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La prima notte dei pipistrelli parte prima

da | 22 Gen, 24 | Narrativa |

Quella sera, fin dal primo baluginio di stelle fra gli squarci di smog sopra i terrazzi, i fasci di luce gialla dei lampioni che cingevano il parco, dinanzi al nostro palazzo, avevano sorpreso due cani, l’uno nero e dal muso di lupo, l’altro macilento e con larghe chiazze di pelle escoriata, mentre si rotolavano nel terriccio e si azzannavano latrando con una ferocia che squassava l’aria. Mi strinsi d’istinto ad Alfonso, che mi aveva portato sul balcone, dopo la cena, a respirare il silenzio della periferia, mai tanto desiderato alla fine di quella giornata effervescente di auguri, baci e calici sollevati. Avevo proprio bisogno di pace, di riposo, e Alfonso, sempre cosƬ attento, l’aveva capito. Gli ero riconoscente, dentro di me, per aver finora trattenuto il desiderio, che gli vedevo ardere in fondo alle pupille, di trascinarmi immediatamente nella camera da letto, dopo la cena e il congedo degli ospiti. Lo ringraziavo tacitamente per questa tregua che mi concedeva, segno inconfondibile di amore e di sensibilitĆ , e mi lasciavo stringere, lƬ in piedi, contro la ringhiera del balcone, malgrado l’aspro sentore di alcool emanante dal suo fiato quando si voltava a cercarmi la bocca.

PerchĆØ non la smettono?ā€Ā piagnucolavo snervata ā€œFanno tanto fracasso. Si uccideranno...”

Mio marito, interdetto, non sapeva cosa rispondere. Voleva aiutarmi, e fissava come un falco, stringendo il pugno sulla ringhiera, le sagome dei due animali aggrovigliate nella polvere del parco, quasi volesse balzare su di esse dal quarto piano per sopprimerle.

Il cane chiazzato, intanto, si era rovesciato al suolo e mostrava un ventre liscio e biancheggiante sotto la luce, dove giĆ  il taglio rosso dei denti del cane lupo era affondato. Non c’erano che loro in quel silenzio, e giĆ  temevo di scorgere fili di sangue rigare la pancia del cane piĆ¹ scheletrico e arrossare gli sparuti fili d’erba del terreno. Cercai di chiudere gli occhi prima, per non urlare.

Se non la smettono quelle canaglieā€ masticĆ² Alfonso tra i denti ā€œscendo giĆ¹ in un attimo e li strangolo con queste mani.”
Senza considerare l’assurditĆ  della minaccia, mi avvinghiai piĆ¹ forte al suo braccio, pregandolo di restare con me, senza fare pazzie, perchĆ© avevo paura.

Bastaā€ dichiarĆ² mio marito, seccato ā€œRientriamo.”

Fece scivolare rapidamente l’intera tapparella, spegnendo insieme il latrato dei cani e la luce delle stelle. La cucina era tutta in disordine, con la tavola da sparecchiare e le pentole unte e maleodoranti accatastate nel lavello.

Puliamo prima la cucina” mi affrettai a dire, prevenendo l’eventuale intenzione di Alfonso di passare direttamente in camera. Lui non rispose. AndĆ² nel bagno e vi si chiuse a chiave. Dopo un po’, mentre sistemavo i piatti nella lavastoviglie, sentii lo scroscio della doccia. Immaginai Alfonso con la bocca aperta sotto il getto d’acqua, con il dentifricio in una mano e il flacone antitartaro nell’altra.

Raccolsi lentamente le briciole sparse sulla tovaglia con l’aspiratore. Avevo tempo. FinchĆ© lo scroscio dell’acqua non si fosse smorzato in gocciolio, Alfonso mi avrebbe consentito di riordinare tutto senza affanno. Del resto, anch’io mi sentivo un po’ sudata e una doccia mi avrebbe rinfrescata. Un odore sgradevole, se piegavo il viso in direzione dell’ascella, mi lasciava a disagio. Lo stress della giornata, fra parenti in festa e sorrisi di circostanza, non era stato ancora smaltito. Ero piuttosto stanca e nervosa. Temevo di deludere, quella notte, le attese di mio marito, crollando di spossatezza fra le sue braccia. Avrei desiderato che notasse, all’uscita del bagno, lo sfavillio dei fornelli e il profumo di limone che giĆ  saliva dalla formica degli armadi e dalle piastrelle. Speravo che in questo mio zelo di moglie ordinata e premurosa, malgrado la stanchezza, avrebbe potuto leggere, quella sera, il mio amore per lui. Ma intanto, sia a causa dello sfinimento che di una strana pigrizia che rallentava i miei gesti, continuavo a muovermi tra armadi e fornelli come un automa, senza alcuna fretta, in una sorta di abbandono da sonnambula.

Lo scroscio della doccia tacque di colpo, cogliendomi sovrappensiero. Il cuore prese a battermi piĆ¹ forte. Udii dal bagno lo scatto della serratura, poi Alfonso apparve sulla soglia della cucina in accappatoio, i piedi pelosi nudi sul pavimento. GuardĆ² in silenzio me, poi la cucina. Aspettava che io dicessi qualcosa, forse. Mi imbarazzĆ² il suo sguardo, che mi parve in quel momento penetrante come quello di un ispettore. Tornai ad occuparmi degli ultimi bicchieri nel lavello, che strofinai con il panno fino a renderli persino troppo lucidi.

Poi, incuriosita dal prolungato silenzio di Alfonso, ancora immobile nel vano della porta, voltai gli occhi. Vidi che la sua espressione, finora perplessa e quasi corrucciata, non lontana dall’impazienza, si distendeva ora in un brusco sorriso che voleva essere, lo capivo, rassicurante. Arrossii non so se per compiacimento o disagio, ma questo rossore dovette stuzzicare al di lĆ  dei miei desideri lo slancio di mio marito, perchĆ© me lo sentii ad un tratto alle spalle. Gettai quasi uno strillo al solletico che dietro la nuca mi procurĆ² un suo piccolo bacio. Poi, inevitabilmente, avvertii il contatto delle sue forti e tozze dita, che mi risalivano i fianchi e si fermarono, richiudendosi con una specie di scatto, contro i miei seni.

Alfonsoā€ lo supplicai allora ā€œnon posso lucidare i bicchieri mentre tu mi tieni cosƬ. Rischio di scheggiarli, di rovinare il servizioĀ “

Dal soffio caldo che mi inumidƬ la nuca misurai l’impazienza di Alfonso, che rimase qualche secondo titubante se toccarmi ancora o non indispettirmi, e infine mormorĆ², con una voce bassa e alquanto roca:

Te ne compro altri dieci di servizi simili, Rosa. Di cristallo, te li prendo. Puoi spaccare tutti i bicchieri che vuoi“.

Trascinato dalle sue parole, allungĆ² la mano in direzione del lavello, sotto il mio gomito, e impugnĆ² uno dei bicchieri ancora orlato di schiuma, con una forza tale che temetti gli si frantumasse tra le dita.

Per favore, Alfonso“, lo pregai, pensando che volesse scaraventare il bicchiere contro la parete, come un ubriaco. Ma lui, lusingato dalla mia paura, arricciĆ² le labbra in un tiepido sorriso e ripose tranquillamente il bicchiere lƬ dove lo aveva preso.

Mentre mi sfiorava di tanto in tanto, passando sulle piastrelle la scopa che aveva imbracciato per accelerare i tempi, fiutavo ondate di profumo piuttosto forte, tra il dopobarba e lo stick per il sudore dei piedi. A ciĆ² si aggiungeva la polvere del borotalco, che mi sembrava persino di vedere, soffice e aleggiante, sotto il neon della cucina.

Quando le pulizie della cucina furono terminate, e anche gli ultimi stuzzicadenti sparsi sulla tovaglia furono riposti ad uno ad uno nell’armadio, Alfonso era seduto lƬ, a capotavola. Mi specchiavo nella luce ironica dei suoi occhi. Era fermo, con le braccia incrociate, e pareva dirmi: ‘Allora? Finito? C’ĆØ dell’altro? Possiamo procedere?ā€™ Io scivolai su quello sguardo gelido e inquisitorio, e mi chiesi, girandomi attorno come una smemorata, se non ci fosse qualche altra piccola mansione da svolgere, un angolo di mobile da spolverare, un fornello ancora da lucidare. Ma Alfonso mi incalzava con il suo sguardo diretto e inesorabile. Allora domandai di poter assentarmi anch’io per una doccia, dal momento che mi sentivo sporca e appiccicosa. Non aspettai la sua risposta, che tardava a venire, e mi mossi verso il corridoio che portava al bagno Il mio braccio fu afferrato all’improvviso e stretto come in una morsa. Mi girai spaventata. Alfonso, tremando impercettibilmente con il labbro, mi fissĆ² a lungo in silenzio fino a farmi abbassare gli occhi e mi soffiĆ² contro un orecchio, a voce bassissima: “Va bene. Vengo a insaponarti.”

Non c’era nulla di strano, in realtĆ , a lasciarlo entrare nel bagno per aiutarmi a insaponare la schiena. Ma in quel momento la sua proposta mi terrorizzĆ². Protestai vivamente, forse un po’ troppo bruscamente, sostenendo che non ero abituata, che doveva probabilmente darmi del tempo per accettare senza imbarazzo questa intimitĆ . Alfonso tacque, mortificato. Non ebbi il coraggio di guardarlo. La mano che mi stringeva il braccio, fino a farmi male, tremava.Ā  Mi lasciĆ² andare da sola nel bagno. Ma proprio mentre richiudevo la porta, domandandomi se non ci fosse rimasto proprio male, se non l’avessi mio malgrado umiliato, udii chiaramente provenire dalla cucina il suono rauco di una bestemmia. Non avevo mai sentito Alfonso bestemmiare. E nel silenzio serale ancora lacerato di tanto in tanto dal latrato dei cani, quella bestemmia parve accordarsi e fondersi con la voce degli animali, come se un altro cane si fosse aggiunto, ora, ai due del parco, una belva di razza diversa di cui finora si sarebbe potuto scorgere solo l’ombra, la sagoma incombente dietro la macchia di un cespuglio.

Non ricordo quanto rimasi nel bagno, affondata fino al mento nella schiuma tonificante a fior d’acqua. Mezz’ora, un’ora, forse piĆ¹. L’orologio della cucina, dove ripassai in accappatoio per chiudere la chiave del gas, segnava comunque la mezzanotte. Dalla camera da letto non proveniva nessun rumore, nĆØ di radio accesa nĆØ di respiro.Ā  Anche i cani, fuori, avevano smesso di schiamazzare. Si udiva chiaramente il doppio tic tac dell’orologio sospeso alla parete della cucina e della sveglia in camera. Pensai, forse desiderai, che mio marito si fosse addormentato. L’indomani sarebbe stato un giorno piĆ¹ adatto alle effusioni ed alle tenerezze. Saremmo stati entrambi meno stanchi. Ci saremmo amati sul serio.

Invece, nella camera da letto in cui entrai a piedi nudi, per non far rumore, dopo aver agganciato la catena di sicurezza alla porta d’ingresso, la luce verdastra diffusa dall’abajour alla sinistra del letto, dalla mia parte, colorava i mobili, le tende del davanzale, le pareti appena intonacate, di un velo uniforme, sospeso e gelido. Inciampai quasi sul tappeto steso ai piedi del letto. Dall’angolo piĆ¹ buio della camera, lƬ dove il cono di luce dell’abajour cedeva il posto a una penombra appena decifrabile per chi proveniva dal neon della cucina, la voce afona, leggermente nasale, di mio marito, scandƬ piano le parole: “Stai attenta…”

Di Alfonso potevo scorgere solo una parte di profilo, stravolto dal confine d’ombra del cono, cosƬ che solo a fatica riuscivo a riconoscere in una linea arcuata un pezzo di mascella o in un puntolino brillante la pupilla. “Scusami“, ribattei d’istinto, come avessi disturbato il suo silenzio.

Aprii un’anta del guardaroba, alla sinistra del letto, accovacciandomi nel mio accappatoio ancora umido e cercando a tastoni il pigiama, senza accendere la luce. Sentii la rete del letto cigolare dietro le mie spalle e la luce improvvisa dell’abajour, piegato dal braccio di Alfonso nella mia direzione, investƬ il fondo del guardaroba. Alfonso ridacchiĆ² debolmente, studiando l’imbarazzo maldestro dei miei gesti. Poi tacque di colpo.

Ma cosa c’ĆØ, Rosa?ā€ mi disse ā€œChe cos’hai oggi? Dimmi un po’, bambina: sei per caso e-mo-zio-na-ta?

L’ultima parola fu quasi scandita e mi parve penetrare lentamente nel fondo della mia schiena, come una lama seghettata. Riuscii in quel momento ad afferrare il pigiama con la punta delle dita. Pregai Alfonso di rimettere al suo posto l’abajour, la cui luce mi abbagliava e sembrava favorire la sua curiositĆ  nel frugarmi in ogni angolo del corpo.

Riudii lo sghignazzare di Alfonso, poi trassi un passo indietro, quando vidi la sua ombra, ingigantita sul soffitto, balzare a sedere sulla sponda del letto, mentre mi infilavo i calzoni del pigiama.

Ma che faiā€ urlĆ² quasi ā€œsi puĆ² sapere cosa stai facendo?

Temetti di aver commesso qualcosa di grave, a mia insaputa, e levai gli occhi su mio marito per capire di cosa mi incolpasse.

Ma sei impazzita? IncalzĆ² ā€œNon hai una vestaglia decente da infilarti? O devo andare a letto con un clown, stasera?

Ho sempre portato il pigiamaā€ mi scusai, sconcertata ā€œFin da quando ero bambina

Mio marito non sapeva piĆ¹ se ridere o arrabbiarsi. Mi indusse, mio malgrado, e nonostante i caloriferi spenti dell’ora tarda, a rigettare il pigiama nel guardaroba e a rimanere in mutande e reggiseno. Non gli lasciai comunque il tempo di studiarmi con quello sguardo da anatomista che fendeva la penombra. Mi infilai immediatamente sotto il piumone, sollevando il bordo contro la luce abbagliante dell’abajour.

Chiusi gli occhi. Ma non ve n’era bisogno. Il piumone mi avvolgeva fino alla fronte abbandonandomi in un buio naturale, caldo di lana e di ricordi. Mi pareva di rituffarmi, come sempre quando l’ultima saracinesca della notte da bambina cadeva giĆ¹, nell’attimo profondo, libero e insondabile come un abisso che precede l’arrivo del sonno. Mi piacque illudermi, per un momento, di essere sola, nella grotta delle coperte, a rinvangare, come in un film fatto scorrere a ritroso, le tumultuose immagini che avevano accompagnato quella giornata decisiva per la mia vita. E il silenzio della notte, il calore del mio soffio contro il piumone, il completo isolamento della mia pelle, delle membra, a contatto con le sole lenzuola dal morbido profumo che richiamava il vecchio bucato di mia madre, tutto contribuiva a prolungare l’inganno del riposo, del distacco dalle cose e della solitudine a cui mi abbandonavo con l’antica fiducia di bambina.

La finestra appena socchiusa lasciava filtrare nella camera un soffio fresco che mi sfiorava i capelli, muovendoli impercettibilmente sul piumone rimboccato. Questo alito leggermente umido mi carezzava la testa provocandomi una specie di brivido, di formicolio crescente. Avrei desiderato chiudere le imposte. Era come se temessi da un momento all’altro di riudire il latrato dei cani che si sbranavano sul prato, o come se le stelle stesse potessero sciamare come api o zanzare lucenti nella mia camera ed espugnare il mio cantuccio di buio. L’abajour, alla mia sinistra, sferzava il soffitto con un barbaglio crudele, e ricadeva sullo spessore protettivo del piumone quasi volesse trafiggerlo e violare l’intimitĆ  del mio dormiveglia.

ā€œIl racconto prosegue nella seconda parte qui”

La prima notte dei pipistrelli parte seconda

Autore: Roberto Caracci

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