Gli angeli tatuati
Diego sapeva bene che viso avesse l’uomo che per due volte aveva incrociato la sua vita e che oramai dubitava di rivedere più. L’avrebbe potuto riconoscere tra mille, nella folla di un mercato o di uno stadio di calcio. Era un volto che non si dimentica, o che almeno lui non avrebbe potuto dimenticare. Bruno, quasi corvino, i capelli ben aderenti al capo, composti, lucidi di gel. Fronte poco alta, sopracciglia accentuate sopra due occhi neri e un naso dritto, piuttosto lungo. Gli zigomi tesi e solcati da due vistose basette fuori moda, paralleli a due profonde rughe verticali.
Potè osservarlo perfettamente, durante un sorpasso lungo la strada del Trentino, la mattina di quella drammatica giornata in cui la sua giovane compagna lo aveva avvertito che il figlioletto Marcello stava soffocando per un attacco d’asma.
La telefonata lo aveva raggiunto in officina, mentre stringeva dei bulloni disteso sotto una vecchia Volvo. Il principale gli aveva passato il cellulare e lui aveva udito il pianto di Donatella ancora prima di avvicinare l’orecchio al ricevitore.
“Santo cielo, amore mio, cosa c’è?“, aveva urlato, non riuscendo a capire ciò che lei farfugliava tra le lacrime.
Poi aveva udito parole come “Marcello” e “bombola” e avevo capito che suo figlio stava male per un nuovo attacco bronchiale e che l’ultima bomboletta contro l’asma si era esaurita.
Diego si infilò nella Ford prestatagli dal principale senza nemmeno risciacquarsi le mani unte di grasso, con la faccia e la tuta sporche di fuliggine e partì a razzo in mezzo alle stradine del paese, con la mano premuta sul clacson e il volto nero come quello di un dannato, alla ricerca della più vicina farmacia. La seconda telefonata lo raggiunse quando rientrava con la nuova bombola nella Ford lasciata in mezzo alla carreggiata, tra le imprecazioni degli automobilisti bloccati.
“Diego, fai presto. Dio mio, non respira. Non riesce a respirare…”
“Fanculo! Fanculo a tutti!“, urlò contro le mani tese e le bocche imprecanti degli automobilisti esasperati.
Urtò contro un parafangho per farsi spazio tra due vetture e sgommò emettendo gas a tutta velocità, per raggiungere l’imbocco della provinciale che saliva alla piccola baita nell’abetaia.
La casa dove Diego e Donatella erano costretti a vivere, dopo essere stati abbandonati alla loro sorte dai genitori in seguito alla gravidanza precoce della giovane compagna, era isolata e lontana dal paese. Ma per fortuna la provinciale quella mattina era deserta, attraversata solo da ricci e lucertole, che balenavano tra le trame di luce e ombra disegnate dagli abeti sull’asfalto. C’era un gran silenzio, riempito dal rullio d’aeroplano della Ford tirata al massimo e dai suoi singhiozzi ormai incontrollabili. Aveva osato tagliare una curva con una spericolatezza da disperato, poi si era detto che la salvezza di Marcello era legata anche alla sua e che non poteva rischiare così.
Quando afferrò il cellulare con una mano per avvertire che arrivava e che aveva la bombola in macchina, la Ford sbandò contro una roccia e fu striata lungo l’intera fiancata. Gettò via il cellulare che poco dopo ritornò a squillare. Non potè che schiacciarlo con la punta della scarpa per udire dal tappetino il pianto di Donatella e parole ormai senza senso.
“Sono qui!” gridò con tutte le sue forze “Marcello! Arrivo! Sono qui…”
Il vento dal finestrino abbassato gli flagellava il viso, asciugandogli le lacrime man mano che scendevano a rigare la faccia nera di fuliggine.
“Dio, Dio” balbettava “Non essere crudele come sempre, Dio!“
I tornanti in salita si facevano più frequenti. Diego stringeva sempre più nelle curve, imponendosi di non fare follie, ma bestemmiava ogni volta che ne vedeva una.
Poi, dopo una curva a gomito a mala pena protetta da un guardrail inclinato su di un precipizio, che sfiorò facendo fischiare ancora una volta i pneumatici sull’asfalto, Diego vide il maggiolone Volkswagen verde scuro, in fondo al tornante.
Sulle prime, gli parve quasi fermo, o come una vettura che stia per accostarsi avendo sbagliato strada o dovendo cambiare una ruota. Ma era solo l’effetto ottico dovuto alla sua velocità e all’agitazione spasmodica dell’intero paesaggio di boschi e casolari, che fluttuavano al di là del parabrezza, dietro una polvere di aghi di pino e il velo di sudore sui suoi occhi.
La sagoma della Volkswagen si ingrandì rapidamente davanti a lui, pronto a superare senza nemmeno decelerare quel coleottero di ferro che procedeva, come ora si accorgeva, ad una andatura lenta e regolare. Tuttavia non potè effettuare il sorpasso di slancio, perché una nuova curva a gomito si avvicinava.
Sferrò d’istinto un pugno contro il tetto della macchina, ma un rumore di vetro infranto lo avvertì che aveva colpito lo specchio del pannello antisole ripiegato sopra la sua testa. E infatti una scheggia di specchio doveva avergli ferito la mano, se era di sangue la goccia caduta sul tachimetro e le nocche delle dita gli dolevano terribilmente.
Il suo paraurti anteriore quasi toccò quello posteriore della Volkswagen, mentre Diego si sporgeva oltre il finestrino nel vento rombante per spiare la fine di quella lunga curva che lo bloccava. Sollevò il palmo sanguinante della mano destra sul clacson, ma avvertì una fitta tra le dita che lo indusse ad azionare gli abbaglianti, lasciandoli accesi contro quello scarafaggio verde che lo precedeva, senza neanche lampeggiare.
Alla luce violenta dei fari, la sua attenzione fu per un attimo risucchiata da un cagnolino di peluche, coricato su di una valigia, che continuava a sporgere la testa in avanti, oltre il lunotto posteriore, e sembrava dirgli sì e invitarlo a tentare il sorpasso, a non indugiare più. La nuca dell’uomo alla guida della Volkswagen era invece immobile, nera, con un taglio perfetto dei capelli che metteva in evidenza il collo bruno. Accanto a lui sedeva una donna, di cui Diego vedeva solo la liscia chioma castana di capelli, anch’essi ordinati e composti. Schiacciava l’acceleratore a vuoto, giocando disperatamente con la frizione e rischiando di bruciare il motore che oramai rullava come quello di un aeroplano in avaria.
La curva a gomito si aprì, ma a quel punto un pannello stradale stroncò la sua pazienza segnalando una nuova doppia curva a fondo scivoloso, accanto a un annuncio di lavori in corso. Il sangue gli gocciolava dalle dita sul pomello del cambio e in quel momento Diego cercò gli occhi del suo carnefice, o di colui che tale gli appariva, nel riflesso dello specchietto retrovisore. Ma vide solo l’ombra del mento e delle labbra, che gli parvero chiuse di una specie di impassibile sorriso.
Allora tentò l’azzardo e malgrado vedesse il fondo del tornante a poche decine di metri, allentò la distanza dalla Volkswagen per superarla, pronto anche a sventrarla col suo paraurti qualora se la fosse trovata ancora davanti.
Fu proprio mentre, schiacciando l’acceleratore fino al tappetino, cominciava ad affiancare la vettura e a lanciare la Ford in una nuvola infernale di gas e fragore, che il maggiolone decelerò sensibilmente. Lo vide sfilare accanto a lui e per un istante i paraurti si sfiorarono pericolosamente. Ma oramai già guadagnava centimetri sull’altra macchina che arretrava, sicchè già il cuore gli picchiava in petto con minore forza malgrado il terrore che dalla cima del tornante spuntasse il furgone che avrebbe posto fine ai suoi giorni, oltre che alle speranze di Marcello. Man mano che la Volkswagen retrocedeva, sentiva che la strada era sempre più sua e non avrebbe incontrato più nessun ostacolo nell’arrivare a casa.
Per alcuni istanti le vetture rimasero affiancate, quella dello sconosciuto che pian piano scivolava all’indietro e la Ford di Diego che spingeva forsennatamente in salita.
Accadde allora qualcosa di inspiegabile. Si voltò a osservare l’uomo che gli stava cedendo la strada, forse per ringraziarlo o per un’improvvisa curiosità, ma la prima cosa che notò fu che lui non lo guardava. Fissava la strada davanti a sè tranquillamente, senza neanche rivolgere la parola alla sua donna seduta accanto. L’inspiegabile fu che il suo piede, per un solo lunghissimo istante, abbandonò l’acceleratore, mentre proseguiva la sua osservazione di quello strano personaggio bruno, silenzioso, dagli occhi neri, i capelli lucidi di gel e le basette fuori moda sugli zigomi squadrati.
Poi, quando già usciva dall’incredibile indugio nel quale come in sogno si era arenato, dimenticando per qualche secondo l’immagine di Marcello annaspante fra le braccia della madre, Diego vide il tatuaggio.
Come avevo fatto a non notarlo prima? Era esteso come una chiazza d’inchiostro, lì, sul braccio bruno dell’uomo poggiato alla base del finestrino e raffigurava due angeli che volteggiavano nello spazio tenendosi per mano, come acrobati o nuotatori danzanti. Non c’era nessun rapporto, nessuna giustificata relazione, tra il viso dell’uomo così assorto e compassato, e quel tatuaggio da ragazzino così evidente sotto la manica rimboccata della camicia, un nero frammento di paradiso stampato sulla pelle del braccio.
Cercò ancora gli occhi dell’automobilista- non era uscito da quel lunghissimo secondo e la curva non pareva essersi avvicinata-, mentre l’uomo fissava ostinatamente la strada guidando alla stessa maniera. Ma i due angeli allacciati avevano già dirottato il loro volo e dal tatuaggio, come silhouette danzanti, sciamavano ora nel fondo dei suoi occhi e della sua anima, per farlo ruotare con loro e garantirgli che non lo avrebbero lasciato solo col suo dolore e avrebbero protetto il respiro di suo figlio sino a che non fosse arrivato con la bombola. Diego pensò immediatamente che doveva essere proprio disperato, per aggrapparsi ora al più stupido dei presagi. Cambiò marcia, fin quasi a spaccare il cambio, e tornò a schiacciare con rabbia l’acceleratore, riempiendo la valle montana di un boato assordante. E quando si rimise sulla corsia destra bagnato di lacrime e sudore, e continuando a gocciolare sangue dalle nocche delle dita, sobbalzò allo squillo del cellulare che era finito sotto il tappetino destro nel punto più distante dalla sua mano.
Provò a raccoglierlo, ma avrebbe dovuto fermare la macchina, perdendo secondi preziosi, o lasciare il volante. Si sorprese a tremare di rabbia e di esasperazione.
“In culo a te, bastardo che stai nei cieli!“, urlò due volte, sollevando il suo medio incrostato di sangue contro il cielo maledetto di quella mattinata di luglio senza fine.
Arrivò a casa in tempo per dare a Marcello tutto l’ossigeno e l’amore di cui aveva bisogno. Sulla maglietta nerazzurra col numero 9 che indossava sempre alla fine della scuola, c’erano ancora i segni della bava e delle lacrime.
Prima che il suo piccolo malato si addormentasse stremato dalla stanchezza, ebbero il tempo di stringersi tutti e tre in un abbraccio senza fine, con le teste singhiozzanti appoggiate l’una sull’altra e le mani allacciate,
Dietro le sue palpebre chiuse e gonfie, riemersero allora nitidamente le silhouette degli angeli in volo, le dita intrecciate proprio come le loro.
“fine terza parte (di 4)”
“Il racconto prosegue con la quarta ed ultima parte qui”
Autore: Roberto Caracci
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