(Parte prima)
Il sesto, il quinto ed il quarto secolo a.C. costituiscono rispettivamente per la Grecia antica e per Atene in particolare l’età della nascita, dell’apice e della crisi della democrazia.
Le riforme politiche di Solone, di Clistene e di Pericle fanno sì che ciascun cittadino ateniese possa accedere alle più alte cariche pubbliche. Ma teniamo ben presente che dal titolo di “cittadino” sono esclusi: le donne, gli schiavi e gli stranieri, ove per “straniero” si intende chi non sia nato ad Atene e non abbia entrambi i genitori ateniesi. Si tratta quindi di una forma ancora embrionale di democrazia.
L’ideale di uomo prevalente in questo periodo è dunque quello del cittadino. La virtù più importante viene ad essere la politiké areté, la virtù politica, la virtù del polìtes, del cittadino, ossia la capacità di partecipare attivamente alla vita politica della propria città. L’agorà, la piazza, diventa il luogo in cui si discute, si esprimono e si confrontano opinioni diverse, si prendono decisioni riguardanti l’intera città. Per poter fare tutto ciò diviene necessario possedere un bagaglio completo di conoscenze e di abilità: si rende cioè indispensabile una paidèia, un’educazione.
Le nuove figure che si propongono come capaci di impartire tale educazione, di insegnare il sapere necessario per esercitare la virtù politica, sono quelle dei sofisti (sophistès = sapiente). I sofisti si presentano dunque come uomini sapienti, detentori del sapere ed in grado di insegnarlo ad altri dietro cospicuo compenso in denaro. Questo ci conferma che si ha a che fare, come già detto, con una forma di democrazia ancora incompleta, in quanto ovviamente non tutti i cittadini possono aver accesso a tale privilegio.
Il fatto che i clienti dei sofisti desiderino acquisire soprattutto l’abilità di persuasione nelle discussioni politiche fa sì che le arti coltivate e sviluppate da tali maestri siano soprattutto quelle dell’eloquenza, della retorica e della dialettica.
Diversi studiosi hanno accostato in modo lusinghiero la sofistica a fenomeni culturali successivi, come l’umanesimo e l’illuminismo. In effetti la sofistica rappresenta una rivoluzione rispetto alle correnti filosofiche precedenti in quanto sposta il centro dell’attenzione dalla natura all’uomo. “L’uomo è la misura di tutte le cose” afferma a chiare lettere Protagora di Abdera, vissuto nel quinto secolo. E questo concetto dell’homo-mensura, dell’uomo come unità di misura e punto di riferimento dell’universo intero, è indubbiamente tra i principi fondanti del futuro umanesimo. È quasi superfluo, ma non del tutto, osservare come l’affermazione di Protagora rispecchi la centralità che la figura umana assume nella democrazia, insieme con i suoi bisogni, le sue opinioni, i suoi diritti.
All’illuminismo la sofistica è accomunata da un altro aspetto tipico della democrazia: dallo spirito critico, cioè dall’avversione al dogmatismo, ad ogni affermazione che si presuma assoluta e incontrovertibile, dalla convinzione che su tutto si possa ragionare, discutere e formulare opinioni anche contrapposte (pensiamo appunto alle “Antilogie” o “Ragionamenti contrapposti”, opera dello stesso Protagora). Ricordiamo, in proposito, che l’esercizio della capacità di formulare argomentazioni pro e contro una stessa tesi era prassi costante nelle scuole dei sofisti.
Il motto protagoreo “L’uomo è la misura di tutte le cose” può essere letto ed interpretato in diversi modi, a seconda che per “uomo” si intenda l’umanità intera, come nella lettura “umanistica” di cui abbiamo detto poco sopra; oppure ogni particolare società e cultura; od ancora ogni singolo uomo. Nel secondo caso ci troviamo di fronte ad una sorta di “relativismo culturale”, per cui gli ideali ed i valori variano a seconda dei tempi e dei luoghi. Nel terzo caso si tratta di una sottolineatura della pari dignità di tutte le singole opinioni personali.
Questa visione della realtà mina evidentemente la cieca, ed in fondo ingenua, fiducia nell’esistenza di una verità incontrovertibile dotata di assolutezza e di universalità e tende a sostituire al criterio del “vero” quello dell’utile come metro di giudizio delle cose. Ma quale utile? Quello dettato dall’interesse comune, o quello dettato dall’interesse individuale, od ancora dal potere?
È di per sé evidente come il relativismo e l’utilitarismo sofistici siano in piena armonia con una cultura ed una concezione democratiche solo finché rispettano il primo di tali criteri, quello dell’interesse comune; ed è altrettanto evidente come possano, se spinti all’eccesso, degenerare in forme deteriori di asservimento all’individuo o al potere, esattamente come la democrazia può degenerare in forme di demagogia e di tirannide. La storia della democrazia greca ce ne fornisce un chiaro esempio. Anche in questo caso filosofia e società procedono di pari passo.
Chi, a rischio della propria vita, cercherà di porre un argine ai rischi di cui s’è appena detto e di evitare che l’esistenza di opinioni diverse degeneri nello scetticismo e nell’indifferenza sarà chiaramente Socrate.
Ricordiamo per inciso che egli non lascerà tracce scritte del suo pensiero, convinto che la scrittura “uccida”, bloccandola artificiosamente, la parola viva, la cui sola dimensione autentica è quella del dialogo. Per ricostruire la sua figura dobbiamo pertanto ricorrere a testimonianze indirette come quelle dei filosofi Platone ed Aristotele, dello storico Senofonte e del commediografo Aristofane.
Nato nel 469 a.C. dallo scultore Sofronisco e dall’ostetrica Fenarete, Socrate vive nell’Atene del quinto secolo ed è pertanto figlio della democrazia come i sofisti, ai quali lo collegano diverse analogie e dai quali lo separano profondi contrasti.
Gli aspetti comuni consistono principalmente nell’interesse prevalente per l’uomo e per ciò che lo riguarda (umanismo), nell’atteggiamento critico e razionalistico per cui su tutto si può e si deve ragionare e discutere e nell’attenzione alla varietà delle opinioni. Ma proprio qui iniziano le differenze: se per i sofisti le diverse opinioni sono il punto d’approdo, per Socrate sono solo il punto di partenza. Secondo lui, attraverso il dialogo, attraverso il confronto dei diversi pareri e delle rispettive ragioni ed argomentazioni, si devono poter raggiungere livelli di ricerca sempre più avanzati, che raccolgono ciò che vi è di buono nelle varie opinioni, scartandone però i difetti. Così è possibile conseguire punti di vista nuovi e più alti, in grado di mettere d’accordo i dialoganti (non è detto poi che ciò accada effettivamente) e di avvicinarli sempre di più alla verità.
Per Socrate, insomma, se tutte le opinioni hanno pari diritto di esistenza e di espressione, non per questo tutte si equivalgono né sono indifferenti, come invece accade spesso per i sofisti. E a dover essere promosse in quanto ritenute migliori non sono quelle espresse con maggior abilità retorica, ma quelle che consentono un maggior e miglior progresso nella ricerca e nell’avvicinamento del vero. Quest’ultimo è poi un processo senza fine, giacché non vi è mai una soluzione definitiva ed assoluta, come dimostrano chiaramente le conclusioni spesso “aperte” e problematiche dei dialoghi platonici che hanno come protagonista Socrate.
Egli cerca dunque dei validi antidoti ai rischi contenuti nel relativismo gnoseologico e morale e nell’utilitarismo gretto dei sofisti più estremi (quelli post-protagorei, detti di seconda e di terza generazione) tenendo sempre lo sguardo rivolto alla ricerca del vero e del bene comune.
Autore: Roberto Maria Pittella
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