Un calcio nello stadio
Fu nell’inverno successivo che un simile profilo di tempia rasata e quello stesso baluginio di orecchino sfiorarono per un attimo il campo visivo di Ernesto, facendogli venire il sospetto di essersi imbattuto nello stesso individuo. E il sospetto era legato all’impronta di un piede, anzi di una scarpa, rimastagli poi per settimane sulla pelle della schiena. Il violento sigillo era quello di uno scarpone militare dalla suola scanalata, da alpinista. Se si voltava faceva fatica a vedere quel marchio, anche con una forzata torsione sul dorso, ma lo specchio della sua camera, quando si spogliava, rifletteva bene l’ombreggiatura rosa, simile al disegno di un labirinto, che gli tatuava le reni.
Ernesto non guardò mai veramente in viso, né riusciva tutto sommato a immaginarlo, lo sconosciuto giovane che la domenica pomeriggio di un anno dopo allungò la gamba contro la sua schiena e la timbrò all’improvviso con la suola dello scarpone. Lo sconosciuto sedeva dietro di lui, sovrastandolo di mezzo metro. Non erano soli, anzi ottantamila persone sedevano come loro su quei gradoni alti e scomodi che tremavano e vibravano sotto i piedi della folla. Al centro dello stadio, il catino verde del campo di calcio brulicava di magliette colorate e calzoncini bianchi all’inseguimento di un pallone. Il brusio sordo e costante dell’enorme cornice di tifosi si trasformava a tratti in boato, quando il pallone si avvicinava alla porta della squadra color celeste.
Il tifo di Ernesto era discreto e silenzioso. Era circondato da una muraglia di sostenitori della squadra nerazzurra, quella di casa. Ma già un paio di volte gli era sfuggito un urlo o un’imprecazione allorchè il pallone aveva sfiorato i pali della porta nerazzurra. Una terza volta era scattato in piedi alzando il pugno al cielo per un rigore negato ai celesti.
Una voce bassa e rauca aveva brontolato dai gradoni alle sue spalle qualcosa come:
“Stai giù. Buono.”
Si era rimesso a sedere, più docile di un agnello, con una mano sotto il mento e l’altra intenta a spingere più in dentro nella tasca dei calzoni il berretto celeste che aveva suscitato poco prima qualche cupo commento. Era pronto a soffocare ogni accenno di entusiasmo o di protesta nel caso fosse capitata un’occasione alla sua squadra. Se ne rimase a contemplare le trame di gioco della partita come dietro un vetro, sollevando ogni tanto gli occhi su qualche nuvolone grigio che sorvolava lo stadio e minacciava pioggia. Sul rettangolo verde filtrava a tratti il sole fra le nuvole, allungando raggi dritti come spade sulle schiene dei calciatori. Chiazze di ombra nera, che richiamavano i contorni delle nuvole, si alternavano sul prato verde a losanghe di luce, al punto da confondere talvolta i colori delle maglie in un bianco polveroso o a scomporli nelle gamme dell’arcobaleno. Per un istante Ernesto si sorprese a chiedersi che differenza ci fosse tutto sommato se quella sfera di gomma fosse fatta rotolare da magliette celesti o nerazzurre.
Poi accadde l’irreparabile. Dal limite dell’area nerazzurra, proprio al confine fra una striscia di luce e una di ombra, partì dai piedi del centravanti celeste un tiro limpido come una fucilata, che colse l’angolo destro alto tra i pali e gonfiò in un attimo di pura eternità la rete.
Ernesto sentì subito che non era lui quello che balzava in piedi allargando le braccia a crocefisso e sbraitando come un epilettico; probabilmente il demone del tifoso represso per mezz’ora, sotto la sua superficie di calma sofferta, aveva dilaniato gli ormeggi e caricato la molla del più feroce delirio.
Quando ritornò con i piedi per terra e il sedere sui gradoni di pietra, sapeva di aver esultato da solo in tutto lo stadio, o almeno in quel settore di oceano nerazzurro; tant’è che ancora echeggiava e gli ritornava indietro l’urlo esploso nel più siderale silenzio, nel gelo più funereo.
Nessuna delle ottantamila persone dello stadio ammutolito parve udire il tonfo dello scarpone che gli timbrò con forza la schiena, con la sua suola a carrarmato. Fu come quando il disappunto ti spinge a scalciare violentemente una lattina vuota sul marciapiede, o hai un cane randagio nel tuo giardino e gli spari contro una pedata. Al posto della lattina o del cane c’erano le sue reni, che subirono l’improvvisa violenza di quel marchio rispondendo con un brivido capace di risalire l’intera spina dorsale dal coccige alla nuca.
Mentre il centravanti dei celesti ritornava nella sua metà campo trascinato da uno sciame di compagni in festa, Ernesto fu tentato di girarsi di scatto verso il cane rabbioso che lo aveva azzannato alla schiena in quel modo così vile, ma la sua attenzione fu distratta da una nube nera a forma di drago che il vento sembrava spingere alla sua destra sulla testa calva di un tifoso disperato, con il viso fra le mani.
La torsione del busto fu dunque lenta, durò lunghi secondi, quasi egli volesse attendere che nel frattempo il gioco riprendesse sul tappeto verde e la tifoseria uscisse da quell’apocalittico silenzio. Ma il sipario che gli si presentò quando iniziò a sollevare lo sguardo sulla calca nerazzurra dietro di lui, fu quello di centinaia di occhi lucidi di odio puntati sulla sua sagoma come fucili. Tra questi, nella diga umana che incombeva sulla sua piccola figura, lo colpì l’unica pupilla visibile di un vecchio dagli occhiali da sole frantumati.
Continuando a ruotare la testa, timidamente, su quel ventaglio di pavone che gli si spalancava sempre più ribollente e minaccioso dietro le spalle, Ernesto corresse suo malgrado l’espressione corrucciata di chi sta per chiedere giustizia con quella disincantata del turista per caso che osserva uno spettacolo di folclore. Sapeva che foresta di sguardi gelidi e attenti aspettavano al varco un solo moto di rancore per la pedata subita o addirittura di sfida, per far scoccare il segnale del linciaggio. Ma lui tenne la testa bassa al cospetto di questo oceanico Argo brulicante di nero e di azzurro e si carezzò la testa come dispiaciuto anche lui, almeno per un attimo, per quanto fosse accaduto alla squadra locale.
Dietro Ernesto, tuttavia, c’era lui. Sentiva il suo impercettibile fiato sulla nuca e gli pareva quasi di vederli i suoi occhi pungenti di molosso puntati su di sé e la possibile reazione. Era lui la punta emergente dell’iceberg che avrebbe potuto schiacciarlo, l’estrema baionetta di quella falange di odio assiepata attorno a lui. L’orma della sua scarpa gli bruciava sulla pelle della schiena, solo lui da dietro avrebbe potuto godersi l’eventuale sigillo sanguinolento affiorante sotto la camicia, come il marchio di un capo bestiame.
Gli cadde una goccia sul naso proprio mentre cominciava a scorgere con la coda dell’occhio l’ombra di un profilo. Stava iniziando a piovere. Tornò a fissare il rettangolo d’erba punteggiato qua e là dai primi goccioloni. Si aprì un ombrello a spicchi nerazzurri davanti a me, poi altri due a fianco, infine alzando gli occhi al cielo grigio gli parve di scorgere sopra di sè la lunga stecca rotta di un ombrello sgangherato che lo sorvolava. Poteva essere quello dell’unico tifoso che tra gli ottantamila appassionati lo aveva scalciato come un pallone. Dall’ombra del suo profilo, ai margini del campo visivo di Ernesto, gli era parso di intravedere solo la tempia rasata di un ragazzo, in quel momento girato in direzione di un bambino e il baluginio di un orecchino. E fu in quel momento che si chiese se non si trattasse proprio di colui che un anno prima gli aveva scaraventato contro dalla sua Ford, in quella tranquilla mattinata di giugno, feroci scie di gas e adrenalina.
Sotto gli scrosci di una pioggia oramai martellante, che in pochi minuti crivellò il campo disseminato di pozzanghere argentee, la sua squadra subì due gol e in un clima di naufragio perse due a uno. Fradicio come una bandiera ammainata sotto un uragano, Ernesto fu travolto da una calca tambureggiante di ombrelli e abbracci nerazzurri, da cui lui solo era escluso.
La piccola ginocchiata nel fianco che gli arrivò da qualche parte gli apparve, a confronto del calcio nelle reni, una carezza. La camicia bagnata gli aderiva al torace come una pellicola, tanto che il bruciore del marchio sulla pelle della schiena ne risultava confortato.
L’arbitro fischiò la fine della partita, quando con le palpebre martellate dalla pioggia Ernesto provava un’ultima volta a guardare in faccia il giovane dietro di sé.
Ma oramai tutti i posti sulle gradinate erano stati sconvolti nella straripante festa del secondo goal. E quel viso dolce e sbarbato da agente immobiliare, che sventolava una sciarpa colore arcobaleno contro il cielo carico di pioggia, no, non poteva essere lui.
“fine seconda parte (di 4)”
“Il racconto prosegue con la terza parte qui”
Autore: Roberto Caracci
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