Parte 1a di 2
Il mio nome, Jeanne-Antoinette Poisson, non ha nulla di aristocratico. Fa pensare a una bancarella di pesci al mercato. Me lo fanno notare i miei detrattori qui a Versailles, mentre passeggio tra i vialetti alberati o nei corridoi lucenti di specchi. Per quanto leggero sia il mio passo, per quanto aggraziate siano le scarpette di raso, io resto una parvenu, che con il suo fascino da postribolo ha preso al guinzaglio il sovrano.
Vivo alla reggia e sono una concubina, la più amata, la più preziosa, la più influente. A corte nessuno mi perdona le mie origini borghesi. Lo leggo nei loro occhi, in quegli sguardi incerti tra lo scherno e il disappunto. Come se qualcuno potesse scegliere dove nascere! Ho l’aspetto di un’aristocratica e l’autorevolezza di una regina, sono pure colta e intelligente, ma le mie doti non lavano l’infamia di non essere di nobili natali. Le signore blasonate però schiattano d’invidia quando passo a braccetto al re. Si chiedono perché sia stata scelta io e non loro. L’epoca fasulla in cui viviamo richiede alle signore bellezza e vanità, ma lo charme è altra cosa. Si tratta di un attributo più complesso e indecifrabile, che va tessuto nel tempo, un’alchimia di grazia e seduzione, condita con un pizzico di arguzia e molto carattere. E io sono la femmina più charmant che si sia vista alla reggia.
Si sa, le maldicenze sono l’occupazione preferita dei parassiti che si aggirano intorno alle dimore reali. Nobili che succhiano sangue e denaro, dando in cambio al sovrano la loro imperitura ammirazione. Hanno rubato il mestiere ai buffoni, senza averne però l’acume e la schiettezza. Scimmie ammaestrate che non saprebbero come sopravvivere ai loro fallimenti e alla scriteriata gestione dei loro beni. Fannulloni che si crogiolano in un lusso che non hanno creato, che abitano in palazzi rosi dai tarli e dalle ipoteche. Sono certa che questo mondo artefatto presto si dissolverà, come la sottile lastra di ghiaccio che ricopre in gennaio le fontane del giardino.
È il bisogno che aguzza l’ingegno. Chi ha già tutto per nascita non ha nulla da desiderare o da inseguire. Il contadino cura il suo campo, smuove il terreno e pianta nuovi alberi perché sa che, inverno dopo inverno, anche le piante, come gli esseri umani, sono soggetti a un destino di morte. Accanto agli scheletri dei pruni e dei ciliegi devono esistere piante giovani che perpetuino la specie. Gli aristocratici invece non vedono al di là della mezzanotte del giorno presente. La lungimiranza per loro è un esercizio sterile, il senso del dovere una caratteristica della plebaglia e la fortuna un privilegio della loro classe sociale. Questo approccio si è perpetuato di generazione in generazione, è sedimentato nel tempo impedendo alla società di rinnovarsi e non potrà che condurre alla fine di un’era.
Sono fiera delle mie origini borghesi. Saremo noi la classe vincente in un prossimo futuro. I privilegi per nascita sono un retaggio arcaico che funzionava finché il popolo era ignorante e affamato. Oggi i figli degli artigiani e dei bottegai hanno accesso a un’istruzione, anche se scarna, e sono quindi in grado di farsi delle idee sulla struttura sociale e sui difetti di un consorzio umano retto da una monarchia assoluta.
Mio padre, per esempio, pur essendo figlio di un umile tessitore, aveva un invidiabile senso degli affari e ha inseguito con caparbietà il successo. Era un uomo affascinante, il che non guasta. In seconde nozze sposò mia madre, Luise Madeleine, che guarda caso era ricca e bellissima. Non saprei dire se fosse amore o tornaconto. Io lo chiamo padre, perché porto il suo nome, ma considerato il numero di amanti di mia madre non potrei giurare di essere il frutto del suo seme.
Comunque, che esistesse un legame di sangue oppure no, ha poca importanza. Mi ha sempre trattato con affetto e mi ha impartito innumerevoli lezioni di vita. Da valletto di un attendente reale divenne il braccio destro di due ricchi commercianti, fornitori dell’esercito francese. Era scaltro e sapeva come muoversi nel mondo. Costruì una notevole fortuna, anche se, alla fine, beghe politiche e accurati controlli sui suoi bilanci lo costrinsero a scappare in Germania. Solo chi scende a compromessi riesce ad arricchirsi, ma è necessario darsi dei limiti. L’ingordigia porta a stipulare accordi profittevoli, ma troppo rischiosi.
Correva l’anno 1727 quando i miei genitori si separarono. Avevo sei anni. A quel punto privilegi e fasti si dissolsero velocemente. Non era un periodo facile e in un momento di particolare inquietudine mia madre mi portò da un’indovina. Forse cercava nelle stelle risposte che non trovava in sè stessa o forse voleva solo una mano per sgomberare la fitta nebbia che era calata sul suo cuore. Conservo dei ricordi sbiaditi di quel pomeriggio: una stanza in semioscurità, impregnata di un pungente odore di incenso, e due gatti, uno nero e uno grigio, che si muovevano circospetti. Dopo avermi scrutata con i loro luminosi occhi verdi, si avvicinarono e annusarono le mie scarpe. Io allungai le manine per accarezzarli. Non opposero resistenza e cominciarono a strusciarsi sulle mie gambe.
“I gatti sono attratti dalla bimba” – disse sorpresa la maga – “È raro. Vostra figlia ha il dono di entrare nell’anima degli animali e degli uomini e di farsi amare.”.
“È vero!” – confermò la mamma – “Riesce a farsi voler bene da tutti.”.
“Fammi vedere i tuoi occhi, piccolina.” – sussurrò quella strana donna.
Alzai il viso un po’ incerta. Lei mi osservò per qualche secondo. Sembrava assorta, ma il suo sguardo era intenso, come se cercasse un pertugio per farsi strada dentro di me fino a raggiungere le profondità più nascoste. Ero impaurita e cercai il viso di mia madre. La donna mi sorrise e mi accarezzò i capelli.
“Sono certa di non sbagliare se dico che saprà legare il cuore di un re.”.
Da quel giorno tutti mi chiamarono Reinette, cioè la piccola regina. Interpretai quel nomignolo come un segno del destino, convincendomi che il mio futuro sarebbe stato luminoso. Leggevo con ossessivo interesse fiabe di draghi e principesse e la notte i miei sogni erano popolati di principi a cavallo e di fanciulle imprigionate in torri inespugnabili, di abiti sontuosi e corone luccicanti. Non so se si trattasse di una fantasticheria o un segreto presentimento che la buona sorte avrebbe prima o poi messo il re sulla mia strada: ci saremmo guardati e una scintilla dorata avrebbe illuminato i nostri cuori. Per anni ho cullato quel desiderio, l’ho accarezzato e fatto crescere come fosse un seme nel caldo utero materno.
Mia madre era una donna molto acuta e aveva intuito che, al di là del presagio dell’indovina, possedevo delle qualità non comuni.
“Mia piccola, tu possiedi doti che dovrebbero essere coltivate.” – mi diceva – “Apprendi con una velocità incredibile tutto ciò che ti insegno e dimostri uno spirito di osservazione raro in una bambina della tua età.”.
Purtroppo non potevamo permetterci dei tutori, quindi mia madre pensò che l’unico modo per darmi una buona istruzione fosse quello di mandarmi nel convento delle Orsoline di Poissy.
Quando, tre anni dopo, lasciai il convento e tornai a casa la situazione era cambiata. Charles François Paul Le Normant de Tournehem, uno degli amanti di mia madre, mi prese sotto la sua ala protettrice e pagò i migliori maestri per darmi un’istruzione moderna, che esaltasse i miei indubbi talenti artistici. Imparai il bel canto, la recitazione e la danza, oltre alla letteratura a alla storia. Non ne parlai mai con mia madre, ma mi ero fatta l’idea che Charles fosse mio padre. Nessuno si sarebbe sobbarcato un tale onere per la figlia di un’amica. Non manifestai mai i dubbi che mi frullavano in testa. Tacere è una gran virtù, mentre ammettere di sapere talvolta inquina i rapporti interpersonali. Esiste un linguaggio muto, fatto di silenzi e di sguardi, con il quale si stringono patti segreti che se portati allo scoperto sarebbero imbarazzanti. Io sapevo, mia madre sapeva che io sapevo ed entrambe non sentivamo il bisogno di rompere l’incantesimo con incaute parole.
Fu un periodo formativo e divertente. Grazie a Charles, la mamma ed io frequentavamo i salotti parigini più in voga, dove conobbi intellettuali del calibro di Montesquieu e Marivaux. Ero diventata una discreta attrice, tanto che, al teatro del castello di Étiolles, recitai davanti a Voltaire nella sua Zaira. Fu una grande emozione quando il drammaturgo venne a complimentarsi per la mia esibizione.
“Sei giovane, ma hai molto talento.” – disse tenendo la mia mano tra le sue – “E scorgo un’intelligenza vivace nei tuoi occhi.”.
Nel 1736 mio padre tornò a Parigi. Aveva sborsato un’enorme somma di denaro per essere riabilitato. Nonostante la separazione, mia madre se lo riprese in casa. Forse provava ancora affetto per lui o forse le piaceva l’idea di convivere con un uomo. Qualche anno dopo, Charles, il mio padre biologico, mi diede in moglie a suo nipote. I genitori di mio marito non erano entusiasti, perché non mi ritenevano alla loro altezza. Avevano altre aspettative, ma la ricca dote e la proprietà di una casa fecero tornare il sorriso sulle labbra a tutta la famiglia.
Essere Madame d’Etiolles mi diede il diritto di varcare le soglie dei più esclusivi salotti di Parigi, frequentati dagli aristocratici vicini al re e dagli intellettuali più apprezzati. Non mi curavo degli sguardi di disapprovazione dei nobili o dei loro bisbigli velenosi sulle mie dubbie origini. Avrei saputo riscattarmi. Moriranno d’invidia quei cicisbei, mi dicevo rabbiosa, fra qualche anno si inginocchieranno ai miei piedi, pregandomi di entrare nei loro letti. Mi prenderò la rivincita molto presto.
Organizzavo spesso ricevimenti, ma non tutti gli aristocratici si degnavano di accettare l’invito, quasi temessero di prendere un’infezione. Pensavano che varcando la soglia di casa mia, la loro aristocratica essenza venisse contaminata, oppure avevano paura di esporsi alle feroci critiche dei loro amici blasonati. E sì che il mio piccolo castello, circondato da vigne e da fitti boschi, sembrava una dimora fiabesca. Dalle grandi vetrate godevo dello spettacolo del giardino, curato in ogni particolare. Aiuole fiorite si alternavano ad alberi secolari, all’ombra dei quali mi sedevo a leggere. L’eleganza degli arredi era degna di una reggia. Sui tavoli bouchet di fiori freschi emanavano un intenso profumo. Li componevo io stessa, scegliendo i fiori in base alla stagione. La servitù era di primordine. L’istruzione di valletti e domestiche era uno dei miei compiti. Non lasciavo nulla al caso, perché pretendevo la perfezione.
Se i nobili snobbavano i miei convegni, gli intellettuali invece rispondevano entusiasti ai miei inviti. Adoravano l’atmosfera che si respirava nella mia dimora. Io ero una padrona di casa accogliente e raffinata. Le mie umili origini mi davano una invidiabile libertà d’azione. Non mi sentivo ingabbiata nei rigidi cerimoniali cui si doveva attenere l’aristocrazia e quindi gli ospiti si sentivano a loro agio, rilassati e sereni in un ambiente informale.
Montesquieu e Voltaire erano i primi a rispondere alle mie missive. Apprezzavano la mia cultura e l’apertura mentale nei confronti delle novità. Mostravo le mie doti senza esibirle. Non millantavo ricchezze che non avevo e non assumevo atteggiamenti fasulli. Ero sempre me stessa, nel bene e nel male. Molti ormai mi chiamavano la divine Étiolles. Ero solita affermare: “Se avessi potuto scegliere sarei nata regina, ma, come si sa, nessuno può scegliere luogo e famiglia dove nascere. Sono una borghese. Non ne ho colpa.”. E i miei ammiratori sorridevano affettuosi, soprattutto Il mio amico Voltaire, che aveva le mie stesse origini. Gli dicevo spesso che nel suo cervello c’era più acume che nell’insieme delle teste presenti a corte. Rideva di gusto con quel suo viso aguzzo e impertinente.
Nove mesi dopo le nozze diedi alla luce un figlio. Ebbi solo il tempo di affezionarmi a lui e di tenerlo fra le braccia, prima che il Signore se lo riprendesse, portandolo fra gli angeli. Fu un duro colpo. Per qualche tempo mi rintanai nelle mie stanze, dove aveva accesso solo la cameriera personale. Tiravo le pesanti tende in modo che la luce del giorno non filtrasse dalle grandi vetrate e piangevo la sorte maligna. Aprivo le finestre al tramonto, quando i raggi obliqui del sole tinteggiavano le colline con un tenue colore azzurrognolo. Inspiravo l’aria profumata di muschio e mi sentivo vicina all’anima del mio bambino.
Lentamente mi ripresi; ero molto giovane e la fiamma di vita che è così luminosa a quell’età riprese vigore e sconfisse le tenebre. Facevo lunghe passeggiate nel parco, coglievo rose dai delicati petali che sembravano lembi di nuvole arrossate dal tramonto. Le univo ai gigli candidi e agli iris di un profondo colore blu e ne facevo grandi mazzi, che sistemavo in casa. Il loro profumo si diffondeva in tutte le stanze.
Nell’estate del 1744 nacque una bambina, che coprì in parte la perdita del primogenito. Mio marito era spesso in viaggio e io non ne sentivo la mancanza. Trascorrevo molte ore della giornata a cullare mia figlia o ricamare le sue piccole vesti. Quando lei dormiva, io suonavo e dipingevo, ma all’imbrunire uscivo a fare lunghe passeggiate nei giardini, lasciando briglie sciolte alla fantasia. Amavo immergermi nei miei sogni di bambina e immaginare una futura vita a fianco di una testa coronata.
Mi era impossibile dimenticare la profezia che l’indovina aveva rivelato quando ero solo una bimba, anche perché la mia dimora era attigua al castello di Choisy, che il re aveva acquistato nel 1739 per farne una riserva di caccia. Tra le innumerevoli dimore principesche di Francia perché Luigi aveva scelto proprio quella? Ero sicura che il destino avesse mischiato le carte per far sì che le nostre strade si incontrassero.
Choisy era un’imponente costruzione, lambita dalla Senna e circondata da una fitta boscaglia. Alla vista del palazzo, con le grandi finestre e il tetto grigio, il cuore mi batteva forte. Immaginavo il re nell’intimità della sua camera, circondato dai valletti, che lo aiutavano a togliersi i pesanti abiti e a indossare una leggera camicia di mussola. Lo vedevo come un uomo normale e desiderabile. Mi avevano riferito che faceva lunghe cavalcate nei suoi possedimenti e nel profondo speravo che prima o poi avremmo percorso lo stesso sentiero. E alla fine successe. Il mio cavallo quel fitidico giorno era capriccioso e si ribellava ai comandi. Nonostante le mie rimostranze, aveva lasciato il sentiero per inoltrarsi nella foresta e non c’era verso di fargli riprendere la via di casa. In senso contrario arrivò un gruppo di cavalieri al galoppo. Rallentarono, uno di loro alzò un braccio per intimare a tutti di fermarsi. Era un bell’uomo sui trentacinque anni. Notai che aveva un perfetto controllo del suo cavallo e una postura elegante.
Comandò a due uomini di avvicinarsi al mio baio, prendere le briglie e calmarlo. Io lo ringraziai con un cenno del capo, lui si tolse il cappello e mi guardò con curiosità.
“Chi è quel signore gentile?” – chiesi sottovoce a uno dei cavalieri che mi stavano scortando sul sentiero.
“È il nostro re, madame.” – rispose quello sorridendo.
Alzai lo sguardo e vidi che il re mi stava fissando. Sfoderai uno dei miei sensuali sorrisi. I nostri occhi restarono in contatto qualche secondo più del consentito dall’etichetta. Avevo stimolato l’interesse del sovrano e dovevo sfruttare il punto di vantaggio.
L’indomani uscii con un abito di seta rosa pallido, guidando una piccola carrozza foderata di luminosa seta blu. Raggiunsi lo stesso luogo alla stesa ora del giorno precedente. C’era una possibilità su cento che il re avesse avuto la stessa idea, ma sperare non costa nulla. E poi perché non dare una mano al destino? Dopo pochi istanti il re arrivò al galoppo seguito da un piccolo gruppo di cavalieri, come se avessimo fissato un appuntamento. Fece cenno a tutti di fermarsi e mi si avvicinò. Abbassai il capo in segno di saluto e sottomissione. I suoi occhi, impreziositi da sopracciglia scure, erano grandi e languidi. La bocca carnosa si inseriva perfettamente nel dolce ovale del viso. Sentii un desiderio improvviso, che percorse il mio corpo come la scarica di un fulmine. Avrei voluto carezzare la sua pelle e sfiorare le sue labbra con le mie. Ero a disagio, ma intuivo che a lui stava succedendo la stessa cosa. Ebbi l’impressione che fossimo entrambi avvolti da un impalpabile alone profumato, impercettibile al resto del mondo. Il paesaggio intorno era scomparso, le voci erano coperte da un misterioso silenzio: ci trovavamo in una terra vergine di cui eravamo gli unici abitanti. Adamo ed Eva nell’Eden o Amore e Psiche nelle tenebre della notte. Fu un attimo e poi il nitrito di un destriero ci riportò alla realtà.
Luigi respirò profondamente e si limitò a dirmi che il mio abito si intonava alla perfezione al colore della carrozza. Ma nel suo sguardo leggevo parole intrise di desiderio, che sarebbe stato sconveniente proferire.
L’indomani cominciò a piovere e dovetti restare chiusa nel mio palazzo. Il brutto tempo purtroppo durò qualche giorno. Sembravo un leone in gabbia. Ero ansiosa e di pessimo umore, ma nei momenti di lucidità speravo che quella forzata separazione avrebbe nutrito il desiderio del sovrano e nel contempo troncato sul nascere inevitabili pettegolezzi. La mattina appena sveglia correvo alla finestra per controllare le condizioni atmosferiche e al primo giorno di sole mi preparai a uscire. Indossai un vestito blu punteggiato di minuscole gemme e raccolsi i capelli fermandoli con rametti di mughetto e fiori di camelia rosa appena sbocciati. Feci preparare un calessino foderato di seta anch’essa rosa, rifinita con passamanerie dorate, e mi recai nella radura dove ci eravamo incontrati le volte precedenti. Avevo il cuore in tumulto. Aspettai un tempo che mi sembrò eterno. Alla fine pensai che gli affari di stato lo avessero tenuto lontano. Quando stavo per desistere e tornare a casa, vidi in lontananza un manipolo di uomini a cavallo pronti per una battuta di caccia. Luigi era in prima fila. Accostai la carrozza sul margine del sentiero battuto, come per lasciarli passare. Lui rallentò fino a fermarsi. Il suo destriero era nervoso e scartava di continuo. Lo accarezzò, accostando il viso alla criniera, come per rassicurarlo.
“Madam d’Etiolles, oggi avete una carrozza rosa e un vestito del colore della notte.” – disse con una voce flautata – “Siete davvero elegante.”.
“Vi ringrazio, Maestà.” – replicai con un cenno di saluto – “Vedo che sapete il mio nome.”.
“Ovviamente, sono il re e ho spie dovunque. So anche che abitate nel palazzo attiguo al mio.” – rispose divertito – “Data la vicinanza delle nostre dimore, immagino ci incontreremo spesso in questi boschi prima che l’inverno spogli gli alberi delle loro fronde.”.
“Sarà un onore e un piacere.” – bisbigliai con un sorriso sincero.
Sentivo che il fato stava per compiersi. Mi sembrava di aver imboccato una scala luminosa i cui gradini di cristallo mi avrebbero portato in paradiso.
Fine parte 1a di 2
Autore: Virginia Coral
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