Il Sorpasso
Ernesto aveva spesso provato a immaginare quale faccia potesse avere il ragazzo che alla guida della Ford Taurus, al principio dell’estate, sui tornanti del Trentino, sollevò contro lo specchietto retrovisore il dito medio, dopo il sorpasso, e glielo brandì davanti agli occhi con una violenza carica di adrenalina.
Quel mattino di giugno sentiva i pneumatici delle ruote scorrere dolcemente sul manto nero dell’asfalto, ancora fresco e granuloso, tra le querce e le conifere che agitavano appena le cime e confondevano il loro fruscio con quello delle gomme. Ad ogni curva della salita apparivano nuovi scenari, fatti di nuvole, di baite, di schegge azzurre di lago e fronde ondeggianti contro il cielo pulito della tarda mattinata.
Erano soli, lui e Giorgia, su quella strada di montagna che saliva a lenti tornanti fino a duemila metri di altezza. Avevano abbassato interamente i finestrini per sentire il soffio fresco dei boschi filtrare tra i capelli e gonfiare gli abiti. Sapevano di essere fuggiti dall’umido forno di una città ridotta a soffocare e a sbuffare, nel lavoro o nel tempo libero, per un’estate sopraggiunta troppo precocemente. Il sudore che gli intrideva fino a un’ora prima la camicia e gliela attaccava fra le spalle e lo schienale, si era asciugato. Più crescevano i tornanti sulla provinciale deserta del Trentino, linda e curata nei suoi nastri bianchi perfettamente disegnati, più Ernesto sentiva il respiro allargarsi e il desiderio di solitudine e di pace incontrare finalmente il suo luogo ideale.
Poi lo specchietto retrovisore, che finora aveva riflesso solo squarci di cielo e fughe di abetaie, si riempì all’improvviso di un muso di automobile pressante e aggressivo, incollato al suo paraurti posteriore come una ventosa. La distanza rimase a lungo di pochi centimetri, al punto da fargli pensare quale diabolica abilità richiedesse questo incalzare alla medesima velocità la vettura precedente, senza arretrare di un millimetro nè toccare almeno per un attimo il paraurti. L’andatura di Ernesto era quella di chi fugge dall’inferno di una metropoli strangolata dal caldo e riposa ora lo sguardo e la mente, guidando tranquillamente, sul verde eden montano che lo circonda. La velocità del suo sconosciuto inseguitore era invece quella di chi considerava la strada solitaria del Trentino, chiazzata di ombre e di luci trascoloranti, solo il tracciato abituale che doveva portarlo all’ufficio dove lavorava, o al negozio di ferramenta più vicino, oppure- chi poteva saperlo- alla propria lussuosa villa in cima a un paesello alpestre. Per lui quella era una strada e basta, il paesaggio di nuvole e laghi qualcosa di già visto, la brezza di montagna una forza contraria che frenava la potenza della sua automobile.
Ernesto sentiva il motore della Ford rombare dietro di sè. Nè il fruscio delle ruote nè quello del vento tra i rami delle conifere si udivano più. I tornanti si susseguivano a intervalli regolari, con curve a distanza di poche decine di metri, che rendevano folle qualunque sorpasso anche su una strada così solitaria.
E fu allora che inevitabilmente, come due grandi occhi spalancati, si accesero gli abbaglianti. Qualunque traccia di verde o di azzurro scomparve dal suo specchietto, riempito dalla dilagante luce dei fari della Ford. Era come se lo stesso retrovisore si fosse acceso da solo, sovrapponendo una luce bianca e artificiale, fatta per accecare e non per illuminare, a quella tersa del mese di giugno.
La Ford rombava e latrava, con i suoi pressanti occhi stampati nel retrovisore, lo braccava, lo azzannava, gli urlava la sua fretta. Malgrado la freccia accesa a sinistra, il pirata della strada non aveva il coraggio di azzardare il sorpasso. Da qualunque curva sarebbero potuti spuntare la moto o il furgone che l’avrebbero travolto.
Il tranquillo eden di montagna per Ernesto era ormai stato cancellato dal bagliore intermittente di due fari impietosi e dal turbine di quel motore rancoroso ed esasperato. Approfittò allora di un arretramento della Ford, dovuto probabilmente alla volontà di allentare la morsa sul suo parafangho in attesa di un rettilineo più favorevole e per mostrare all’autista la sua buona volontà di farlo passare, Ernesto sollevò il piede dall’acceleratore rallentando dolcemente. Poi si accorse di aver costretto così il suo inseguitore a retrocedere anch’egli bruscamente, annullando la distanza necessaria al sorpasso.
Udì netto dietro di lui il cambio di marcia, uno stridio di freni, poi l’attrito fischiante di una sgommata sull’asfalto. Nello specchietto cominciò a liberarsi l’immagine del cielo tremolante e delle abetaie, mentre alla sinistra già vedeva avanzare il cofano della Ford che provava il sorpasso. Per uno spiacevole presentimento, Ernesto non si girò a guardare la faccia dell’automobilista che in quel momento sfiorava la sua macchina con la propria, proiettata verso la curva che si avvicinava, con l’acceleratore premuto al massimo. Rimase piuttosto a fissare la colonna nera di gas sparata dal tubo di scarico che annuvolava la luce del retrovisore. Quando la Ford riuscì a rimettersi in carreggiata, davanti a lui, seminando il percorso di una lunga scia di gas nero, nella luce del retrovisore della vettura, accanto alla nuca rasata di un ragazzo curvo sul volante e al balenio di un orecchino, apparve quel lungo dito medio tesissimo e tremante, su di un braccio agitato come una spranga.
E allora Ernesto continuò a salire lungo i tornanti, mentre Giorgia taceva accanto a lui e la Ford si allontanava, raddoppiando furiosamente la sua velocità. La macchina scomparve dietro la prima curva, ma il paesaggio non tornò più quello di prima. Il cielo smaltato d’azzurro occhieggiava tra i rami delle conifere frantumandosi in mille pezzi, che tintinnavano e si scontravano come schegge di vetro, furiosi. Le acque del lago scomparivano e riapparivano tra le radure dei boschi, immobili, gelide e respingenti. Una pigna cadde sul cofano e si sbriciolò sotto le ruote della macchina, precipitata dai rami più alti di qualche pino. E nei freschi anfratti d’ombra delle abetaie, su cui era sceso un improvviso silenzio, Ernesto immaginava uccelli acquattati che aspettavano ostili il suo passaggio per ricominciare a cantare.
Un cartello stradale indicava l’altezza di 1.800 metri sul livello del mare. Ormai entrava un’aria gelida e graffiante dai finestrini. Poichè anche l’ombra degli abeti si addensava in quel punto su di loro, dovettero richiuderli.
“fine prima parte (di 4) ”
“Il racconto prosegue con la seconda parte qui”
Autore: Roberto Caracci
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