Parte 2a di 2
All’inizio di dicembre del 1744 la corte fu funestata dalla morte improvvisa di Madame de Châteauroux, l’amante ufficiale di sua maestà. Correva voce che il re fosse caduto in uno stato di profonda tristezza. Nonostante il freddo pungente e il ghiaccio che rendeva i sentieri impraticabili, io mi recavo spesso nel bosco, nel luogo esatto dove lo avevo incontrato la prima volta. Sostavo intirizzita per una mezzora sperando di vederlo apparire in fondo alla via e poi, delusa, me ne tornavo a palazzo. Temevo che il flebile legame fatto di sguardi e di parole gentili che si era creato si sarebbe sciolto come le chiazze di neve sui prati. Ero inquieta perché non avevo notizie dalla corte e temevo che Luigi si sarebbe invaghito di una delle aristocratiche bellezze che gli giravano intorno come vespe affamate. L’ansia lasciò presto il posto a un costante malumore. Mi rintanavo in casa per ore a suonare o dipingere. Mio marito era all’estero per lavoro. In altri momenti sarei stata felice della libertà di cui godevo in sua assenza, ma in quel periodo avrei preferito averlo accanto perché mi sentivo sola e vuota. Neanche i sorrisi di mia figlia riuscivano a dissipare la tristezza.
Poi una mattina, inaspettatamente, mi fu recapitato un biglietto: il re mi invitava al matrimonio del Delfino, Luigi Ferdinando, con Maria Teresa Raffaella di Spagna. Mi sentii mancare e dovetti sedermi. Il cuore batteva all’impazzata, ma avevo la sensazione che il sangue fosse defluito nei piedi. Per un tempo indefinibile osservai quel prezioso cartoncino écru come fosse una reliquia: era il lasciapassare per la felicità. I nomi degli sposi erano scritti in elegante corsivo italiano ed erano circondati da una ghirlanda di fiori color pastello, legati da volute di nastri e drappi dorati. Non avevo mai visto nulla di più raffinato.
Seppi solo parecchio tempo dopo che il barone Georges-René Binet de Marchais, valletto di camera e persona molto vicino al re, si era dato da fare per alleviare il dolore del sovrano dovuto alla perdita della favorita. Gli parlava spesso di me e delle doti per le quali ero famosa: acume, allegria contagiosa e buon gusto. Tesseva le mie lodi di attrice e cantante, oltre a dipingermi come una donna colta e affabile. Alla fine la curiosità vinse sulla mestizia. Georges-René era cugino di mio marito, ma evidentemente la sua fedeltà alla corona era più profonda dei legami familiari.
Il matrimonio del Delfino, celebrato il 23 febbraio 1745, fu seguito da innumerevoli banchetti e festeggiamenti. Un paio di giorni dopo le nozze fu organizzato un ballo in maschera. Decisi di travestirmi da Diana cacciatrice. L’abito in soffice seta bianca aderiva al mio corpo giovane, facendo intuire i morbidi fianchi e le gambe ben tornite. La profonda scollatura metteva in luce il candore del seno. Sulla spalla sinistra tenevo una faretra con frecce dorate. A un certo punto, un uomo afferrò il nastro di pelliccia maculata che circondava la mia vita sottile, attirandomi a sé. Mi voltai e vidi il lungo muso a strisce nere e bianche di un tasso.
“Sarei felice di diventare la vostra preda, Jeanne.” – sussurrò il misterioso ammiratore. Avrei riconosciuto quella dolcissima voce tra mille. Era lui, il re.

Ritratto di Luigi XV di Rogier van der Weyden
Trascorremmo insieme quella notte e le successive. Perché aspettare? Se l’amore, quello vero, sboccia è inutile opporre resistenza. Quando mio marito a fine aprile tornò dal suo ennesimo viaggio scoprì che mi ero trasferita a Versailles con la bambina e i domestici. Charles de Tournehem, che intravvedeva i vantaggi di avere una figlia a corte, consolò il mio sposo, cioè suo nipote, conferendogli la prestigiosa carica di fermier-général. Si trattava di un lavoro estremamente redditizio, che aveva a che fare con le tariffe doganali e le imposte. L’incidente fu chiuso senza conseguenze e recriminazioni.
Per ribadire che il mio non era il capriccio di un momento, chiesi la separazione. Il sovrano acquistò per me il castello di Arnac-Pompadour e mi procurò il titolo nobiliare di marchesa. il duca di Gontaut e il giovane abate François-Joachim de Pierre de Bernis, destinato a una fulgida carriera ecclesiastica, mi insegnarono etichetta e bon ton e mi svelarono i più piccanti retroscena della vita di corte. Seppi, per esempio, che la regina dopo la nascita del decimo figlio si era rifiutata di giacere di nuovo con il marito. Come darle torto: il parto era stato così difficoltoso che quasi le era costato la vita. Il re non si era perso d’animo: se la regina chiudeva la sua porta c’erano molte altre fanciulle felici di offrirgli ospitalità nel loro talamo. Io ero solo l’ultima della serie.
A settembre del 1745 fui presentata ufficialmente come favorita del re. Sua Maestà mi aveva conferito il titolo nobiliare di marchesa, proprio perché potessi assumere il ruolo ufficiale di maîtresse-en-titre. Io, con una famiglia di tessitori alle spalle, facevo ora parte a tutti gli effetti dell’aristocrazia.
Col tempo scoprii i lati nascosti del mio amante. Luigi era un uomo complicato e malinconico. A cinque anni aveva perso i genitori e il fratello durante un’epidemia di morbillo e da allora era ossessionato dalla paura della morte. In me non cercava solo una donna sensuale e accogliente, ma la sostituta della figura materna. Io lo amo ancora come la prima notte, con le sue fragilità, le insicurezze e le ombre. Mi soffermavo a guardarlo dormire dopo aver fatto l’amore: il viso era disteso e un abbozzo di sorriso compariva sulle labbra. In quei momenti pensavo somigliasse a uno di quei pasticcini di pasta sfoglia ripieno di deliziosa crema Chantilly: solido all’esterno e tenerissimo dentro. Un misto di uomo sensuale e di bambino inquieto. Allora avrei barattato ciò che avevo di più caro per restargli accanto fino alla fine dei miei giorni.
Inventavo giochi e fantasiose attività per cacciare la noia che spesso lo incupiva. Luigi adorava il teatro e i balletti, quindi pensai di organizzare alla reggia una compagnia teatrale della quale facevo parte io stessa insieme ad altri nobili. Le rappresentazioni erano tenute nelle sale del castello che, con pochi ritocchi, diventarono una scenografia ideale. A gennaio del 1747 fu rappresentato “Il tartufo” di Molière, che ebbe uno strepitoso successo. Quando si spegnevano le luci sull’ultima battuta del copione, io cercavo gli occhi del re per capire se fosse soddisfatto. Lui chinava il capo in segno di assenso, il viso illuminato da un sorriso sincero. Nel suo sguardo c’era una languida luce che accarezzava la mia figura e prometteva una notte di fuoco.
I passatempi che inventavo, anche i più bizzarri, erano improntati al garbo e allo stile. La volgarità era bandita dagli eventi che venivano organizzati, fossero banchetti o masquerade. L’eleganza è un’arte, che si acquisisce con impegno e umiltà. Se una donna vuole essere chic, deve innanzitutto studiare i particolari. Nulla può essere lasciato al caso. Vanno evitati sfarzi e sovrabbondanza. La parola chiave è armonia. Meglio un gioiello di meno piuttosto che uno di troppo, meglio un seno celato sotto un prezioso pizzo che due mammelle mostrate senza vergogna. La perfezione non va ostentata, ma esibita con disinvolta noncuranza, quasi per caso. Io ero più elegante di una regina e più spigliata di un monello da strada. Ho pensato spesso di scrivere un vademecum per ragazze in cerca di marito o per aspiranti concubine. Se solo il Signore mi concedesse più tempo…
Bando alle tristezze: rendono la pelle grigia e rugosa. Si sa che gli uomini vanno conquistati tra le lenzuola e a tavola. E io non avevo nulla da invidiare alle più navigate messaline e ai più prestigiosi chef di Francia. Sperimentavo nuovi abbinamenti, escogitavo inedite combinazioni di sapori, univo ingredienti dolci e salati. La tavola era sempre preparata con raffinata semplicità, utilizzando tinte chiare sulle quali risaltassero i caldi colori delle pietanze.
Lo champagne non mancava mai ai banchetti. Lo adoro perché è l’unico vino che lascia intatta la bellezza di una donna anche dopo qualche calice di troppo. Forse questo strano fenomeno è dovuto alle bollicine, che mettono allegria. E come si sa, la spensieratezza è il migliore antidoto alla vecchiaia. Per questo io e Luigi ne bevevamo un paio di coppe prima di coricarci.
“Farò confezionare un nuovo tipo di bicchiere di cristallo modellato sui tuoi seni.” – mormorò una sera mentre succhiava dalle mie labbra l’ultima goccia di quel nettare paradisiaco. Pensai fosse uno scherzo e invece, nel giro di qualche mese, Versailles fu invasa da questo nuovo tipo di bicchiere e dai pettegolezzi sulla sua origine.
La mia esistenza è sempre stata piena di impegni e progetti. Ho persino creato un nuovo stile di arredamento, più moderno e leggiadro. Ho preso spunto dalla natura che in maggio è un trionfo di eleganza e colore. Ho reso più morbide le forme rigide, arricchendole di riccioli dorati e tenui arabeschi floreali, come se i rami di una pianta si impadronissero dei mobili e degli oggetti, avviluppandoli in sinuose volute. La mia mano ha donato leggerezza e luminosità, in modo che gli ambienti sembrino immersi in un’eterna primavera profumata, anche quando fuori il giardino rabbrividisce nel gelo invernale.
Mi dilettavo di architettura e ideavo spazi intimi adatti al riposo e alla lettura, dove fosse possibile cenare, gustando i prodotti freschi che arrivavano dalle serre e dalla minuscola fattoria situata vicino alla reggia. Curavo io stessa la preparazione delle pietanze. I candelabri diffondevano una luce calda che illuminava i piatti di finissima porcellana prodotti a Sèvres. Erano angoli di paradiso, nei quali trascorrevo ore felici in compagnia del re.
È stato il mio periodo di gloria. Allora, quando traversavo la Galleria degli Specchi, tra statue dorate e lampadari lucenti come cristalli di ghiaccio, mi sentivo una regina. Ero di fatto una regina, sia a corte che nel cuore del sovrano. Mi mancava solo una corona sul capo.
Come si sa, le passioni hanno vita breve e quella fra Luigi e me non fece eccezione a questa ingrata regola. Forse se avessimo avuto un figlio le cose sarebbero andate diversamente. Il Signore non ha voluto farmi questa grazia. Dopo diversi dolorosi aborti, contrassi una fastidiosa infezione che mi impedì di restare gravida. Spesso durante i rapporti provavo fitte lancinanti e la cosa, alla lunga, creò dei problemi.
La passione fisica si trasformò col tempo in una solida amicizia, fatta di stima e affetto. Luigi è stato il mio grande amore e io continuo a provare per lui un’infinita tenerezza. Fino all’ultimo giorno, sarò al suo fianco, con la fedeltà di un cane e l’abnegazione di una madre.
Il timore che Luigi finisse per annoiarsi e rivolgesse la sua attenzione altrove non mi ha mai abbandonato. E anche oggi, che devo accontentarmi della sua benevolenza e della sua ammirazione, quando vedo gli sguardi curiosi che riserva a una nuova fanciulla, sento un dolore acuto, come se un punteruolo mi trapassasse le viscere. Era inevitabile che la passione si attenuasse, lo sapevo bene. Luigi è sempre alla ricerca di nuove emozioni, di stimoli freschi e distrazioni inconsuete, indispensabili per tacitare quel fondo di tristezza che alligna nella sua anima. Gli dicevo spesso che avrebbe dovuto vivere in Arabia o in Turchia, dove i sultani possedevano harem di centinaia di ragazze coperte solo di veli.
Gli aristocratici che gli ronzavano intorno come mosche moleste non vedevano l’ora che la mia stella tramontasse. Tentarono persino di insinuargli dubbi sul fatto che la mia visibilità potesse mettere in ombra il suo ruolo. La mia figura col tempo divenne sempre più ingombrante, ma tutto ciò che facevo era finalizzato ad aumentare il prestigio della corona. Luigi cercava i miei consigli, discuteva con me affari di stato che avrebbe dovuto invece discutere con i dignitari. Non ero io a chiederglielo, era lui che si fidava solo di me. Faticava a concentrarsi e preferiva andare a caccia o giocare d’azzardo invece che affrontare questioni di stato. Spesso mi incaricava di leggere le missive che arrivavano dai consiglieri o dai governatori delle colonie. Ne riassumevo il contenuto e glielo presentavo, anche se lui si dimostrava disinteressato, se non addirittura annoiato. Nessun membro della corte avrebbe fatto lo stesso servizio senza lamentarsi. Io invece ero felice di rendermi utile. Quando riceveva qualche importante ospite straniero toccava a me fare gli onori di casa e garantire che il cerimoniale fosse seguito alla lettera.
Sapendo che il re mi coinvolgeva nelle decisioni politiche, tutti finirono per pensare che i successi fossero opera sua e i fallimenti una mia responsabilità. I consiglieri di corte, che temevano di essere privati del loro ruolo, si accanirono contro di me, mettendo in giro la voce che il sovrano fosse così debole da non riuscire a contrastare i consigli dissennati di una donna.

Ritratto di Madame de Pompadour di François Boucher
“Sire, come fa una femmina a capire qualcosa dei complessi meccanismi della politica?” – gli domandavano, scuotendo la testa – “Finirà per nuocervi e spingervi a prendere decisioni incaute.”.
“Tranquilli.” – rispondeva lui – “Madame Pompadour ha un cervello fine e non ha nulla da invidiare a molti uomini di stato. Mi fate torto se pensate che il, il sovrano di Francia, sia accecato dal suo fascino.”.
“Non volevamo intendere che il vostro giudizio sia, come dire, inficiato da… da…”.
“Dalle sue grazie? Dal fatto che dorme nel mio letto? Dall’amore che ci lega? Attenzione a quello che dite: potreste perdere la testa… e non per una donna.”.
“Sua maestà, non fraintendeteci. Lungi da noi formulare pensieri offensivi. Ma, è una donna e quindi un essere inferiore, cioè meno dotato di noi uomini.”.
“Basta, non voglio sentire altro. Se tutti coloro che ricoprono una carica istituzionale fossero come lei, la Francia sarebbe il paese più influente d’Europa.”.
Mi attribuiscono persino la rovinosa sconfitta nella guerra dei sette anni, come se l’avessi voluta io. Un conflitto sfortunato, certo, nonostante i presupposti facessero presagire una vittoria rapida e clamorosa. Ci siamo alleati con Austria e Russia e sulla carta la coalizione era imbattibile. Potevamo contare su eserciti più forti e numerosi e su risorse economiche in teoria illimitate, ma non avevamo messo in conto le scarse capacità strategiche dei generali. O forse avevamo sottovalutato l’abilità tattica della Prussia. Abbiamo perso tutte le colonie americane e gran parte dell’India e ora che la guerra si è conclusa le casse dello stato sono drammaticamente vuote.
Ho sempre cercato di dare consigli di buon senso, ma che ne posso sapere io di logistica militare, di armi e truppe? Sono diventata la vittima sacrificale, cui attribuire la colpa di tutte le congiunture e i problemi dello stato.
Qualunque sia il giudizio dei miei nemici, tutt’oggi sono un ingranaggio indispensabile per il complesso meccanismo della monarchia e per la pace interiore del re. Rappresento un parafulmine formidabile, una barriera perfetta per arginare critiche e cattiverie. Cospirazioni incessanti cercano di farmi cadere dal fragile piedistallo sul quale mi sforzo di stare in equilibrio e calunnie velenose tentano di sminuire la mia posizione. Tutto ciò a breve finirà. Dovrei esserne felice, ma non lo sono.
Qualcuno ha tentato di recente di scalzarmi, adagiando tra le lenzuola dell’alcova reale delle giovani donne, come la contessa de Choiseul-Beaupré. La poverina, nonostante la sua pelle candida, è relegata al ruolo di petite maîtresse, cioè amante non ufficiale.
In questo clima avvelenato non ho mai avuto tempo per mantenere stretti rapporti con la mia famiglia, che nonostante avesse ottenuto inimmaginabili vantaggi dalla mia posizione, sembrava quasi vergognarsi del ruolo che ricoprivo a corte. Nel 1754, mia figlia, la mia tenera Alexandrine, è morta per una peritonite. Si trovava al convento dell’Assunzione, dove l’avevo mandata perché ricevesse un’educazione degna di una principessa. Aveva solo dieci anni ed era bellissima. Dio mi ha inflitto una sofferenza che non meritavo. In fondo, la mia coscienza è macchiata solo da peccati veniali. Non ho commesso delitti né sacrilegi e ho elargito amore a chi ne aveva bisogno. La perdita della mia bambina sarà una ferita inguaribile, che continuerà a sanguinare fino a quando avrò vita.
Non saranno i nemici o le rivali a decretare la mia fine, avrei avuto energie e perspicacia per sconfiggere entrambi. Sarà invece il mal sottile a farmi uscire di scena, un morbo crudele che lentamente ti succhia la vita. Dall’anno scorso soffro di una fastidiosa tosse, che col tempo è diventata più accanita e cavernosa. La notte è un incubo: ingaggio feroci battaglie, ma chi vince è sempre lei, tanto che il sonno viene disturbato di continuo e il mio corpo è costantemente imperlinato di sudore. La mattina, spossata e indebolita, giro per i miei appartamenti come un fantasma. Qualche mese fa è comparsa una febbriciattola insistente che aumenta verso sera. Mi sento sempre stanca, come se il mio corpo avesse esaurito l’energia vitale. All’inizio attribuivo la cosa alla frenetica vita di corte e in parte all’età. Mi cullavo in una falsa realtà per paura di affrontare il problema. Luigi invece era angosciato.
“Sei dimagrita, mia cara,” – diceva con la fronte corrugata – “e comincio a preoccuparmi. Voglio che tu ti faccia vedere dal mio medico.”.
“Mio caro amico,” – rispondevo – “le tue attenzioni mi lusingano, ma sai anche tu che i dottori sono sempre catastrofici. E poi cerco di mangiare meno per mantenermi in forma. Non vorrai che diventi grassa come un’ostessa, no?”.
Per molto tempo mi sono rifiutata di capire, ma da questa mattina sono costretta a guardare in faccia la realtà. Al risveglio, ho avuto un accesso di tosse più violento e doloroso del solito e, ahimè, ho notato uno sbuffo di sangue sul fazzoletto di mussola che tenevo sulla bocca. Il liquido rosso ha imbrattato la stoffa e il prezioso pizzo valencienne: è stato come vedere l’orlo di un abito di seta lucente lordato di fango. L’ho guardato come se la macchia non mi appartenesse. Che peccato, mi sono detta, me lo ha regalato sua Maestà al mio compleanno. Chiederò a una serva fidata di lavarlo con cura e farlo tornare come nuovo.
Poi ho stretto con rabbia il fazzoletto fra le mani, invasa dal terrore. Sono consapevole che sia arrivata la fine. Il morbo si è fatto strada nei miei polmoni, scavando caverne e togliendomi il fiato, e io non ho mezzi per fermarlo. Dovrò informare Luigi. Scoppierà in singhiozzi e io non saprò come consolarlo.
Leggi: Jeanne, una regina senza corona – prima parte
Autore: Virginia Coral
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