Come molti appassionati di arte e cultura, quando ho iniziato a studiare le scoperte delle neuroscienze nel campo dell’estetica avevo alcune domande in testa a cui speravo di trovare risposta. Spesso sono vecchie polemiche che ancora sento dire in giro e che continuano ad appassionare le persone, e a cui le teorie tradizionali non riescono a dare una soluzione definitiva.
È bello ciò che è bello o è bello ciò che piace?
La prima questione irrisolta è la lunga discussione che ha opposto chi sostiene la natura più o meno innata dei canoni estetici, almeno a livello generale, e tra chi ritiene che se la nostra concezione del bello sia alla fin fine determinata dalla società e soggetta a cambiare nel corso della storia.
Numerosi studi di neuroestetica (così è stata chiamata la branca delle neuroscienze che studia gli effetti dell’arte sul cervello) hanno recentemente dimostrato non solo l’esistenza di canoni di bellezza di base universali, ma anche il loro radicamento nei nostri neuroni, cancellando con un tratto di penna l’ipotesi di un’origine esclusivamente sociale dei nostri criteri di bello.
Il neuroscienziato Vilayanur S. Ramachandran ne ha contato, di questi canoni, almeno otto. Alcuni, come la necessità di armonia e simmetria, riprendono le idee tipiche dell’estetica antica. In musica, diverse ricerche hanno dimostrato che la consonanza e dissonanza hanno specifiche basi neuronali e sono universali a tutte le culture (Alice Mado Proverbio, Neuroscienze cognitive della musica, Milano, 2024, pag. 156). Esisterebbe perfino un meccanismo innato che associa la tonalità maggiore o minore a determinate emozioni come la malinconia (Alice Mado Proverbio, ibidem, pag, 162).
L’arte contemporanea può essere considerata bella?
Collegata alla discussione tra i sostenitori dell’origine sociale dei canoni estetici e no, è la vecchia diatriba se l’arte contemporanea possa essere considerata effettivamente bella, per via della sua deliberata scelta di rottura verso qualsiasi canone o regola estetica.
Studi condotti con la risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che l’arte classica e quella astratta attivano aree cerebrali separate. Si tratta dunque di due esperienze diverse, che potranno piacere o non piacere in base all’attivazione o meno dei meccanismi neuronali di ricompensa dei singoli fruitori. La conclusione è che sì, anche l’arte contemporanea può generare emozioni di godimento e piacere.
In musica, si è scoperto invece che le melodie contemporanee attivano, con i loro suoni striduli, i meccanismi della paura (quindi non esattamente un’esperienza armoniosa), motivo per cui sono sapientemente sfruttate nelle colonne sonore dei film horror e dei thriller (Alice Mado Proverbio, ibidem, pp. 185 -192).
D’altro canto, anche se le canzonette e in genere la musica pop risultano decisamente più gradevoli al nostro orecchio, dopo un certo tempo generano noia e assuefazione. Un brano ben congeniato dovrà saper sfruttare sapientemente variazioni e dissonanze per creare novità, ma senza rompere troppo con alcuni canoni universali di gradimento estetico radicati nella nostra biologia.
Fare l’artista è una predisposizione innata?
Una credenza popolare purtroppo ancora molto diffusa pretenderebbe che per essere degli artisti – o più in generale svolgere una professione con successo – bisogna avere qualcosa come una predisposizione innata o ereditata geneticamente.
Si sente ancora dire che i cubani hanno la salsa nel sangue e che gli occidentali, per quanto si sforzino, non potranno mai ballare come loro, anche se basta una visita in qualsiasi sala da ballo per dimostrare il contrario.
Sempre in campo musicale, studi in ambito genetico hanno dimostrato lo scarso ruolo svolto dai geni sulle attitudini e capacità dei musicisti, risultando decisamente preponderanti i fattori ambientali, sociali e individuali (Alice Mado proverbio, ibiden, pp. 35 – 47). In sostanza, musicisti si diventa e non si nasce.
D’altro canto, basta riflettere a tutte le qualità che un artista deve avere – non solo capacità creativa, ma anche resilienza, determinazione, concentrazione, coordinamento motorio, giusto per indicarne qualcuna – per escludere che basti qualche gene per creare inesistenti attitudini o predisposizioni. Eppure, questa credenza è dura a morire!
Per creare bisogna spegnere la ragione?
Infine, molti artisti e non artisti credono che l’atto creativo nasca da una sorta di abbandono, di lasciar andare la parte razionale per poter consentire a qualcosa di più profondo – sia esso un demone o l’inconscio – di emergere e di esprimersi.
Da qui la giustificazione all’uso e abuso di ogni tipo di droga o di eccessi, nella speranza di spegnere la nostra parte razionale e repressiva e far emergere quella più emozionale e creativa.
Cosa ci insegnano le neuroscienze? Una ricerca danese (link a: https://thomasramsoy.com/index.php/2024/08/26/creativity-mind-wandering-and-the-default-mode-network-of-the-brain/ ) ha in effetti dimostrato che idee creative vengono fuori quando non si pensa a nulla di particolare e la nostra mente è libera di vagare (L’otium degli antichi romani?). Sembrerebbe quindi esserci una relazione inversa tra concentrazione su un compito e produzione di idee creative. Meno siamo concentrati, più facile sarà produrre idee creative.
Tuttavia, questo vagare della mente non è basato sul nulla, ma funziona solamente se il soggetto ha alla base un solido lavoro di studio e impegno. Una ricerca del 2018 (link a: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/29307585/) ha evidenziato come la creatività implichi l’attivazione di molteplici aree cerebrali, tra cui anche le aree corticali preposte al controllo cognitivo.
In conclusione, spegnere la cognizione con droghe ed eccessi vari non aiuta. La creatività è una fusione tra intuito, esercizio, ragione e capacità di cogliere la società che ci circonda. Dunque, un duro lavoro, e non un divertimento, e per giunta spesso non adeguatamente retribuito.
Autore: Marco La Rosa
0 commenti