Il tempo, in Debussy e in Proust – (e nella cultura francese “fin du siècle”)

da | 8 Apr, 24 | Arti |

Cosa è il tempo?

Fin dai primordi della nostra civiltà l’uomo si è interrogato su questa parola, “tempo”, così apparentemente chiara e familiare ma in realtà altrettanto misteriosa e inafferrabile! Ricordiamo cosa scriveva Agostino a questo proposito: “Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so”; e in un altro punto delle “Confessioni”, per rispondere a domande sul rapporto tra il tempo e Dio, diede l’altrettanto celebre risposta “Cosa faceva Dio prima della creazione del tempo? Stava preparando l’inferno per le persone che vogliono indagare cose troppo profonde”.

Incuranti del monito agostiniano, scienziati, filosofi, artisti hanno continuato ad indagare questo concetto nel corso dei secoli, ma queste indagini hanno avuto un sorprendente incremento a cavallo tra ‘800 e ‘900, tanto da poter dire che in trenta anni si è progredito maggiormente di quanto si sia fatto nei tre secoli precedenti.

Le “danze” verso nuove concezioni del tempo furono aperte dal filosofo francese Henry Bergson (Essai sur les donnés immédiates de la conscience, 1889, Matière et Mémoire, 1896, l’Evolution creatrice, 1907). L’osservazione da cui parte Bergson è elementare: il tempo, dal punto di vista personale e percettivo, scorre in modo disuguale: più lento nelle situazioni di dolore o di ansia, più veloce in quelle felici. Osservazione banalissima, che ognuno di noi, anche le persone meno riflessive, avrà fatto. “Il tempo vola”, si sente dire al termine di una piacevole riunione, o “il tempo non passa mai” quando attendiamo l’esito di una operazione chirurgica. Ma proprio qui sta il genio: come parecchie volte nel corso dei secoli, persone geniali (penso a Galilei, a Foucault) osservano fenomeni noti ed osservati da tutti, ma da queste osservazioni traggono poi conclusioni e teorie di inaudita profondità.

E così il “tempo soggettivo”, fino ad allora considerato irrilevante, viene ad assumere lo stesso rilievo del tempo oggettivo, quello cioè uguale per tutti, “scientifico”. (Proprio uno scienziato, il fisico Richard Feynman, si chiede perché molti ritengano di minor rilievo ciò che non è scientifico: l’amore, per esempio, non è scientifico ma si potrebbe considerare la “cosa” più importante di tutte)
Questa concezione del tempo della vita, che non è regolare (così come varia continuamente ed in modo imprevedibile il ritmo del nostro cuore e la frequenza del nostro respiro), via via si irradia dalla filosofia alle arti (peraltro già nel romanticismo l’uso del metronomo, che scandisce un tempo esatto e regolare universalmente, veniva abbandonato a favore del tempo “rubato”, un tempo cioè fluttuante secondo la sensibilità dell’interprete.

Questo clima culturale raggiunge anche l’ambito scientifico, e nel 1899 Freud, con la pubblicazione de “L’interpretazione dei sogni”, assesta un colpo formidabile alla vecchia concezione del tempo, che lo immaginava come una freccia che scorre dal passato al futuro senza mai poter tornare indietro, con una velocità uguale per tutti gli osservatori e misurabile con gli orologi.
Accanto all ‘ “io”, sostiene Freud, alberga un inconscio per il quale non v’è differenza tra passato, presente e futuro. Possiamo sognare il nonno, morto da venti anni, parlare con il pronipote, nato quando egli già non esisteva più. Possiamo fare sogni in cui il tempo va avanti ed indietro in modo illogico, mescolando nella stessa visione eventi passati con altri presenti.
Anche in questo caso Freud partì da una osservazione comune, quasi banale, relativa al tempo nei sogni, ma da questa semplice osservazione dedusse che l’inconscio e le sue produzioni, ben lungi dall’essere piccoli capricci dell’io sono invece il motore affettivo ed emozionale della nostra esistenza.

Freud era medico, operava quindi in un ambito rigoroso; ciononostante molti critici sostenevano e sostengono ancora che le sue deduzioni fossero teorie e non certezze. Ma anche i più feroci critici di una diversa concezione del tempo rispetto a quella convenzionale dovettero arrendersi quando, nel 1905, Albert Einstein pubblicò la prima stesura della “teoria della relatività”, detta anche “speciale” o “ristretta”, che sosteneva- come venne poi dimostrato sperimentalmente- che man mano che si osservino grandezze enormi, il tempo non scorre uniformemente ma costituisce un’unica entità con lo spazio, che si “incurva” laddove sono presenti massa ed energia.

Analogamente a Bergson e Freud, anche Marcel Proust partì da una esperienza quotidiana, che ognuno di noi prova più volte: un sapore ti fa rivivere, ricordare una sensazione già vissuta in passato. Gli uomini comuni si fermano qui, a questa constatazione e all’emozione che ne deriva; il genio ne fa una opera d’arte. Non importa quanto semplice o complesso sia il punto di partenza: ciò che conta è ciò che diceva Hegel, “l’idea è il suo sviluppo”. E così Proust, dall’esperienza sensitiva di dolcetti che gli ricordano tempi passati, costruisce una monumentale opera in otto volumi che rappresenta una pietra miliare nella letteratura di
Il percepire, tramite la memoria, una emozione passata come fosse attuale, rende la più grande gioia perché ci pone fuori dal tempo e fuori dalla paura della morte. “un attimo affrancato dall’ordine temporale ha ricreato in noi, per percepirlo, l’uomo affrancato dall’ordine temporale. E che costui confidi nella propria gioia è comprensibile, anche se il semplice sapore d’una madeleine non sembri logicamente contenere i motivi di tale gioia: come è comprensibile che la parola “morte” non abbia più senso per lui: situato fuori dal tempo, che mai dovrebbe temere dall’avvenire?” (M. Proust.Il tempo ritrovato)

Nella letteratura e nella poesia francese dell’800 troviamo un costante riferimento alla musica, regina delle arti: e la “Recherche” di Proust è costruita come una grande sinfonia, o come una grande sonata ciclica: i suoi movimenti sono molto lunghi, le sue frasi complesse e sviluppate. Rispetto invece alla “digressione”, così cara a Proust, la “Recherche” somiglia piuttosto all’opera, e in particolare all’opera wagneriana, il grande tedesco amato-odiato dall’ambiente e dagli artisti francesi. Infatti, come in Wagner, nella “Recherche” vi è la cosiddetta “melodia infinita”, che non viene mai interrotta bensì sospesa e sottesa anche quando non compare.

Si è cercato di indagare sui rapporti tra Proust e Debussy. Sappiamo con certezza che essi si videro per la prima volta alla Taverna Weber, e probabilmente si rividero nei salotti mondani che amavano frequentare- Proust peraltro li abbandonò presto per chiudersi nella sua casa-prigione, dove pare ammettesse soltanto Reynaldo Hahn. In questa casa però Proust ospitava spesso musicisti, soprattutto quartetti d’archi, che suonassero per lui le musiche dei suoi autori favoriti: non tanto gli autori francesi, ma piuttosto Beethoven, Franck e Saint Saens. Grazie ad un complicato sistema chiamato Teatrophone, Proust attraverso la linea telefonica poteva ascoltare la musica che veniva eseguita nel teatro; al teatrophone ebbe modo di conoscere Pelléas et Mèlisande, opera fondamentale di Claude Debussy. Tuttavia non sappiamo molto di quale opinione i due artisti avessero l’uno dell’altro: Proust amava gli autori classici e Wagner, Debussy conosceva ed apprezzava soprattutto Baudelaire e i poeti a lui contemporanei (Verlaine, Rimbaud, Mallarmè). Con la visione critica che possiamo avere oggi, certamente i due grandi artisti avrebbero potuto avere una collaborazione assai feconda, non foss’altro che per una simile concezione del tempo. Bergson addirittura arrivò a considerare la musica di Debussy come l’esempio più compiuto del concetto, da lui introdotto, di “durèe” o “tempo interiore.

Il tempo interiore, o in termini leggermente diversi il tempo soggettivo, ha caratteri di irrazionalità, taglia fuori la mediazione dell’intelletto, più adatto a misurare e calcolare, adoperando quindi il tempo dell’orologio. Proust scrisse, a questo proposito, una frase che sarebbe adattissima a definire l’atteggiamento di Debussy, propenso ad attribuire alla musica un carattere più magico che razionale: “un’opera in cui vi siano delle teorie è come un oggetto cui non si sia tolto il cartellino del prezzo (M. Proust, Il tempo ritrovato)

Ma andiamo a vedere più da vicino cosa scrive Debussy e come intende il rapporto tra musica e tempo.

In Debussy il tempo musicale, per così dire, si dissolve. Questo avviene, tecnicamente, con l’abbandono- non sempre e non in tutti i pezzi, ovviamente- della pulsazione ritmica. L’immagine sonora che ne deriva è onirica: Debussy prediligeva, tra gli strumenti, il pianoforte, di cui era ottimo esecutore. Amava sostenere che nel pianoforte il suono non ha un corpo fisico, è piuttosto il sogno di un suono, in quanto immediatamente dopo essere emesso scompare, e viene solo artificialmente allungato mediante l’uso del pedale di risonanza.

La musica di Debussy è tutta “nel presente”, nulla in essa diviene, non ci sono sviluppi, non c’è un prima e un dopo. Jankelevitch parla, a proposito della musica di Debussy, di “ istantaneismo”: non ci sono trasformazioni dei temi o dei motivi. In questo, Debussy si differenzia sia da Proust che da Bergson, a cui pure, come abbiamo notato, lo accomunano sensibilità e soggettività. Lo scorrere del tempo in Debussy “è continuamente interrotto, spezzato, per cui non si sviluppa, non progradisce, non fluisce bergsonianamente (V. Jankélévitch, Debussy e il mistero)

Esempi estremamente significativi di questa poetica si possono trovare nel primo libro dei preludi per pianoforte, segnatamente “passi sulla neve”, La cattedrale sommersa”, “la serenata interrotta”, oltre naturalmente all’opera “Pelleas et Mèlisande”. Il tempo, in questi brani, viene disintegrato (come nei buchi neri? Domanda aperta…) e si avverte un senso di ipnotica stagnanza, tuttavia gravida di vita, di potenzialità che forse matureranno, forse no, non è dato sapere (qualcosa di simile al movimento delle particelle secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg? Altra domanda aperta..)

Si potrebbe obiettare che non tutta la musica di Debussy è ipnotica e stagnante: non “Le colline di Anacapri”, non “Giardini sotto la pioggia”, non molti brani orchestrali a partire da “La Mer”. Eppure l’indeterminatezza della direzione, è presente anche in molti brani rapidi e ben ritmati: ad esempio “Mouvement”, un brano delle “Images”, è imperniato su figure ritmiche veloci che volteggiano ma non vanno da nessuna parte, si accendono e si spengono “senza perché”.

Tecnicamente questa stagnazione, questa compresenza di elementi che non dialogano tra loro, questa negazione della dialettica viene realizzata da Debussy con un ampliamento dello spazio (spazio e tempo una sola cosa come in Einstein? Altra domanda aperta!), ed egli lo realizza utilizzando tre pentagrammi contemporaneamente invece dei due ordinari. Anche gli accordi, i famosi accordi debussyani, mai uditi prima e dal sapore inconfondibile, sono costruiti giustapponendo accordi con accordi, triadi con quarte, accordi eccedenti e diminuiti, accordi di scale pentatoniche – si ascolti ad esempio “Pagodes”, in cui la stagnazione ipnotica avviene all’interno di un movimento piuttosto mosso e di melodie ed armonie che imitano il gamelan orientale; nuovamente un voler sfuggire dal wagnerismo e dal romanticismo, dall’obbligo di “esprimere”, di lanciare messaggi-

Questa nuova concezione del tempo musicale peraltro pone gravide conseguenze sul piano metafisico: infatti questa ipnotica stagnanza, questa disintegrazione del tempo tradizionale implica la negazione del principio di causalità.

Le cose accadono senza una ragione- così come diceva il mistico Angelo Silesio “la rosa è senza perché, fiorisce e basta”

Autore: Maurizio Carnelli

Autore

  • Maurizio Carnelli

    Maurizio Carnelli, musicista e filosofo, si è diplomato al Conservatorio di Milano in pianoforte e composizione e si è laureato a pieni voti in Filosofia all’Università Statale di Milano con una tesi in estetica musicale   In veste di critico musicale e divulgatore ha ideato e condotto al microfono oltre 350 trasmissioni per le tre reti radiofoniche RAI, è stato per anni ospite televisivo di Rai 2 ed ha pubblicato numerosi volumi per la casa editrice Ricordi- Hal Leonard. Collaboratore di riviste musicali, ha inoltre pubblicato un volume su Rachmaninov, e tiene regolarmente lezioni e conferenze in centri culturali ed atenei. Dopo aver insegnato per anni alla Accademia Claudio Abbado di Milano, di cui è stato anche coordinatore, termina la sua attività didattica con la docenza alla Korean National University of Arts di Seul

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