Una sciarpa nella pioggia
Lo rivide un anno dopo nel luogo più singolare e imprevisto, lo stadio di calcio inondato di tifosi dove aveva voluto portare per la prima volta Marcello, nella sua solita maglietta nerazzurra che oramai gli andava stretta. Era da un’ora che i cori assordanti percorrevano le gradinate, alternati alle ‘ole’ che si annunciavano come onde umane fin dalla parte opposta dello stadio e arrivavano rapide fino a lui e Marcello, impazzito di gioia ogni volta che lo sollevava. Aveva nello zaino tre bombolette per lui, ora più pallido per l’emozione che per il timore di un nuovo attacco, visto anche che l’ultimo risaliva oramai a sei mesi prima.
Il signore col berretto celeste davanti a lui lo aveva incuriosito subito, perché era l’unica persona nell’intera gradinata a rimanere seduta quando la ‘ola’ li investiva. In realtà era assorto nella lettura di un quotidiano sportivo e poi il colore del suo berretto di lana, pur se non esplicitamente, richiamava quello della squadra avversaria. Il celeste del copricapo non sfuggì però al figlioletto, che con la sua voce timida da pulcino gli soffiò nell’orecchio:
“Papà, ma quel signore è dei loro?“
“Quel signore è un terroncello bastardo che cerca rogna“, intervenne la voce rauca di un uomo pelato, dalla faccia da bulldog e la camicia hawayana, seduto alla destra di suo figlio.
La frase era pronunciata con un tono lento e basso, non tanto però da non poter essere udito dallo sconosciuto. Diego notò che le pagine del quotidiano tremavano leggermente fra le sue dita. Poi il sospetto che il tifoso avversario avesse ascoltato gli fu confermato quando lo vide togliersi il berretto e ficcarselo nella tasca dei calzoni
Osservò le sue basette lunghe e nere, il profilo tagliente, i capelli composti, lucidi di gel. E quando già si chiedeva dove avesse visto quell’uomo cupo e silenzioso, Diego si avvide di quel tatuaggio nero disegnato sul braccio e un brivido di freddo gli passò lungo l’intera spina dorsale. Fu come se avesse ritrovato un amuleto prezioso in un luogo inatteso, dove aveva perso del tutto la speranza di riaverlo. Ricordò ogni attimo di quella giornata di giugno e strinse più forte la manina di suo figlio, che agitava con l’altra una minuscola bandierina nerazzurra.
Sentì delle dita che gli battevano sulla spalla e si girò. Un omone a dorso nudo, con una bandana nerazzurra in testa e una birra stappata in mano, gli indicava il tifoso avversario lì davanti.
“Perchè non gli dici di ficcarselo nel culo quel berretto anzichè in tasca?” esclamò. Seguì la risata di un gruppo di tifosi e una zaffata di alito di birra gli passò sotto il naso. Diego accennò a sorridere anch’egli, ma per stornare l’attenzione sottrasse la bandierina al figlioletto e la agitò urlando il nome della loro squadra. Passò una nuova ‘ola’ e Marcello riprovò la gioia di salire in alto sopra le sue spalle.
La partita iniziò. Il tatuaggio degli angeli in volo lo distraeva ogni tanto dalle manovre di gioco. Guardava la palla bianca rotolare sull’erba, poi il tatuaggio nero, poi ancora la palla, poi il tatuaggio. Gli sembrava che anche quei due angeli abbrancati in volo giocassero una loro partita fra le nuvole, liberi e felici, e che dunque egli dovesse assistere a due gare, l’una sul rettangolo d’erba e l’altra sullo strano cielo color pelle di quel braccio bruno.
Marcello gettava minuscoli strilli rauchi, troppo alti per i suoi deboli polmoni, ogni qualvolta la palla si avvicinava alla porta celeste. Avrebbe voluto dirgli che quell’uomo silenzioso e immobile davanti a loro, quel tifoso avversario e nemico che era stato costretto a nascondere il berretto celeste, conservava sul suo braccio l’amuleto che forse aveva salvato l’anno prima la sua vita. Un amuleto stampato sotto la manica rimboccata della camicia a forma di grande tatuaggio nero, con due angeli che quel mattino aveva raccolto con sé, portato negli occhi e nell’anima, e che probabilmente avevano volteggiato attorno al figlio e custodito il suo respiro.
Ma la loro squadra in quei minuti annaspava sotto le azioni pericolose dei celesti. Già partivano cori che invitavano i tifosi ospiti a tornare nelle fogne e come avrebbe potuto lui spiegare a Marcello, davanti alla folla già esasperata, che quel miserabile coniglio acquattato in mezzo alla calca, forse custodiva ancora per loro involontariamente le chiavi di un piccolo frammento di paradiso?
A un tratto Diego vide gli angeli vibrare. I pugni dell’uomo si chiusero e una imprecazione soffocata gli sfuggì dalle labbra. Il pallone aveva sfiorato di qualche centimetro il palo del portiere di casa.
“Il terroncello vuole essere menato“, commentò torvò il bulldog alla destra di suo figlio.
“Papà” gli sussurrò allora Marcello nell’orecchio “che cosa ha fatto il signore lì davanti per essere picchiato?”
Dopo un minuto, gli angeli balzarono verso il cielo, insieme al pugno sollevato dall’uomo, scattato improvvisamente in piedi per un rigore reclamato dai celesti. Fu allora un’altra voce, torva e cavernosa, quella che ruppe il silenzio alla sua sinistra e che invitò l’uomo a risedersi: “Stai giù. Buono.”
Diego si voltò e vide poco più in là, sulla sua fila, un ragazzo butterato, col viso verniciato di nero e di azzurro, e un singolare sfollagente di legno fra le mani, sbattuto ripetutamente sul palmo di una mano al modo dei poliziotti.
Fu tentato di scendere dal gradone, affiancare il suo uomo e dirgli sottovoce:
“Senti, amico. Tu non mi conosci ma io sì. Ci siamo incrociati due volte in questa vita. Non lo posso giurare, forse hai salvato mio figlio. No, non tu hai salvato mio figlio, ma gli angeli tatuati sul tuo braccio. Ripeto, non lo posso giurare. Ma io vorrei abbracciarti ugualmente, perché mio figlio è qui con me. Tifa per la squadra avversaria, ma che importa. Ora, non fare sapere a nessuno che ti conosco, che sei mio amico, che forse ti debbo la gioia di vivere. È una follia. Non lo dire a nessuno. Ma per ora accetta questo mio consiglio. Non muoverti più su quel gradone, non agitarti qualsiasi cosa accada alla tua squadra. Ascoltami bene. Stai giù buono.”
Il gioco proseguì per qualche minuto, sotto un pulviscolo solare fatto di raggi obliqui che spiovevano come spade sul campo d’erba, filtrando da masse di nuvole sempre più dense, e rendevano in quel momento meno facile distinguere i colori delle maglie. Il pallone bianco rotolava in una direzione o nell’altra. Per un attimo Diego si sorprese a seguire il gioco impassibile, come si trattasse di una partita a flipper, perso in quella frantumazione dei colori che non faceva mutare per niente il suo stato d’animo a seconda di chi, se celeste o nerazzurro, inseguisse quella sfera di gomma.
E invece accadde l’irreparabile. Lo spettacolo indecente, scimmiesco, dirompente, che l’uomo offrì all’intera gradinata ammutolita, quando il pallone si infilò nella loro porta, andò al di là della più grigia previsione e riempì Diego di un brivido ghiacciato dalla testa ai piedi. In quegli istanti di limpido terrore e di funerea impassibilità da parte dell’intero stadio, si udirono distintamente il respiro da mantice di suo figlio, il picchiare di uno sfollagente sul palmo della mano e lo schianto di una bottiglia di birra decapitata sul gradone e trasformata in arma.
Probabilmente l’uomo non tardò a rendersi conto di averla fatta grossa, perché quando si risedette davanti a lui, Diego lo osservò abbassare la testa e rannicchiarsi come chi si accinge ad allacciarsi le scarpe. Vide spuntare oltre la sua spalla il collo scheggiato della bottiglia di birra, ma dicendo qualcosa al suo vicino di sinistra si addossò a lui, chiudendo il varco all’omone a dorso nudo il cui ginocchio già premeva sul suo per farsi largo. E sotto gli occhi stupiti di suo figlio, pallido come un cencio, allungò platealmente il braccio nella direzione dello sfollagente puntato oramai sul collo piegato del tifoso celeste. Il ragazzo butterato, col volto verniciato di nero e di azzurro, lo fulminò con lo sguardo, ma Diego gli strizzò l’occhio in segno di intesa.
Cresceva però il brontolio di temporale che dietro di lui non faceva presagire niente di buono, mentre i giocatori celesti ritornavano nella loro metà campo trascinando trionfalmente il centravanti. Anche il cielo si stava rannuvolando, come le gradinate, tra le quali distinse parole mozzate nel vento come “animale” e “strappiamogli i coglioni”.
Volò un barattolo di birra sopra la testa corvina del tifoso, che curvo sulle ginocchia parve non accorgersene. Lui e Marcello si girarono a guardare chi avesse lanciato la lattina, che aveva rischiato di colpire anche loro e allora si imbatterono in una impressionante muraglia di occhi gelidi d’odio, puntati con una selvaggia voglia di colpire sull’unico bersaglio che meritava di pagare per tutti, accucciato a pochi centimetri da loro. Nuove lattine di birra si accartocciavano tra le dita e un grassone pallidissimo aveva già tentato di sfondare una fila sopra di loro, per raggiungere lo sconsiderato verme avversario.
Diego si sarebbe poi sempre ricordato con stupore della subitanea decisione che prese in quei frangenti e che gli permise probabilmente di salvare la pelle o almeno l’incolumità di quell’uomo. Semigirato sul busto, allargò entrambe le braccia su quella smisurata platea di occhi glaciali e pugni serrati, richiamando l’attenzione su di sè. Poi sollevò l’indice sulle labbra, come a dire “zitti” e assunse l’espressione furbesca e ammiccante di chi sta per preparare il più salato degli scherzi.
Si rimise a sedere, in un silenzio tombale, quindi scoprì teatralmente il polpaccio della gamba destra e arretrò con il busto fin quasi a toccare l’omone dietro, per darsi la spinta.
A quel punto la sua gamba completamente distesa lasciò partire dalla suola dello scarpone di montagna una zampata così secca e brutale, sulla schiena dell’uomo, da farne udire il colpo sordo a più di una fila di distanza. Il corpo del tifoso ebbe un sussulto in avanti e fu quasi scaraventato sulla fila antecedente. Ma riuscì miracolosamente a rimanere dritto, malgrado l’impronta della sua scarpa sulla camicia bianca, visibile a tutti i nerazzurri che bramavano vendetta.
Sotto le prime gocce di pioggia che cominciavano a cadere, il gioco riprese e lo stadio parve rinfrancato dalle azioni finalmente penetranti della loro squadra lanciata alla riscossa. Gli parve di scorgere la nuca del tifoso celeste ruotare lentamente sul collo, per tentare di osservare chi lo avesse colpito così brutalmente.
Ma oramai la gradinata lo ignorava completamente e l’ultimo nerazzurro a curarsene fu Marcello, quando gli biascicò all’orecchio: “Papi, sta scendendo una goccia di sangue sulla schiena di quel signore. Perché gli hai fatto del male?”
Gli poggiai una mano sulla gambuccia, facendogli cenno di lasciar perdere, che gli avrei spiegato tutto in seguito. Ma dopo un po’ dovemmo tutti alzarci in piedi perché diluviava. Aprì il suo vecchio ombrello sgangherato e strinse Marcello a sè per ripararsi insieme. Una selva di ombrelli si urtavano e incrociavano le loro asticelle, tra confusione e proteste. Notò che l’uomo davanti a lui, pur in piedi come gli altri, era rimasto a testa scoperta sotto la pioggia e che dalla tela del proprio ombrello l’acqua piovana ruscellava proprio sugli angeli del tatuaggio, che sembravano ora volare a mani intrecciate nell’uragano. Allungò la punta dell’ombrello per coprire in qualche modo anche lui, con scarsi risultati.
Del goal del pareggio della propria squadra Diego non si accorse se non un istante dopo, travolto dal boato delle gradinate e da un cozzare e sfasciarsi di ombrelli in delirio. La bandierina di Marcello finì sotto i piedi di un albino in festa e nel piegarsi a raccoglierla sfiorò la camicia fradicia del tifoso celeste, dove si accorse che l’impronta nera della sua scarpa si scioglieva come mascara punteggiato di piccole tracce di sangue.
Da una pozzanghera balenante fra due ombrelli partì a un minuto dalla fine il pallone del secondo gol. Fra scrosci d’acqua, schizzi di birra e gomitate di gioia, sentirono tutti lo stadio tremare nelle sue fondamenta di pietra e non si curarono più del nubifragio che colava loro sul collo e nei calzini. Frantumi di vetro scricchiolavano sotto i suoi salti, Marcello travolto dalla festa si ritrovò nel gradone di sotto, col suo piccolo ginocchio contro il fianco del suo uomo. Lo sollevò sulle braccia, mentre veniva a sua volta abbracciato alle spalle dall’omone a dorso nudo, fetido di birra fino alle ascelle. Poi sentì il ricadere dello sfollagente sulla schiena e capì che era l’abbraccio del tifoso butterato. Marcello, felice e ansimante, era alto sotto la pioggia, sollevato come un trofeo dalle braccia del ciccione pelato.
L’arbitro fischiò la fine. Il figlio rideva del suo ombrello trasformato in aquilone. Diego era livido di pacche sulle spalle, gomitate e abbracci fraterni di sconosciuti. Nello sconvolgimento della festa lui e Marcello avevano forse anche cambiato posto, perchè veniva stretto da persone che non ricordava di aver avuto vicino.
Pensò allora che l’unico tifoso che non aveva ancora abbracciato era proprio l’uomo che, in mezzo a tante facce sconosciute, lui conosceva e aveva ritrovato. Nascondeva nella tasca un berretto celeste, ma fosse stato anche turchese, amaranto, a strisce nere e viola, che cosa gli importava? Era giunto il momento di avvinghiare anche lui, stringerlo fra le sue braccia di amico, compagno di strada o di stadio, piangere sotto la pioggia sui suoi angeli tatuati che avevano un giorno volato fino alla camera di suo figlio e magari incrociare le proprie dita con le sue per fluttuare nel vento, ruotando, danzando, facendo lui e l’altro la loro ‘ola’ segreta, come quegli angeli liberi e festosi nel loro angolo di paradiso.
Nessuno, in quel baccanale di gioia, si sarebbe accorto che stava abbracciando un nemico.
Solo dopo un po’ Diego si accorse che Marcello gli strattonava la manica, per svegliarlo dal torpore in cui era caduto nel vedere che al posto dell’uomo del tatuaggio o dove era sicuro che ci fosse ancora lui, un giovane dalla faccia pulita di agente immobiliare sventolava la sua sciarpa zuppa d’acqua nel vento. Aveva impiegato qualche secondo per rendersi conto che quell’uomo, la cui sciarpa stinta dalla pioggia sembrava perdere tutti i colori dell’arcobaleno, non era lui, no, non aveva niente di lui.
“quarta ed ultima parte”
Autore: Roberto Caracci
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