico si può così sinteticamente indicare come un processo di creazione formale. Non crea la sostanza ma la modifica, estraendo, e dunque dando vita, nuove forme dall’illimitato campo dei possibili, portandole nel ben definito campo del sensibile. E, in quanto procedimento operativo e non meramente significativo, si basa su di un preciso codice formale di azione che ne tutela la funzionalità.

La simpatia universale

La magia trae la propria energia dagli universali rapporti di corrispondenza, affinità, armonia fra tute le cose. Sono le leggi cosmiche della simpatia, evidenziate da Mauss nella Teoria generale dela magia, per cui il simile è attratto dal simile e lo produce, il contrario agisce sul contrario, la parte ed il tutto condividono uno stesso destino. Nell’universo ogni cosa ha un legame, spesso occulto e da portare alla luce, con una molteplicità, vasta ma non illimitata, di altre. Un rapporto profondo di contiguità, che la superficie dissimula ed il senso comune spesso trascura. La somiglianza e la simpatia universali sono questo legame e al tempo stesso lo mostrano. E le parole sono il cardine di questa armonia: le parole, che non ‘rappresentano ciò che significano’, ma assomigliano a ciò che chiamano. Il rapporto fra le parole e le cose non è artificiosa convenzione sociale (vedi la critica di Platone nel Cratilo ), né soltanto mimesi esterna, ma somiglianza interna, che dice quel legame, da cui è generata, di coappartenenza ad una stessa realtà. Legame non sempre immediatamente visibile: occorrono perciò degli indizi, delle cifre, dei geroglifici che segnalino l’esistenza di una somiglianza e la pongano in evidenza, per chi sa leggerli. Le segnature di cui parla Foucault, che possono essere fisiche (un identico disegno, discretamente impresso su una pietra o una pianta affini) o ancor più potentemente linguistiche. Nel rito induista del fuoco, citato da Jung, i bastoni diventano realmente quegli organi sessuali cui sono affini per somiglianza, solo quando vengono chiamati pubblicamente con il medesimo nome. Se somiglianza c’è, perché abbia effetto va scoperta e detta: è dunque la parola l’indizio per individuare il legame e renderlo operante. Non è la disposizione che basta a produrre l’effetto, dice Agrippa, ma l’atto della disposizione. Nel linguaggio delle segnature, le parole sono la forma più potente perché più esplicita, che più immediatamente sonda ed illumina il segreto. Secondo un brano delle Upanishad ricordato da Jung, “Quando il sole è tramontato…e la luna è tramontata, e il fuoco è spento, cosa serve da luce all’uomo? Allora la parola gli serve da luce; perché alla luce della parola egli siede e va intorno, fa il suo lavoro e ritorna a casa”. La parola è la luce che rischiara le somiglianze, che proviene dall’intimo della cosa che illumina mostrando di appartenergli pienamente.

Il mondo magico, nel suo complesso, si basa su di una interpretazione delle relazioni nel reale che diverge radicalmente da quella sottesa al linguaggio quotidiano e a suoi usi. Seguendo Mauss, si possono intendere le sue formalizzazioni come uno schema di classificazione dei fenomeni totalmente altro rispetto al senso comune e alla sua pratica sociale. Le parole magiche organizzano intorno a sé delle classi di contenuto concreto, degli schemi riempiti di elementi che la quotidianità separa perché li ritiene disparati. Intorno al grumo delle parole si raggruppano pianeti, erbe, parti del corpo, angeli, pietre già segretamente simili e visibilmente unificati da un vocabolo che ne dice la parentela: il nome di un pianeta, di un segno zodiacale, di una intelligenza mediatrice. La parola non è un timbro esteriore, imposto come una definizione che astrae alcune tipologie generali, ma un membro della stessa classe. interno come un sintomo, come una presenza che possiede le qualità di tutti gli altri suoi elementi. Parafrasando Bertrand Russell, nella magia non può mai darsi un ‘paradosso del barbiere’; le classi del pensiero magico sono tutti insiemi che comprendono sè stessi – il proprio nome – e l’armonia universale è l’insieme di tutti quegli insiemi. Il linguaggio magico porta così alla luce come fondamentale ciò che il linguaggio quotidiano abbandona all’oscuro o all’irrilevante. E, pur dandosi dei propri limiti, oltrepassa quelli del linguaggio quotidiano: questo traboccare lo rende inutilizzabile per il senso comune. È un oltre, forse più vasto, certamente con altri confini, e come tale da esso irrecuperabile.

Il linguaggio poetico

Troviamo un analogo itinerario trasgressivo, un analogo scarto dalla norma nel linguaggio della poesia. Coscienti di tale affinità, i poeti hanno spesso fatto riferimento alle categorie magiche, in contrapposizione alle regole del quotidiano. Basta pensare ai simbolisti, a Lautreamont e ai surrealisti, alle poesie di Gerard de Nerval costruite sulle figure dei tarocchi o alle ‘corrispondances’ di Baudelaire. O a Raymond Roussel che, in Locus solus, crea un mondo sovversivo e inutilizzabile, dove i denti cariati formano splendidi mosaici e strumenti meteorologici recitano la parte di pittore. Roussel rivelerà di essersi ispirato ai poteri delle parole prese in sè stesse, alle associazioni letterali, le similarità di suono, le affinità materiche fra le parole.

Ma, più che l’incontro storico fra poesia e magia, mi interessa verificare in che modo l’affinità fra le due strutture linguistiche permetta tale incontro. La poesia è, innanzitutto, anch’essa un processo di creazione formale. Per Sklovskij, il procedimento poetico è anormale, tradizionale e formalistico. Anormale, perché mira a spezzare il ritmo abitudinario delle percezioni con continue infrazioni allo scontato che rendono nuovamente rilevabile il non più percepito: così la poesia rompe la gabbia dell’usuale. È tradizionale, perché tali scarti dal quotidiano seguono un percorso di trasgressioni letterarie che, affermatisi come innovazione, si consolidano diventando esse stesse tradizione. E così via fino ad una nuova trasgressione (come, secondo Kuhn, nelle rivoluzioni scientifiche). Formalistico perché non il caso, ma leggi costruttive, ben definite, anche se interne alla sola coscienza dell’ultimo trasgressore, guidano l’elaborazione e la resa formale delle infrazioni alle regole. La poesia, come la magia, spezza lo schema della realtà sotteso al linguaggio comune e lo ristruttura secondo le proprie esigenze. “Nessuna cosa è dove la parola manca “, dice la poesia Das Wort di Stefan George. Collocando il suo oggetto in una nuova serie, estraendolo dalla sua categoria la poesia ne rivitalizza la percettibilità non più sottomessa alle classificazioni del vocabolario, all’irrilevanza delle astrazioni più logorate dall’uso comune. Viktor Sklovskij afferma che i bambini godono il mondo più di noi, perché vivono ‘le sedie’ cme cose vive non sottomesse alla categoria del ‘mobilio: “Questo stesso lavoro compie lo scrittore quando distrugge la categoria: trae la sedia fuori dal mobilio”.

Questo itinerario si ritrova, a partire da un’esperienza diretta, nelle riflessioni di Paul Valery.  Emergono in lui, in modo non programmatico, gli stessi momenti evidenziati da Sklovskij: “Il poeta ha essenzialmente l’intuizione di un tipo di combinazioni a parte. Una certa combinazione di oggetti di pensiero che non ha valore per l’uomo comune, ha per lui un’esistenza e si fa notare.” La poesia pura è una verità stra-ordinaria, slegata dalla norma, ma non per questo deve essere priva delle sue proprie norme: “Ogni epoca letteraria e ogni artefice si affidano a certe forme già pronte poeticamente…l’opera così scritta conterrà, pur se frammentariamente, quelle proprietà poetiche che la rendono indipendente dal quotidiano e dalla sua incapacità di riempire di sensibilità il pensiero… Questi scarti fanno presagire in un certo senso un mondo di rapporti distinto dal mondo puramente pratico.”   Valery non si interessa alla magia. Ma delinea un universo di intime corrispondenze, di oggetti del mondo del linguaggio che saltano la mediazione dell’astrazione, “in una relazione inspiegabile, ma intima, con l’insieme della nostra sensibilità.” È il suo “materialismo verbale” per cui critica quelli che devono credere che il loro discorso sia reale per il suo contenuto, “ma la realtà di un discorso sono le parole, soltanto, e le forme”. La vicinanza al ‘realismo magico’ studiato dagli antropologi appare chiaro infine allo stesso Valery: quel perdersi dei poeti all’interno della foresta incantata del linguaggio sarà da lui espressamente chiamato ‘caccia magica’. Lo smarrimento del poeta, attraverso la potenza di quelle parole che cerca di dominare, sbocca alla fine nell’incontro col mondo, potente nella trasformazione ma difficile da percorrere, della parola magica.

Orfeo

La figura di Valery, dell’arduo cammino dei poeti nell’incanto del linguaggio, non può che rispecchiarsi in quell’altra figura cui il mito ha da sempre attribuito l’identificazione di poesia e magia: Orfeo. Poeta e cantore dell’unità cosmica, Orfeo, mago i cui inni ancora nel Rinascimento venivano ritenuti, da Agrippa, come i più efficaci nella magia naturale, Orfeo incantatore anche della morte. L’unità di questa figura, fino alla sua riscoperta moderna (ovviamente, penso a Rilke, o a Campana), sintetizza secoli di rapporti fra poesia e magia. Ma tale identificazione mi pare incompleta. C’è un residuo che le sfugge; c’è una autocontradditorietà nella magia, tale per cui essa ritorna sui suoi passi e si sottrae alla radicale alterità sostenuta dalla poesia. Un paradosso che è bene identificato da Maurice Blanchot: “Ciò che essa vuole è agire sul mondo, a partire dall’ essere anteriore al mondo, l’al di qua eterno in cui l’azione è impossibile.”  La magia sfugge al quotidiano, in un luogo di immagini la cui legge non è più quella dell’azione, ma dell’abbandono al fascino dell’immagine stessa. Ma perché lo fa? Per manovrare il mondo, per acquisire un potere tecnico-pratico e raggiungere la fissità di un risultato. Mentre la sovversione poetica vuole realizzare un’opera essenzialmente non pratica, la magia vuole ottenere la determinatezza di un esito empirico, illudendosi di trascendere il mondo Pare irrecuperabile dal linguaggio quotidiano, ma essa stessa, alla fine di una lunga diversione, inverte la propria rotta e cerca di rientrare, con maggiore potenza, nel mondo strumentale che aveva trasgredito. Crede di poter catturare il regno dell’illimitato, del silenzio, portandolo, sotto forma di parola, come potenza nel regno del limitato. Nota Blanchot che di tale illimitato fa infine apparire nel mondo delle proposizioni solo l’estraneità cadaverica, la magia nera. La fissità della morte corrisponde alla fissità della soddisfazione del bisogno strumentale che la magia ricerca.

Uno spunto del pensiero di Wittgenstein può qui essere chiarificatore. Nel Tractatus, avendo mostrato che “i limiti del mio linguaggio significano i limiti de mio mondo” – e “il mondo è tutto ciò che accade” – conclude che sentire questo mondo come limitato è “il mistico”, che mostra sé ma, essendo ineffabile, se ne deve tacere. La doppia esigenza, di esprimere in proposizioni il quotidiano, e di mostrare, tacendo, l’ineffabile che lo eccede, è ignorata dal linguaggio magico: esso usa il mondo del silenzio a scopo strumentale, attivo, dimenticando che tale mondo, come afferma Blanchot, è tale solo come “il regno della passività, il regno in cui non vi sono fini. “La poesia invece coglie tale differenza, la contraddizione fra limitato e ineffabile. La poesia, quella parola pura che, per Heidegger, si liberava appunto dallo Sprache, il discorso dell’utile, per avvicinarsi al Sage, il dire originario che mostra senza parlare. Al di lè dei limiti del linguaggio quotidiano, la magia trova proprio sè stessa come limite, il suo essere arma di conquista, il volere recuperare, con più efficienza, quelle finalità pratiche che contende alla pragmaticità comune. La gratuità della poesia, che non si pone un fine, ha come unico limite solo il suo essere un linguaggio, il non potere tacere. Limite riconosciuto come contraddizione irresolubile vissuta coscientemente dal poeta. Octavio Paz scrive: “innamorato del silenzio, il poeta non può fare altro che parlare…l’uomo è un essere meraviglioso perché, a volte, parla”. Attraverso la parola possiamo accedere al regno perduto e così recuperare gli antichi poteri: “Ma quei poteri non ci appartengono”.

Due valenze della figura di Orfeo

“Il sacro è muto”, dice Edmond Jabès, e “Il dire…come scrittura del sacro, altro non è che il silenzio del dire”. Siamo coscienti di compiere un sacrilegio; affrontiamo la trasgressione del quotidiano senza uno scopo quotidiano, e la trasgressione del silenzio senza mai afferrare il silenzio. Il coraggio della parola mostra ciò che la parola non può dire. Scrivere vuol dire “muovere dal visibile…verso la non visibilità, verso la non rappresentazione.”

La poesia è il desiderio condannato a rinascere sempre diverso dalla sua realizzazione, secondo Breton. Ed è proprio nei confronti del desiderio che magia e poesia separano definitivamente i propri percorsi. Anche la magia, a volte, sa riconoscere la pienezza del silenzio, se parla un desiderio da soddisfare. Dice infatti Mauss che la coscienza del desiderio è l’incantesimo più forte, l’elemento determinante e muto di un rito parlato. Ma questo è comunque un desiderio che vuole e può realizzarsi per mezzo dell’operazione magica. Si placa una volta soddisfatto, e con ciò ha fine la magia stessa. Raggiunto lo scopo, la magia cessa. Trascinata da una soddisfazione a un eventuale nuovo desiderio, la magia è al giogo di questo movimento: si esaurisce nel risultato, fino ad un successivo bisogno

Ma la poesia, e lo sa bene, ha un desiderio che non può placarsi mai..Il suo percorso è ininterrotto, perché non potrà mai riposarsi nella soddisfazione. Se è il desiderio che sveglia e sostiene la magia, è la poesia che lo mantiene vivo. Parafrasando Wittgenstein, la poesia non tace mai, perché non raggiunge mai il luogo della propria soddisfazione, ma non rinuncia mai a cercarlo. Il dire poetico, desiderando l’ineffabile, non può mai identificarsi con esso. Ma dà continua vita alla parola. La parola che, nella poesia della Dickinson, appena detta muore, è forse la parola magica. Ma la parola che, detta, comincia a vivere quel giorno, è la parola poetica.

La magia si lascia prendere dalla potenza dei legami segnati dalle immagini, ma solo per acquisire ulteriore potenza. E alla fine, con il dominio della propria tecnica, raggiunge sè stessa nei propri scopi e si ferma. La ricerca della poesia è invece incessante. Mancando la cristallizzazione, il punto fermo della conquista, la poesia non arriva mai alla propria fine. E al proprio fine. Senza mai dominare la terra ferma di una vetta raggiunta, la poesia non toccherà mai il proprio fondo. Così sembra adombrare Rilke nella conclusione della decima Elegia duinese:

“E noi che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante
di quando cosa ch’è felice, cade.

Se la magia è quell’ascesa, quell’appigliarsi ad ogni forza, anche la più irregolare, per issarsi fino ad una meta, una felicità desiderata che momentaneamente si afferra, la poesia è invece quel tendere senza meta, questo lasciarsi andare, questa felice caduta, nel vuoto senza fondo del silenzio, che riecheggia continuamente delle sue vane, felici parole.

È questa, infine, la possibile seconda versione di Orfeo, per me la più convincente. Orfeo è, sulla terra, mago e poeta. Con queste sue affini, e forse illecite arti, vi compone canti ed inni e ottiene trasformazioni pratiche. Ma, nell’abisso, ci può scendere solo in quanto poeta. Come mago è inadeguato. Colui che sfida la morte, che la attraversa per strapparle una indicibile parola di vita, che fallisce per aver voluto gettare uno sguardo troppo indagatore; colui che si salva, a mani vuote avendo perso tutto, ma col segno incancellabile della prossimità dell’abisso, è Orfeo, il poeta.


Riferimenti bibliografici

  • Marcel Mauss, Teoria generale della magia, Roma 1976
  • Marcel Mauss, L’origine dei poteri magici, Roma 1977
  • Cornelio Agrippa di Nettesheim, La filosofia occulta o la magia, Roma 1983 Secondo Frances Yates, questo libro ha profondamente influenzato Bruno e Campanella.
  • Paracelso, Paragrano, Bari 1984
  • Walter Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Angelus novus, Torino 1982
  • Michel Foucault, Le parole e le cose, Milano 1980
  • Carl Gustav Jung, La libido. Simboli e trasformazioni, Roma 1975
  • Raymond Roussel, Locus solus, Torino 1082
  • Viktor Sklovskij, Teoria della prosa, Torino 1976
  • Paul Valery, La caccia magica, Napoli 1985
  • Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Torino 1975
  • Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Torino 1980
  • Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Milano 1979
  • Octavo Paz, Vento cardinale, Milano 1984
  • Edmond Jabès, Il libro della sovversione non sospetta, Milano 1984.

Autore: Paolo Pagani

Autore

  • Anticamente docente di Filosofia e Storia, dopo la laurea all’Università Statale di Milano nel 1976. Vive fra Milano e il Monferrato. Ha pubblicato saggi su varie riviste, filosofiche come Kainos e Azioni Parallele, e geostoriche come I viaggi di Erodoto. Si interessa da sempre al problema del linguaggio, in particolare poetico, e tale interesse è sfociato in una produzione poetica costante anche se non vasta. Ha pubblicato poesie su svariate riviste, come Il Monte Analogo, ed una raccolta dal titolo La città sognata dalle osterie, per le edizioni BookSprint.

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