Queste vigne sono la mia vita. Sono sempre state dalla mia parte, anche nei momenti in cui sembrava che il mondo mi crollasse addosso. Hanno cullato i miei sogni, quando i fallimenti affondavano le unghie nelle certezze. Le ho bagnate con le mie lacrime, ho infilato le mani nella loro terra, ho assaporato i primi chicchi d’uva. Erano aspri, ma nel loro sapore sentivo la promessa di un grande destino.
La mia non fu un’esistenza facile. L’infanzia dorata lasciava presagire una vita tranquilla, dove la ricchezza elargiva doni preziosi, profusi da una cornucopia senza fondo. Mio padre, il più ricco commerciante di Reims, faceva vivere me e mia sorella nel lusso. Ma diceva spesso che la mala sorte può presentarsi inaspettata, come il vento delle regioni di nord-est che soffia improvviso e impetuoso, portando nuvole cariche di pioggia.
“Dovete essere consapevoli che la fortuna talvolta gira le spalle e prende altre vie.” – ci ammoniva – “Chi abita queste terre deve essere pronto ad affrontare la vita in tutte le sue declinazioni, perché il destino può cambiare in un istante, senza avvisaglie. Abituatevi a considerare la seta lucente dei vostri abiti come un dipiù di cui potete fare a meno. I gioielli riempiono gli occhi, ma non la pancia. Il superfluo è grasso che cola e nei momenti critici non serve a nulla.”.
“Padre, perché allora spendi una fortuna per questo bel palazzo e organizzi feste degne di un re, invitando l’aristocrazia di Reims?”.
“Vi faccio vivere come delle principesse, perché solo così potrete trovare un marito nobile.” – sentenziava mio padre – “Lesinare sul futuro delle proprie figlie è un gravissimo errore. Ai maschi si dà un’istruzione perché continuino gli affari di famiglia, ma alle ragazze bisogna dare una cospicua dote e un’educazione sufficiente a sapersi giostrare in società, altrimenti ti portano a casa uno spiantato che si butta sui resti della tavola imbandita come uno scarafaggio. Farò ogni sforzo perché sposiate un ricco proprietario terriero, a cui sorridere e ubbidire.”.
Povero papà, faceva del suo meglio per noi, ma non si accorgeva che il mondo stava cambiando e che una brezza ardente stava portando idee rivoluzionarie, che contagiavano anche noi donne. Erano solo dei piccoli semi, ma col tempo avrebbero generato piante forti e rigogliose.
Il ruolo di angelo del focolare mi stava stretto. Mia madre si sforzava di inculcarmi polverose idee su come vivere felice con un marito, su come accontentare i suoi appetiti più o meno leciti e su come rispondere con un’alzata di spalle alle peggiori offese. I suoi sforzi non centravano il bersaglio. Io mi ribellavo al ruolo in cui noi ragazze eravamo relegate. Sarei impazzita se non avessi potuto utilizzare le mie doti. E non parlo di quelle artistiche, come saper cantare o ricamare. No, io parlo di ingegno e creatività, di tenacia e razionalità. Non cercavo sicurezza, non ambivo a un’accomodante pace domestica. No, io volevo lottare, sgomitando in una folla di uomini. Ero coraggiosa e determinata e pretendevo che tutti ammirassero queste mie abilità.
Nel 1798, a ventun anni, sposai François Clicquot, un ragazzo affascinante, di cui ero follemente innamorata. I nostri corpi si attraevano come un pianeta e il suo satellite, ma ci univa anche l’amore per la natura e per le meraviglie che offriva. Lui era il rampollo di una facoltosa famiglia di produttori di vino e di lana, destinato a prendere in mano le redini dell’impresa che aveva sede nelle campagne di nord-est. Fino ad allora avevo sempre vissuto in città e l’idea di trasferirmi in campagna mi spaventava. Temevo che mi sarebbe mancato il frastuono delle strade di Reims, il vociare della gente nei negozi e le feste danzanti nei palazzi nobiliari. Temevo la noia e la scomodità. Avrei vissuto il resto della mia esistenza a Bouzy, un piccolo villaggio nel cuore dello Champagne. Arrivammo in vista della nostra casa in un pomeriggio di fine estate. Il sole stava scendendo oltre l’orizzonte e il cielo era striato di nuvole rossastre. I fianchi delle colline erano tappezzati di vigne cariche di grappoli. In alcuni filari dominava un pallido giallo, in altri un rosso violaceo. Sembrava di essere di fronte a un immenso dipinto. Non ricordavo di aver visto nulla di più emozionante. Quel paesaggio mi entrò nel cuore e giurai a me stessa che non lo avrei più lasciato.
François era consapevole che avrebbe ereditato dal padre il peso dell’azienda vinicola, ma sapeva già che non avrebbe seguito le orme tracciate. No, lui pensava in grande ed era determinato a conquistare i mercati di tutto il mondo. Le sue idee erano moderne e geniali ed erano in sintonia con la mia visione del futuro.
Al volgere del secolo suo padre si ritirò, consegnandogli la tenuta e le vigne. Nel giro di pochi anni il nostro vino si diffuse in tutta Europa, dall’Inghilterra fino all’Ungheria. François era sempre in viaggio al seguito degli eserciti di Napoleone. Trasportava carri pieni spumante per farlo conoscere nelle corti europee. Allora riuscivamo a produrre un buon vino torbido e dolciastro. Niente a che vedere però con il luminoso nettare che esce oggi dalle nostre cantine.
In quel periodo si producevano centomila bottiglie all’anno. Ma mio marito non era mai soddisfatto. Voleva che tutto il mondo conoscesse il nostro prodotto e voleva migliorarlo, rendendolo più trasparente e più secco. Io lo aiutavo nei suoi esperimenti, volevo imparare tutto sull’uva e sul vino. Gli davo consigli e cercavo di smussare il suo carattere spigoloso. La sera facevamo lunghe passeggiate tra i filari, assaggiando gli acini e sognando futuri successi. Ci amavamo stesi sulla terra che profumava di muschio, sotto la pioggia o illuminati dai raggi della luna. François era un amante, un amico, un fratello, l’uomo con cui avevo sempre sognato di condividere le gioie e gli affanni di un matrimonio.
Fu lui a contagiarmi con la passione per il vino. Non parlava d’altro. Era un profondo conoscitore delle tecniche per produrlo e aveva un palato sensibile e raffinato, che gli faceva gustare ogni sfaccettatura del gusto.
“Bevi un piccolo sorso e trattienilo in bocca finché fodera le mucose. Concentrati. Riesci a percepire una tensione, un contrasto? – mi chiedeva, senza aspettare la mia risposta – “Si tratta dell’opposizione tra due influenze climatiche diverse e distinte: l’oceano e la vasta pianura. Il primo regala sole e temperature miti, la seconda inverni rigidi ed estati roventi. Nessun’altra regione vinicola francese gode di una tale felice ostilità. In questo divino elisir io riesco a sentire un remoto sapere di sale. È la distesa d’acqua sconfinata che contagia la nostra terra. Tu non lo senti?”.
No, io non lo sentivo, ma gli sorridevo per farlo felice.
Le nostre idee erano molto simili sulla gestione dell’azienda, ma io avrei cercato di promuovere il vino con più efficacia e soprattutto ne avrei perfezionato la qualità. Ero convinta che fosse il primo obiettivo da raggiungere fosse la limpidezza. Un liquido torbido fa pensare a dei residui se non addirittura alla sporcizia. Immaginavo a quanto sarebbe stato appagante stare di fronte a una finestra, alzare il calice e guardare il tramonto attraverso un liquido cristallino, giallo e trasparente, disseminato di minuscole bollicine.
Un paio d’anni dopo il nostro arrivo nello Champagne nacque nostra figlia Clémentine, una bimba dolce, dai lineamenti delicati. La felicità era però offuscata dall’umore di mio marito, che diventava ogni giorno più cupo. Neanche i sorrisi e i primi gorgheggi di Clémentine sembravano smuoverlo dall’inquietudine che si impadroniva di lui soprattutto al tramonto. Era avvilito, come se le ore di lavoro e di studio fossero trascorse inutilmente e le giornate fossero state funestate da continui insuccessi. La malattia dell’anima, questo in fondo era, peggiorò col tempo. Gli capitava di avere scatti d’ira ingiustificati: se un esperimento non aveva successo scagliava ampolle e caraffe di vetro sul muro della cantina. Urlava e imprecava. Solo io riuscivo a calmarlo, ma temevo per l’incolumità mia e della bambina, perché capivo che in certi momenti era fuori controllo. Presagivo tempi duri, quindi radunai tutte le mie forze e cercai di imparare quanto più potevo sulla coltivazione della vite, la produzione e la vendita del vino, tenendo in considerazione le modalità per promuoverlo e trasportarlo. Cose non facili per una donna che per vent’anni era vissuta nella bambagia. Potevo però contare su una discreta cultura, che la mia famiglia mi aveva impartito. Mi piaceva l’arte ed ero portata per la matematica e le materie scientifiche. Inoltre, potevo contare su una discreta intelligenza e su una vorace curiosità, caratteristiche che sono alla base del mio successo.
A quel tempo François aveva stretto amicizia con Louis Bohne, un agente che ci procacciava ottimi clienti. Louis era abile e lungimirante, conosceva bene i gusti degli aristocratici e sapeva come muoversi nei diversi paesi europei. Un collaboratore indispensabile, ma soprattutto un amico leale. Lui e mio marito passavano ore ad assaggiare i vini, a scegliere quelli più delicati o saporiti, a decretare quale annata fosse la più adatta ai palati tedeschi, inglesi o italiani. Colmava in qualche modo le lacune di François, che diventava di giorno in giorno più svagato e irritabile. Pareva che il raziocinio lo stesse lentamente abbandonando, lasciando il posto a una ostinata tetraggine.
Avevo solo ventisette anni quando rimasi vedova. Una mattina trovai mio marito esangue, ancora vestito e sdraiato sul letto. Aveva qualche linea di febbre da un paio di giorni, ma non fu quello a ucciderlo. Sul pavimento c’era un flacone vuoto, forse di laudano o di qualche altra sostanza stupefacente. Per prevenire inutili chiacchiere e per salvaguardare la sua memoria dissi a tutti che François era morto di febbre tifoide. Si trattava di una versione edulcorata, ma servì a frenare le malelingue.
La mia esistenza era a una svolta: avrei potuto accettare il ruolo della vedova affranta e chiudermi in un eterno letargo fatto di apatia oppure tirarmi su le maniche e disegnare il mio futuro. Optai per la seconda alternativa.
Secondo il Diritto Napoleonico non avevo alcun diritto sulle proprietà di mio marito e, come donna, non potevo trattare di affari. Una simile ingiustizia era inaccettabile. Ormai sapevo tutto sulla coltivazione dei vigneti e sulla produzione del vino. Non ero disponibile a farmi da parte. Chiesi a mio suocero di darmi fiducia, concedendomi un po’ di tempo. Gli promisi che gli avrei dimostrato le mie capacità.
“François mi ha insegnato tutto.” – gli dissi – “Si fidava di me. Sono legata a queste colline come lo era lui e amo ogni filare come se fosse un figlio. Vi prego, ho già perso mio marito, non toglietemi anche la sua eredità spirituale.”.
Inizialmente mio suocero si commosse e promise di lasciarmi fare. Fu un istante e poi il suo carattere duro da commerciante incallito ebbe il sopravvento.
“Vediamo come va quest’anno e poi ne riparliamo.” – disse asciutto – “Sarei felice che il lavoro di mio figlio non andasse perduto, ma d’altro canto non posso permettermi di sprecare denaro. Sei una donna e dubito che tu abbia la lucidità per fare un lavoro da uomini. Inoltre, spero tu sia consapevole che molti ti chiuderanno la porta in faccia. Ti lascio fare solo per onorare la memoria di François.”.
Dovevo farcela. Lavoravo notte e giorno e nei rari momenti liberi studiavo le leggi. Ero certa che avrei trovato un cavillo che mi avrebbe permesso di aggirare gli ostacoli e di gestire gli affari di famiglia in autonomia. Alla fine trovai un codicillo in cui si diceva che, in casi particolari, alle vedove, a differenza delle maritate e delle nubili, era permesso di firmare documenti ufficiali. Cosa significa dirigere un’azienda se non firmare scartoffie? Approfittai di questa falla nella normativa per iniziare, contro ogni consuetudine, a gestire la tenuta e gli affari.
Come aveva previsto mio suocero, ad ogni passo trovavo intralci e difficoltà creati da chi considerava una follia che una donna si occupasse di aspetti finanziari, ma soprattutto di vino pregiato. I banchieri non mi facevano credito perché erano certi del mio fallimento e i finanziamenti privati erano un miraggio.
Furono anni difficilissimi, in cui alternavo momenti di entusiasmo a lunghe ore di angoscia, che mi facevano precipitare nel più nero pessimismo. Quando mi sentivo sconfitta uscivo di casa e passeggiavo tra i filari, accarezzavo le foglie e mi sedevo sulla terra umida tenendo il viso tra le mani. Pregavo perché i miei sforzi ottenessero alla fine un riconoscimento. L’energia primitiva che scaturiva da quel luogo mi dava la forza di ricominciare a lottare.
La situazione era pesante: potevo contare solo sull’ammirazione dei miei dipendenti e su Louis Bohne, che mi sosteneva con tenacia, convinto che fossi più creativa e lungimirante di mio marito. Col tempo Louis divenne più che un amico. La stima e l’affetto si trasformarono in un sentimento più profondo, che assomigliava molto all’amore.
Le mie giornate erano divise tra l’affannosa ricerca di investitori e la sperimentazione di nuove tecniche e accorgimenti per migliorare la qualità dello champagne. La purezza era un mio vecchio pallino. Volevo a tutti i costi eliminare i depositi che rendevano il vino torbido, ma non capivo quale passaggio del processo si dovesse modificare. Devo fare in modo che i sedimenti finiscano sul tappo, ma come? mi chiedevo. Mi convinsi che l’unico sistema era inclinare le bottiglie verso il basso. Sembrava un’idea folle, ma ero certa che avrebbe funzionato. Dapprima disegnai il bozzetto di una struttura di legno con dei ripiani scavati e inclinati, dove, secondo la mia idea, poteva essere sistemato il vino di seconda fermentazione. Lo mostrai a Louis, il quale all’inizio si dimostrò scettico.
“Non so se funzionerà, mia cara, ma vale la pena di provare. Tu sei sempre in anticipo sui tempi, quindi perché no? L’idea potrebbe essere buona, ma ti prego di non farti troppe illusioni.”.
Feci costruire lo scaffale e lo chiamai remuage, un nome che ricordava lo scuotimento. Le bottiglie venivano sistemate sui ripiani e fatte ruotate tutti i giorni. In questo modo le impurità si staccavano, depositandosi sul tappo, che alla fine del processo veniva sostituito. Certo, era un sistema macchinoso, che richiedeva tempo e manodopera. Abili mani nel giro di qualche secondo dovevano stappare la bottiglia, facendo schizzare fuori i residui, poi raddrizzarla e infine ritapparla. Un metodo impegnativo, certo, ma il risultato fu strepitoso: lo champagne divenne puro e brillante come non lo era mai stato.
Il bilancio alla fine dell’anno era il mio grande cruccio. Facevo l’impossibile per non dare a mio suocero dei motivi per cacciarmi. E i conti in ordine erano una valida garanzia. Mi arrabbatavo per pagare i debiti e trovare qualcuno che credesse nelle mie capacità, ma a complicare le cose c’era anche l’embargo imposto dalle potenze europee alla Francia napoleonica. Mi sentivo sempre sotto esame, anche se la situazione lentamente migliorava.
Quando i problemi sembravano insolubili e la nube nera dell’inquietudine si faceva strada nei miei pensieri, mi rifugiavo in cantina, dove mio marito aveva organizzato un laboratorio. Lo sentivo vicino come quando lavoravamo insieme, parlavo alla sua ombra, confidando i miei tormenti. Era lì, in quella stanza che sapeva di mosto e di legno bagnato, alla debole luce delle candele, che mi venivano le idee più brillanti. Ero convinta da sempre che per avere successo fosse necessario distinguersi dai concorrenti. Jean-Rémy Moët, per esempio era un accanito rivale che, aiutato dal fatto di essere un uomo, era riuscito ad avere ottimi rapporti con la corte imperiale. Sul piano degli affari e delle trattative con gli eventuali nuovi clienti ero penalizzata dal fatto di essere donna. Dovevo escogitare qualcosa di innovativo, che colpisse la fantasia e incuriosisse i potenziali acquirenti.
Una notte in cui, nonostante la stanchezza, non riuscivo a prendere sonno, scesi in cantina e mi misi a pensare. La fiamma delle candele si specchiava sul vetro delle ampolle e si sfaldava in una miriade di scintille quando colpiva le brocche di cristallo. Il caldo colore del vino brillava come polvere di topazio. Pensai ai gioielli che erano privilegio di pochi, segno distintivo dell’appartenenza ad una classe elitaria… ed ecco l’idea. Uno champagne speciale, riservato ai re e alle regine, qualcosa di unico e di prezioso, che si poteva ottenere solo in annate speciali da uve selezionate raccolte durante una singola vendemmia. Correva l’anno 1810.
Quando ne parlai con Louis, la sua risposta non fu particolarmente incoraggiante:
“Non sarà facile mettere in pratica questa idea.” – disse sorridendo – “Le vendemmie non sono tutte uguali e le annate davvero buone sono rare. Ma sei una visionaria e le tue fantasie si trasformano spesso in realtà. Chissà, magari è la novità del secolo.”.
Fu così che nacque il primo millesimato. Andò a ruba tra i reali e gli aristocratici di tutta Europa.
La mia mente era una fucina di idee bizzarre. L’anno successivo vide il passaggio di una cometa sui cieli della Champagne. Molti dissero che l’astro luminoso aveva influito sull’ottima qualità della vendemmia. Forse era così o forse no. Per non deludere nessuno e per festeggiare quella eccezionale annata, feci incidere sui tappi la figura stilizzata di una stella con una lunga coda. La produzione andò a ruba, tutti volevano tenere in cantina una bottiglia del Vino della Cometa.
Le scelte politiche certo non aiutavano gli affari. Tra il 1806 e il 1807 Napoleone aveva emanato dei decreti che proibivano il commercio con la Gran Bretagna e i suoi alleati, inclusa la Russia. Quel paese così lontano e misterioso mi aveva sempre affascinata. Immaginavo una delle mie preziose bottiglie fra le mani dello zar, che la stappava allo scadere della mezzanotte dell’ultimo dell’anno, le coppe di cristallo riempite fino all’orlo, i piatti di fine porcellana e le posate cesellate in argento. E fuori, una distesa di neve luccicante illuminata dalle scintille dei fuochi d’artificio. Non avevo intenzione di farmi scoraggiare dagli stupidi vincoli imposti dal governo francese. Volevo che le mie bottiglie raggiungessero l’estremo est dell’Europa, che sapevo essere un immenso mercato. Decisi di aggirare il blocco utilizzando vascelli battenti bandiera neutrale, in modo che le partite di vino raggiungessero via mare i porti del Mar Baltico e proseguissero per la Russia via terra. À la guerre comme à la guerre, mi ripetevo costantemente, per giustificare a me stessa un comportamento che definirei audace, per non dire poco lecito. Alcune consegne non arrivarono mai a destinazione, ma in modo rocambolesco alcune bottiglie raggiunsero la corte imperiale e furono assaggiate dallo zar in persona, il quale sentenziò che non aveva mai bevuto nulla di così delizioso. Questo mi bastò per non mollare.
Nel 1814 il blocco continentale subì un allentamento, che permise di fare una massiccia spedizione di champagne a San Pietroburgo. Il mio vino conquistò immediatamente il palato della nobiltà russa e fu molto apprezzato dallo zar Alessandro I, che ne diventò un grande estimatore.
Furono anni di successi, che mi fecero quasi dimenticare le fatiche e le delusioni del passato. L’azienda ormai produceva 175.000 bottiglie ogni anno, ma la mia testa non smetteva di snocciolare idee nuove e rivoluzionarie.
Così mi focalizzai sulla variante rosé, che ancora non faceva parte della nostra offerta. Gli altri produttori aggiungevano all’uva bianca delle bacche di sambuco per ottenere quella particolare colorazione. A me sembrava un sacrilegio utilizzare ingredienti estranei. Era come aggiungere canapa alla filatura della seta. Decisi di provare ad aggiungere agli acini bianchi una piccola quantità di Pinot Nero. Avevo fatto centro ancora una volta: l’uva nera diede al vino una deliziosa nuance rosa.
Col tempo capii che la qualità senza un’adeguata promozione non era sufficiente. La concorrenza era agguerrita e distinguersi diventava una priorità. In fondo gustare un vino è l’ultimo atto di un percorso che coinvolge tutti i sensi. Sono gli occhi che per primi vengono sedotti dall’eleganza dell’etichetta, segue il tatto che decreta la qualità del tappo e del vetro, poi l’udito che assiste a un impercettibile sibilo e al botto finale, che deve essere discreto e mai volgare. Gli ultimi sensi coinvolti sono l’olfatto, che percepisce il profumo intenso del sughero, umido di vino, e infine il gusto che si immerge nel sapore paradisiaco esaltato dalle minuscole bollicine.
Tutte le fasi di questo processo sono importanti per attirare il pubblico e fidelizzarlo. Curavo personalmente le confezioni, sceglievo le scritte e i colori che rendessero immediatamente riconoscibile il mio prodotto. Scelsi un giallo caldo e forte, il colore del sole e della vita. Il marchio Veuve Clicquot doveva distinguersi da ogni altro e attirare i consumatori più esigenti.
Il mio motto è sempre stato non dipendere mai da nessuno. Tutte le donne dovrebbero pensarla come me. Con un padrone che dirige la nostra vita non potremo mai esprimere i nostri talenti. Per questo non mi sono mai risposata. Volevo essere libera di decidere cosa era meglio per me negli affari e nelle questioni sentimentali.
È stata una vita di lavoro la mia, di difficoltà e di grandi successi. Sono soddisfatta e stanca. Un paio di anni fa, nel 1841, ho ceduto la direzione dell’azienda e ho fatto costruire un castello con un grande parco. Tutt’intorno, sui fianchi delle colline, ci sono filari di viti. Trascorro ore guardando questo meraviglioso spettacolo e al tramonto sorseggio una coppa del mio champagne, brindando a me stessa.
Autore: Virginia Coral
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