A un tratto, si levò nella notte il lamento ostinato di una sirena, scattata dall’allarme di una vettura parcheggiata poco lontano.
“Notte maledetta” soffiò Alfonso, la cui voce molto vicina mi fece capire che era già voltato su un fianco verso di me “Quando questi congegni del demonio cominciano a fischiare, non la smettono più.”
Ricacciata di colpo fuori dal mio breve momento di solitudine, volevo profittare della sirena per suggerire a mio marito di chiudere la finestra. Ma dopo un minuto, l’allarme tacque. Del resto, sapevo che Alfonso amava dormire con le finestre spalancate, anche in pieno ottobre, e non ebbi il coraggio di avvertirlo che avevo freddo. Ora infatti non era più solo un alito di fresco, quello che proveniva dalla notte. Un lembo di nuvola bianca, allungata come una scia pallida stesa a coprire le stelle, attraversava il riquadro di buio della finestra, e accentuava quella sensazione di gelo che da un po’ mi penetrava tra i capelli, lottando col calore delle coperte.
Mi parve di udire dei gridolini, come delle urla affilatissime, appena percettibili, molto lontano. Pensai di essermi ingannata. Dal cielo della metropoli salivano rumori confusi, impastati nel silenzio, che davano alla notte un brusio uniforme, fatto di gomme fruscianti sull’asfalto, di ronzii di elettrodomestici, di rombi elettrici lontani. Ogni tanto qualche voce animale, di uccelli, di cani mugolanti, di grilli, poteva mimetizzarsi in questo sordo brontolio notturno o accennare appena a staccarsene per poi essere risucchiata.
Le dita di Alfonso, nel buio del piumone, mi massaggiavano una caviglia. Andavano a tentoni, evidentemente, indecise se risalire gradualmente la mia pelle quasi per gioco o stringermi immediatamente, sotto l’urgenza del desiderio. Sentii la mia caviglia afferrata dalla sua mano come una clava e rimasi immobile, ignara di quanto sarebbe potuto accadermi tra poco, di quali passi successivi mio marito avrebbe tentato. Cercai di respirare piano, senza rumore, di trattenere anche il fiato, come se questo potesse indurlo a credere di abbracciare una statua, un corpo talmente immerso nel sonno da apparire inanimato. Dalla sua gola, intanto, veniva un gorgoglio, una sorta di rantolo, un ansimare aspro come una tosse secca che non voleva liberarsi. Mi affacciai sull’orlo del piumone, per respirare meglio, e gettai il mio sguardo oltre la finestra aperta, sul brulichio delle stelle striato dal biancore gelido della nuvola, ancora ferma in mezzo al cielo. Sotto il mio mento il piumone si agitava, si contraeva in rapide scosse, scivolava tra pieghe e avvallamenti. Mi costrinsi a pensare a un gioco, un malizioso gioco fra ragazzi. Alfonso stava giocando con il mio corpo, il mio ombelico, l’elastico delle mie mutandine. Si ostinava a farmi il solletico, anche se questo non mi faceva ridere. Nemmeno lui, del resto, rideva, nè mi parlava, dal buio groviglio di coperte nel quale si avvinghiava a me; piuttosto, lontanissimo da me, sbuffava, grugniva, soffiava forte col naso, lasciandomi sulla pelle del ventre una sensazione viscida di umidiccio, di umore caldo. Mi ergevo, con la testa rigidamente poggiata allo schienale, al di sopra di lui e di me stessa, e mi pareva di librarmi a occhi chiusi sopra un grumo di sensazioni vischiose e madide, dove la bocca di mio marito attaccava la mia pelle tesa come una implacabile ventosa.
Volevo dirgli qualcosa, che lo amavo lo stesso anche se mi sentivo un po’ stanca, che desistesse dal tentativo di coinvolgermi, che risalisse anche lui fuori delle coperte, alla luce dell’abajour, per baciarmi tranquillamente sulle labbra e augurarmi la buona notte. L’indomani sarebbe stato un giorno più propizio ad amarci come un uomo e una donna per la prima volta. Capivo, tuttavia, che era inutile tentare di schiodare quelle dita ad artiglio e quella lingua spugnosa dal mio ventre. Non comprendevo più che cosa Alfonso stesse armeggiando tra le mie gambe tenute ferme e aperte come un compasso dalla morsa delle sue mani. Non distinguevo se mi mordesse, mi spargesse di saliva, mi affondasse le labbra dure nella carne, mi grattasse con la superficie ruvida delle guance, mi borbottasse contro il ventre parole indecifrabili che producevano un gorgoglio crescente di caffettiera in ebollizione. Mi rendevo solo conto che Alfonso mi aveva dimenticata, relegandomi assolutamente lontano da lui, nel cielo delle stelle fisse della notte metropolitana, più sola e intirizzita della nuvola che striava il riquadro nero della finestra.
E io temevo, mentre il suo bacino si catapultava contro il mio pigiando un cordone di carne molle e misteriosamente sfatto come una biscia in agonia, che qualcosa di tremendo potesse da un istante all’altro accadere, più pauroso della sua rabbia, di un suo raptus di sconforto e di disperata follia. Avrebbe potuto cominciare a picchiarmi. Perchè troppo alto oramai saliva il latrato ossessivo della sua voce, alternato al mugolio che le coperte soffocavano. Era un gracidare esasperato, il crepitare e singultare di un mantice sventrato, il raspare di un orso sepolto vivo in una tomba di terra.
“Alfonso” lo pregai “amore, vieni su, ti prego, abbracciami…”
La risposta fu una fitta acutissima che mi strappò un grido di dolore. Alfonso aveva affondato i denti nella carne dell’inguine, e ora tra baci e guizzi di lingua ringhiava bestemmie impastate di saliva contro le labbra straziate della mia vulva.
Fu in quell’istante che, fissando il riquadro nero della finestra aperta dove lunghi lembi di nuvole avevano cancellato le ultime stelle, vidi d’un tratto staccarsi e piombare sotto il soffitto della camera, più rapidi di ali di falene travolte da un tornado, prima uno e poi ancora un altro pezzo di notte. Mi parve di udire delle strida. I due stracci neri, barcollanti nell’aria come aeroplani di carta o mantelli volanti di strega, si catapultarono contro il lampadario spento pendente al centro della camera, sbattendo violentemente e mutando subito direzione, verso gli angoli alti del soffitto. Il loro fruscio, un sibilo appena udibile di vento, fu arrestato nel suo volo, di nuovo bruscamente, dall’urto del muro. E quando oramai io già urlavo pazza di terrore e di ripugnanza, scaraventando via sopra il capo di Alfonso il piumone del letto, i due pipistrelli ruotavano su di noi, cercando tra urti, ricadute e guizzi fulminei, una via d’uscita. A un tratto, uno dei due animali, proprio mentre Alfonso, intontito e madido di sudore, si guardava intorno per capire cosa fosse accaduto, cadde a piombo sul mio cuscino. Fissai stravolta dal terrore quel nero topo alato, dalle membrane flosce e viscide, che macchiava il biancore del mio guanciale. Alfonso si gettò su di me pressandomi il palmo della mano contro la bocca, per impedire che svegliassi l’intero palazzo con l’urlo che mi si gonfiava nelle viscere. Il pipistrello raccolse goffamente le sue enormi ali e zampettò un poco sulla superficie del lenzuolo, prima di balzare stridendo verso l’alto. Ricadde sullo spigolo di un armadio e vi restò sospeso, in miracoloso equilibrio, come un macabro panno molle.
“Adesso” mormorò Alfonso con uno strano sorriso sulle labbra, “ci penso io...” Mi liberò la bocca dal palmo della mano, facendosi promettere che non avrei urlato. Rovesciò sul pavimento sotto i suoi piedi lenzuola e piumone. Senza fretta, con una calma che in quel momento mi sorprese, si riinfilò gli slip, calzò le pantofole appaiate sotto il comodino, e solo dopo aver compiuto tutto questo si guardò attorno, senza paura, con l’occhio esperto di chi progetta un piano di azione, una manovra militare, cercando di svolgere alla perfezione e senza sbavature il suo compito. Da quel momento in poi mio marito non si curò più di me. Era come se non esistessi. Rimasi seduta sul letto, le spalle addossate allo schienale, stordita e discinta, quasi incantata dalla tranquilla determinazione di Alfonso, che mi pareva curiosamente serio, impassibile, privo di espressione, senza un filo di ripugnanza al cospetto di quelle bestie immonde che ciondolavano l’una dall’armadio, l’altra dallo stelo del lampadario, a pochi centimetri dal mio viso. Quando mio marito schiacciò l’interruttore della camera, il pipistrello sospeso al lampadario mi parve stridere, torcersi, come uno straccio umido esposto alla fiamma di una torcia improvvisa.
Alfonso uscì dalla camera. Tornò dopo qualche secondo con una scopa a un braccio e un lungo coltello da cucina, solitamente usato per sventrare i polli, dall’altra.
“Perchè il coltello, amore?” sussurrai “A cosa ti serve il coltello...”
Parve non ascoltarmi neppure. Poi, senza guardarmi, mentre avvicinava una sedia al lampadario, disse: “Per favore, stai zitta. Tu non le conosci queste bestie. Se non le massacri, quelle non crepano.”
Non osai replicare. Sapevo che mio marito amava rifinire con ostinata cura tutte le imprese nelle quali si gettava. Lo vidi salire sulla sedia e avvicinare il viso, senza raccapriccio, alla sagoma nera del pipistrello. Per un istante la luce dell’abajour creò un singolare gioco d’ombre, sicchè il collo di Alfonso parve prolungarsi naturalmente nel corpo flaccido del pipistrello come in una nuova testa. Girai lo sguardo altrove, per non vedere. Fui scossa da un rumore fortissimo e da un tintinnio di cristalli franati: il lampadario era crollato sul pavimento, andando in mille frantumi sotto il violento colpo di scopa vibrato da Alfonso.
“Bastardo di un uccellaccio” proruppe mio marito, osservando con due occhi iniettati di sangue il disastro del bel lampadario infranto ai suoi piedi. Si girò verso di me, non capii perchè, come volesse fulminarmi. Forse per prevenire una mia eventuale lamentela. Ma io non dissi niente, e frenai solo a stento un grido quando l’ala del pipistrello schizzato via dal lampadario mi sfiorò il ginocchio nudo, sopra il materasso.
Alfonso aspettò che l’uccello si posasse. Ma il pipistrello, dove un breve volo sghembo, scivolò dietro il guardaroba e rimase lì invisibile, protetto tra armadio e parete. Mio marito percosse violentemente il pavimento con il manico della scopa e si piantò a gambe larghe, al centro della camera, riflettendo per qualche secondo.
“Tu credi di essere furbo” disse poi con un ghigno in direzione del guardaroba. “Ma io, pezzo di merda, sono nato prima di te…”
Afferrò con entrambe le braccia il fianco del guardaroba e, con uno sforzo che gli arrossò tutto il collo, senza chiedere il mio aiuto, trascinò con un fragore interminabile il mobile fino a una distanza di un paio di metri dalla parete. Sentii dei colpi di tosse causati dalla polvere sollevata. Poi non vidi nè lui nè l’uccello. La pelle su cui passai le mani per l’umidità che la notte ormai rovesciava dalla finestra, era gelida e accapponata, mentre la camera tremava agli schianti secchi della scopa e all’assordante tramestio provenienti dal retro invisibile del guardaroba. Chiusi gli occhi, ma macchie scure attraversavano ugualmente il buio delle palpebre e parevano squittire fino a rintronarmi il cranio. L’improvviso silenzio che seguì mi spinse a guardare. Due ali nere grondanti di sangue colloso penzolavano dalla punta del coltello tenuto davanti al mio viso da Alfonso. Un conato di vomito mi assalì lo stomaco, impedendomi di avvertire mio marito che una grossa goccia di sangue stava cadendo sul piumone, proprio accanto ai miei piedi.
Alfonso mi fissò con pena, allungando verso la mia guancia due dita ancora umide e polverose.
“Diavolo, come sei sensibile” esclamò ridendo “Cosa avresti preferito, che ti dormisse accanto, con questa bella testa di vampiro, per tutta la notte?“
Mi consigliò di andare a prendergli la pattumiera in cucina, piuttosto che piagnucolare lì come una collegiale. Gli deposi la pattumiera in un angolo della camera, e non volli guardare oltre. Mi affacciai al davanzale, respirando a larghe sorsate l’aria fredda della notte. Tutte le luci delle case erano spente. Il nostro fracasso, per fortuna, non aveva svegliato nessuno. Desiderai allontanarmi con la mente dalla camera da letto e da mio marito, macchiato di sangue, che cercava di stanare il secondo pipistrello. Il cielo era una sola plaga bianca uniforme, dove non si distinguevano i confini delle nuvole e quelli delle cortine di smog. Un rombo di camion si allontanava su qualche strada. Lì dove i cani, qualche ora prima, si erano azzuffati nel parco, si intravedevano solo ombre immobili di cespugli. Anche i lampioni si erano spenti, chi sa da quanto.
“Be’, questo ho proprio voglia di infilzarlo vivo“, borbottava mio marito dietro le spalle. Si rovesciò una sedia. Udii un colpo sordo di bastone contro il comodino, l’imprecazione e la bestemmia di Alfonso. Fino a che mi accorsi che il silenzio perdurava dietro di me da un pezzo. Mi ripugnava tornare con gli occhi alla stanza, quel cielo umido e profondo della notte sarebbe stato un tetto preferibile al mio sonno. Ma la curiosità fu più forte e mi voltai.
Alfonso aveva poggiato una mano sul battente della porta, e ora serrava le dita con forza, stringendo i denti, quasi la presa dovesse sfuggirgli. Non vedevo più il secondo pipistrello, intuivo però che fosse sotto la sua osservazione e che quelli fossero gli istanti decisivi che avrebbero preceduto il secondo delitto.
Feci in tempo a schiacciarmi le orecchie con entrambe le mani, e il fragore della porta scaraventata contro la parete da poco intonacata giunse ovattato, assorbito, ai miei timpani. Ma ciò che aveva smorzato l’urto del battente contro la parete, lo capii un istante dopo, non erano state solo le mie mani.
La porta fu richiusa lentamente e sul muro bianco, investito dalla luce dell’abajour, apparve un grumo di carne nera, sanguinolenta, appiccicata all’intonaco, stampata con un ala aperta, diafana e filamentosa, ed una spezzata, accartocciata, ripiegata come un foglio di carta copiativa.
Alfonso afferrò il coltello per infilzare l’uccello, ma prima che la lama si avvicinasse già il cadavere del pipistrello era scivolata lentamente lungo la parete, lasciando una scia rosso scura sull’intonaco. Si chinò dunque a raccogliere la carcassa appiattita direttamente dal pavimento, sollevandola sulla pattumiera dove giaceva il compagno precedentemente ucciso.
“Scostati“, mi disse, venendo verso la finestra.
Indugiò qualche secondo ad osservare da così vicino quelle piccole sagome da strega che avevano disturbato la nostra notte.
“Questo qui mi fissa con un occhio solo” riflettè “Pare chiedermi quasi scusa, il sorcino con le ali. Ma è troppo tardi…“
Allungò il braccio oltre il davanzale e scaraventò lontano i due cadaveri, nel vuoto, seguendone con compiacimento l’ampio volo a parabola contro la spuma bianca delle nuvole.
“Siete liberi, ora- dichiarò ridendo, la notte è tutta per voi, bastardi...“
Io tornai a infilarmi sotto il piumone, ma ero certa che non sarei riuscita a dormire quella notte, e in quella stanza. Quando Alfonso si sdraiò al mio fianco, gli chiesi il permesso di dormire nel soggiorno, sul sofà.
“E perchè mai?“, mi domandò lui, beffardo, sollevandosi sul cuscino.
“Ho paura di dormire in questa camera, ora“. Gli indicai le scie di sangue sulla parete, la goccia sul piumone, pezzi di zampine e di ali sul pavimento. E poi mi pareva di avvertire un odore di carogna, di carne marcia.
“E chi vuole dormire?” ribattè freddamente mio marito, fissandomi le labbra con due occhi lucidi e carichi di allusioni “Io non ho nessuna intenzione di mettermi a russare.” Aveva anche lui, sulla pelle, un odore strano. Mi spogliò rapidamente e gettò via con un calcio lenzuola e piumone ammucchiati tra letto e tappeto.
“Quei bastardi volevano fare i furbi, con me” ripeteva baciandomi “Li ho fracassati come gusci di lumache. Erano innocenti, lo so, ma hanno avuto la colpa di spaventarti, tesoro. Perchè ti amo, Rosa. Ti desidero molto.”
Pensai alla danza cannibalica che si svolge attorno alla vergine di turno, nelle feste tribali, come era raffigurata nei libri di scuola. Rimasi supina sul materasso come su di una lastra di marmo. Cercai di non guardare, di non annusare, di non respirare. Voleva sentirsi dire che lo amavo, che lo desideravo anch’io con forza, in quello stesso momento. Glielo rassicurai.
Ora il gelo della notte soffiava nella camera più pungente. Ma il mio tormento adesso era il calore, la stretta di questo abbraccio che mi serrava e mi sequestrava alla notte. Allora sprofondavo di più nel buio del mio dormiveglia e immaginavo di decollare verso lo sciame baluginante degli astri, fasciato dalle ali enormi di un pipistrello che aveva il volto della persona a cui sussurravo, ripetendoglielo fino a convincermene prima del sonno, “Ti amo“.
Autore: Roberto Caracci
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