Entusiasmo ed estasi nei riti dionisiaci e apollinei

da | 18 Dic, 23 | Scienze Umane |

Un antico dualismo dell’anima occidentale già presente nei riti della Grecia antica

Nei riti dionisiaci e apollinei della Grecia antica si alternavano due momenti topici del culto, l’entusiasmo e l’estasi. Nell’entusiasmo, il dio entrava in te e tu eri in lui (in theos). Eri in qualche modo posseduto dal demone e insieme ti sembrava di possedere lui: eri un possidente posseduto. La tua condizione non era solo quella del in-vasato e dell’in-spirato, ma anche quella del riempito, del saturato. Eri dentro, e ciò che ti riempiva era qualcosa più grande di te con cui fonderti, almeno momentaneamente. Il dio era con te, in te, e tu con lui, in lui, in una simbiosi che non lasciava spazio ad altro, a fughe della mente o a domande.

Nell’entusiasmo non ti chiedevi nulla, non pensavi nulla, non dubitavi di nulla. Eri dentro, per così dire, la sfera parmenidea della felicità, o l’utero rassicurante del divino. Non ti sentivi solo nell’ex-sistere. Il tuo sistere era un co-esistere col dio o demone (felicità come eu-daimonia), ma anche un con-sistere e un in-sistere: tutto tranne che ex-sistere. Eri dentro e non fuori. Eri l’ospite del dio nel senso soggettivo e oggettivo, l’ospite che ospita e quello che viene ospitato. Ospitavi il dio come te stesso e te stesso come il dio. E non eri né un uomo domandante (nel senso del quaerere e del petere) né un in-dividuo staccato dal tutto. Godevi la presenza dell’assoluto in te e non ex-sistevi come soggetto. O meglio, in quel momento vivevi la tua fusione di soggetto-oggetto, la tua liquidazione di individuo riscattata nel dionisiaco torrente della gioia.

L’estasi come ex-tasis era l’opposto, non il riempimento, la fusione, la saturazione del dio in te, ma il tuo ex-istemi, il tuo uscire dalla stasi e perderti, evaporare, fuggire da te stesso. La liquidazione dell’ego non era funzionale all’immersione nel gran fiume dell’essere, ma all’evaporazione assoluta, alla liberazione ultima, alla catarsi. L’anima se ne volava via via, ma l’anima era tutto, e con l’anima fuggiva ogni traccia di te, dal corpo, alle passioni, dalla memoria.

Probabilmente i due momenti dell’entusiasmo e dell’estasi venivano vissuti nei riti greci non solo come alternantisi, ma anche come compensantisi, ossia simmetrici, chiastici, l’uno il rovescio dell’altro.

Ai fini del nostro discorso, possiamo parlare di due momenti topici non solo della ritualità greco-antica, ma dell’antropologia occidentale in genere, due opposte istanze del desiderio umano, come le abbiamo spesso definite..[1] Da una parte troviamo nell’entusiasmo, anche in chiave etimologica, la realizzazione di uno stato di pienezza-di-senso che finisce paradossalmente con l’annullare ogni esigenza di senso, ogni domanda, ogni minima distanza tra quanto cerchiamo e il nostro cercare. Nell’entusiasmo noi siamo nel nostro regno blindato e protetto, nel nostro paradiso assoluto in cui i frutti cadono nella nostra bocca senza che noi dobbiamo staccarli dall’albero. Siamo nell’utero che ci alimenta e nella coincidenza tra senso e destino, dove ci godiamo il nostro essere totalmente sensati al netto di ogni nostra scelta. Siamo necessitati nella gioia, e nella gioia di un dio che ci possiede non c’è più nulla da chiedere. Il dionisiaco ci satura, ci ubriaca di pienezza, ci assicura alla terra e placa ogni germoglio di angoscia sul nascere, perché noi siamo lì dove dovevamo essere e nel kairos necessitato. Il senso è deciso, deciso per noi, che come bambini al parco giochi dobbiamo solo goderne, senza chiederci chi gestisce la baracca e i burattini.

Dall’altra parte, tuttavia, l’entusiasmo non basta all’uomo, anche perché non è durevole. Il dio non abita sempre in te, e può andarsene da un momento all’altro e sfrattarti dalla felicità. Ma a parte questa ciclica eventualità, sei tu che hai bisogno di altro dall’entusiasmo, del dio o demone in te, di quella pienezza che ti rende oggetto di godimento, non solo soggetto, ma soprattutto ti vincola al giogo di un gioco più grande di te. E il gioco-gioco è bello, si dice, finché dura poco. Soprattutto le sue regole e condizioni, alla lunga, possono apparire le sbarre di una prigione. La noia, come direbbe Schopenhauer, non è solo il rovescio del dolore ma anche dell’entusiasmo che punta alla stabilità. Ed ecco che l’istanza della de-stabilizzazione rovescia la clessidra e inaugura un nuovo ciclo dell’anima, quello dell’affrancamento, della liberazione, di ciò che nelle Maschere del senso abbiamo definito Catarsi [2]. Nell’estasi noi non siamo esattamente nel dio e il dio non è in noi. Nell’estasi non siamo posseduti, anzi la direzione è quello di uno s-spossessamento, di una liberazione totale dal dio come ospite e ospitante, ma anche da noi che con lui ospitiamo la parte necessitante o destinale di noi stessi. È da quel ‘noi stessi’ che ce ne vogliamo andare. E al limite, se di un dio o di un demone ancora avessimo bisogno, sarebbe un’affidabile scorta che ci accompagnasse all’uscita, all’uscita da lui, da noi, e da quella pienezza di senso divenuta nausea.

Ancora una volta la tragica doppiezza ci divide, al punto da costringerci come nei riti greci a trasformarla in alternanza: l’esigenza di entusiasmo, comune a tutti noi, è anche quella di un senso che giunga alla sua assoluta compiutezza, alla sua storia conclusa, talmente conclusa che nella vicenda iniziatica e palingenetica del dio entrato in noi c’è già inscritta dal principio la parola fine, fine del racconto, della storia, della traccia di senso. L’estasi è l’uscita dal quel racconto già scritto, e alla fine morto con la sua compiutezza, che la vita traccia per noi, anche nell’entusiasmo. Qui il disincanto è la catarsi. L’uscire dalla stasi è lo svezzamento dalle parti del sé che, anche nell’entusiasmo, tendono a cristallizzarsi. Come la nausea è la ricaduta di una pienezza protratta nel tempo, in una traccia di senso che si ripeteva come un disco rotto, così l’angoscia è il prezzo da pagare a un’estasi che fa decollare l’anima in un cielo talmente lontano da librarsi anche sopra la vita.

Tra il restare e l’andarsene, l’esser dentro e l’esser fuori, il radicarsi e il volare via, il dimorare e il fuggire, il riempirsi e lo svuotarsi, si gioca fin dai riti greci il dilemma del senso e del suo racconto. La pienezza dell’entusiasmo chiama in causa la catarsi dell’estasi. E viceversa. E questo moto oscillatorio rivive nella tragica e comica danza tribale del senso, e della sua domanda che l’angoscia umana tende a tradurre, a declinare, o a neutralizzare, in narrazione.


[1] Cfr. R. Caracci, Pienezza e catarsi, in Le maschere del senso, Moretti&Vitali, Bergamo, 2015, pag. 152
[2] Cfr. R. Caracci, Saturazione e svuotamento del senso: nausea e angoscia, in Le maschere del senso, cit. pag.153

Autore: Roberto Caracci

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