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I versi lievi di Li Qingzhao

da | 2 Lug, 24 | Narrativa |

Fui nutrita di parole. Imparai a legarle e fonderle, come le note di una sinfonia. Avrei voluto sapere tutto del mondo e della natura, conoscere le leggi che regolano l’universo e il mistero che governa i cicli delle stagioni. Ma non mi fu permesso. La dinastia Song non consentiva alle donne di ambire a un’istruzione, lasciava che il loro cervello languisse e si consumasse privo di sostentamento. La libertà accordata nel periodo della dinastia Tang, che aveva regnato fino a centocinquant’anni prima, si era dissolta come sottile carta di fibre di gelso lasciata al sole.

La fine dei Tang segnò l’inizio di un lungo periodo travagliato. Lotte intestine e sete di potere devastarono questa meravigliosa terra, calpestando le coscienze e causando la distruzione di opere d’arte di inestimabile valore. Un paese che perde le tradizioni e la cultura è come un bosco dopo un incendio. Minuscoli germogli si fanno strada tra la cenere, coraggiosi e fragili, ma gli alberi secolari sono inesorabilmente perduti e con loro il canto degli uccelli e il profumo dei fiori. Sciagurato è colui che distrugge il passato per dare lustro al presente. Seguendo questa strada mette in luce solo le sue debolezze e poggia il suo potere su un terreno sconosciuto.

I Song faticarono a ripristinare una parvenza di ordine e ritrovare una precaria stabilità. Il loro dominio, istituito nel 960, ebbe il merito di riunificare la Cina e di portare alcune novità positive. È innegabile che lavorarono per stimolare la coltivazione del riso, indispensabile a nutrire una vastissima popolazione in costante aumento. E non si può discutere la loro capacità di sviluppare nuove tecnologie militari atte a potenziare le difese dei confini. Ma questi marchingegni non nutrono le anime. I Song guardavano avanti, inseguivano il futuro, ma si dimenticarono del passato e del suo bagaglio di regole morali. E soprattutto trascurarono la parte femminile dell’universo, relegando le donne tra le mura domestiche e trasformandole in gregarie silenziose.

Io ebbi il privilegio di nascere a Jinan, nella Cina orientale, in una famiglia aristocratica, per la quale il sapere rappresentava un valore irrinunciabile. Mio padre era un letterato e le sue conoscenze spaziavano senza vincoli. Non esisteva materia che non lo incuriosisse. La sua mente vagava tra le pagine di un libro come un viandante in un territorio inesplorato, attento a scorgere a ogni passo una pianta sconosciuta o uno specchio d’acqua nascosto. Era un professore dell’Accademia Imperiale e godeva di una certa fama come scrittore di prosa. Diverse stanze della nostra casa erano dedicate alla smisurata collezione di libri che si arricchiva di anno in anno. Fu mia madre, però, ad infondermi l’amore per la poesia. Sedevamo spesso in giardino all’ombra dei Gingko Biloba, che in autunno trasformavano il prato in un tappeto dorato. In quel periodo la temperatura era ancora mite e il sole scivolava dietro l’orizzonte nel tardo pomeriggio. In primavera invece ci accomodavamo sotto la chioma di una grande magnolia, inebriate dal profumo dei suoi petali bianchi. Mia madre sussurrava frammenti delle sue poesie e mi chiedeva cosa ne pensassi, oppure mi ascoltava, mentre leggevo i capolavori dei poeti del passato. Erano momenti di pace, in cui le parole fluivano leggere come i nastri di seta degli aquiloni.

La mia cultura fu forgiata giorno dopo giorno dagli insegnamenti dei miei genitori tra le mura di casa. Avrei voluto viaggiare e vedere le meraviglie della terra in tutti gli spicchi del mondo. Quando qualche viaggiatore ci faceva visita ascoltavo le storie di altri paesi e le descrizioni delle montagne e del mare, degli alberi tempestati di fiori o imbiancati di neve. Avrei voluto annusare la fragranza di piante sconosciute e rabbrividire davanti all’oceano in tempesta, dissetarmi con l’acqua dei ruscelli e assaporare frutti esotici. Non mi fu permesso e dovetti accontentarmi di tracciare sulla carta i cicli delle stagioni guardando il ciliegio del mio giardino.

La poetessa Li Qingzhao 李清照 (1081-1149) – Pubblico dominio, Wikimedia Commons.

Mio padre era un uomo illuminato e accolse come un dono la mia maestria nel comporre poesie. Quando gliele mostravo sorrideva. “Sei abile, Li,” – sussurrava, mentre le sue labbra si aprivano in un sorriso e gli occhi si trasformavano in due fessure lucenti – “in tempi meno oscuri avresti deliziato e commosso uomini e donne con i tuoi versi.”. Era rapito dalle parole che si susseguivano come le maglie di una collana d’oro, senza nodi o sbavature.

I miei scritti erano disseminati di metafore. Avevo notato che dalla fusione di espressioni apparentemente distanti scaturiva una nuova scintilla di significato. Mi divertivo quindi a sperimentare le mille possibilità che mi offriva il linguaggio. Mescolavo, impastavo e abbinavo termini inconciliabili, come un cuoco bizzarro che voglia stupire il suo padrone con sapori originali. Giocavo anche con i suoni, facendo iniziare ciascun verso con la stessa sillaba. Questo artificio legava le parole con un sottile filo sonoro, creando una sorta di rasserenante cantilena.

Il mio mondo era tutto lì, tra la carta di gelso e il pennello. Ero imprigionata in casa dall’ottusità dei nostri governanti, ma i miei versi potevano volare e parlare di me e della mia anima. Suscitai molta ammirazione, ma anche tanta invidia. I grandi uomini apprendono dalle opere dei loro colleghi e gioiscono dei loro successi, mentre i mediocri provano solo rabbia. Così va il mondo.

Due grandi amori riempirono di gioia la mia vita: la poesia e mio marito, Zhao Mingcheng. Ci sposammo nel 1101. Non avevo ancora vent’anni. Zhao ricopriva un’importante carica pubblica ed era figlio di un ministro. Nonostante lavorasse a stretto contatto con i vertici dell’impero, il potere non gli interessava. Veniva mandato spesso in missione e utilizzava ogni momento libero per cercare stampe finemente decorate o vecchie iscrizioni su metalli preziosi e pietra dura. Spesso mi faceva dono di deliziosi monili di giada. Adorava tutto ciò che sapeva di epoche lontane, oggetti sui quali il tempo aveva lasciato tracce impalpabili, depositando una sottile patina che racchiudeva il continuo fluire di momenti tristi e felici.

“È come tenere tra le mani un frammento di vita dei nostri antenati e onorare la loro memoria.” – diceva spesso – “Li, non sembra anche a te che questi oggetti siano un tramite tra noi e chi ci ha preceduti?”.

Anche i miei versi parlavano del passato. Avrei voluto arrestare lo scorrere del tempo per assaporare la felicità che provavo. Circondandomi di opere d’arte create centinaia d’anni prima avevo la sensazione di vivere in una bolla che vagava nell’universo, svincolata dallo scorrere dei giorni e dall’alternarsi delle stagioni. Un mondo fatto di bellezza, dove la morte e l’oblio non potevano entrare. Sognavo di poter manipolare le gocce d’acqua della clessidra rendendole meno fluide e costringendole a fermare la loro caduta.

Zhao mi amava teneramente e apprezzava la mia scrittura. Diceva che le poesie erano sottili corde di seta, luminose e impalpabili, che annodavano i nostri cuori. Il suo affetto nutriva la mia anima e il mio amore carezzava la sua. Vivevamo felici, come due farfalle baciate dalla brezza di aprile. Ci capivamo anche senza parlare. Mi bastava uno sguardo per leggere sul suo viso il turbamento o la beatitudine. Ed era sufficiente un mio sorriso per dissipare le ombre nere che talvolta incupivano la sua fronte.

Nonostante ci amassimo come due giovani puledri, il mio ventre non fu mai benedetto da un figlio. Ho desiderato disperatamente che una parte di mio marito crescesse dentro di me. Ma così non fu. A ogni luna il mio corpo espelleva qualche goccia di sangue e i miei occhi si bagnavano di lacrime.

La nostra esistenza si dipanava serena, finché nel 1126 gli Juchen conquistarono Kaifeng. Shandong e altre città furono messe a ferro e fuoco. La nostra casa fu data alle fiamme. Riuscimmo a salvare gli oggetti più preziosi, ma molti altri furono distrutti. Fummo costretti a scappare e ci unimmo alla massa eterogenea di individui che cercavano di mettersi in salvo. Eravamo due fuggiaschi. Partivamo all’alba e viaggiavamo fino a sera per raggiungere le regioni a sud del Fiume Azzurro. Talvolta era difficile trovare acqua per lavarsi e cibo sano per nutrire i nostri corpi sfiniti. Erano tempi inquieti.

A partire dal 1127, quando la situazione sembrava meno precaria, Zhao ricominciò a viaggiare. L’imperatore gli affidò varie cariche pubbliche in diverse località. La casa senza mio marito era vuota e io ero troppo infelice. Così cercavo sempre di raggiungerlo, dopo aver messo in sicurezza ciò che restava dei nostri tesori. Ogni volta speravo fosse l’ultimo trasferimento e potessimo trovare pace e stabilità. Non fu così per molto tempo.

La fatica e gli affanni di quel lungo periodo furono fatali a Zhao. Il fisico era provato e la mente satura di pensieri negativi. Come spesso succede nei momenti di fragilità, un morbo si impadronì delle sue viscere, provocandogli febbre alta e terribili dolori al ventre. Speravo che la mia presenza sarebbe stata più efficace di qualsiasi medicamento e lo avrebbe aiutato a riprendere le forze. Non fu così. La notte delirava e io tentavo di dargli sollievo facendo impacchi freschi di acqua di zenzero che applicavo sulla fronte arrossata. Il giorno gli somministravo tè a base di kuzu. Nonostante la mia dedizione, la malattia lo consumò come fa la fiamma con una candela e in una manciata di giorni restai sola e disperata.

La spensierata vitalità dei primi tempi si è dissolta. La morte di Zhao ha frantumato il mio cuore e ha annientato la capacità di gioire delle piccole cose. Non c’è nulla che mi dia conforto, né i fiori dei ciliegi che sembrano impalpabili ali di farfalla, né il prato coperto di neve, che la notte si trasforma in una distesa di cristalli diafani. Molti degli oggetti d’arte raccolti con tanta cura sono perduti, calpestati da una guerra fratricida che ha infranto allo stesso modo certezze e speranze. Mi sono rimasti solo i ricordi, che la sera mi prendono per mano e mi affidano a un sonno tormentato.

Soltanto la poesia mi dà il nutrimento necessario per continuare a vivere. I miei versi trasformano il dolore in sublime nostalgia e io proseguo il mio cammino avvolta nella solitudine, osservando il fluire del tempo. Non ho paura della fine: accetterò la morte come un dolce balsamo profumato.

Autore: Virginia Coral

Autore

  • L’autrice da molti anni lavora nel campo della sperimentazione sui farmaci e coltiva, in parallelo, la passione per i viaggi e la scrittura. I primi forniscono spunti ed emozioni che, lasciati decantare, riempiono le pagine bianche. Un corso di scrittura creativa, frequentato quasi per caso, le ha fornito gli strumenti per ridurre la fantasia a un flusso organico di parole. E il coraggio di esporsi al giudizio del pubblico con lo pseudonimo di Virginia Coral. Il primo racconto, pubblicato nella WMI 18, parla di Buenos Aires e della sua musica seducente, il tango. Il secondo racconto è uscito nel volume “365 Racconti erotici”, seguito da altri inseriti in volumi di diversi editori, fino alla pubblicazione del libro “Agata e l’isola del vento”, nelle Edizioni Montag. Invia regolarmente scritti a #brevestoriafelice, il primo concorso letterario “social”, che organizza ogni due mesi un contest di flash-fiction. Negli ultimi anni si è immersa nella vita di Enrico VIII, con l’entusiasmo e la perseveranza di un investigatore, scoprendone luci e ombre, debolezze e ambiguità. Ne è nato così un romanzo storico sulle vicende umane di questo grande re, intrecciate con i destini delle sue sei mogli.

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