La prima parte dell’articolo, intitolata «L’IDEOLOGIA FUNERARIA PRESSO GLI ETRUSCHI (Prima parte)» è stata pubblicata qui
In questa Seconda parte di questo studio intendo affrontare le varie fasi di tutto il rituale funerario etrusco dalla morte fisica in poi, tutti i gesti e le azioni per il trattamento del cadavere, il corteo funebre, le pratiche di cordoglio e quant’altro. Tutto ciò è costantemente accompagnato da una adeguata ritualità, proprio per aiutare la “liberazione” e il “viaggio” del defunto. Non sono superstizioni, né semplici preghiere di suffragio come possiamo intendere noi, sono riti fatti di gesti concreti, di oggetti, di fuochi, di profumi, di canti, finalizzati proprio alla purificazione del defunto e a dare anche un apporto di energia “corale” da parte di chi vi partecipa per favorire i processi in atto. La consapevolezza chiara che la vita dell’oltretomba è di gran lunga superiore a quella terrena, o meglio è un’altra cosa, è la vera vita, è la dimensione in cui l’anima deve tornare, perché è un “ritorno a casa”, porta i celebranti a compiere gli opportuni riti con gioia e grande coinvolgimento. Tutta la ritualità impiegata coralmente è per comunicare all’anima del defunto e alla natura l’energia per favorire al meglio il compimento di questa importante e delicatissima fase. Come dicevamo, il rito non è superstizione né qualcosa di razionale, o semplicemente simbolico, il rito compiuto con grande partecipazione di persone e con opportuni gesti ritmici e ripetitivi, ha una sua “forza”, ha conseguenze fisiche, crea e muove tanta energia, indirizzata per la finalità descritta.
Noi, uomini di oggi, con la nostra mentalità antropocentrica, abbiamo perso la dimensione spirituale della vita e della morte; anche il concetto di necropoli andrebbe rivisto, bisognerebbe accostarvisi con grande rispetto e senso di gratitudine, con la consapevolezza di avere davanti un territorio sacro. Oggi la morte è stata rimossa e rimuovendola abbiamo inibito la piena consapevolezza riguardo al mistero della morte e al mistero della stessa Vita. Perciò anche lo studioso odierno non sente più bisogno di indagare sulla concezione della morte che avevano questi popoli antichi e lavora sui pochi reperti concreti che abbiamo, rischiando interpretazioni falsate. La mia indagine, già descritta nel libro che ho citato nella Prima parte di questo studio[i], non ha la pretesa di chiarire tutto, perché il mistero del popolo etrusco è grande; vuole semplicemente stimolare, attraverso nuovi occhi e nuove discipline, a guardare più in là di quello che ci dicono i reperti e gli strumenti a disposizione; stimolare a ricostruire una “archeologia del rito” per apportare nuovi tasselli alla ricostruzione storica.
Mario Torelli al termine della ricchissima nota bibliografica del suo saggio sulla religione degli Etruschi, avvisa: “Mentre abbondano lavori su singole necropoli o tombe, soprattutto di alto arcaismo, manca uno studio complessivo sulla religione privata e funeraria etrusca”[ii]. Nel suo saggio egli ci dà delle informazioni preziose, spesso anche molto dettagliate, sia sulle cerimonie di commemorazione dei defunti nelle necropoli, sia sui riti funebri che si svolgevano nelle case, dal momento del decesso fino alla sepoltura. “Le cerimonie funebri iniziavano tuttavia nella casa del defunto, dove veniva eseguito il lavaggio, l’unzione e la vestizione del cadavere, che era subito dopo esposto, nel rito della pròthesis, al compianto collettivo. La pròthesis aveva luogo verosimilmente nel cortile della casa, al di sotto di una tenda, di cui le tombe tarquiniesi ci forniscono una costante imitazione, ma alla quale alludono anche taluni cippi chiusini, con raffigurazione di un simile rito; attorno a questa tenda si sviluppava il banchetto funebre dei membri della famiglia e dinanzi ad essa avevano luogo le danze e i giuochi”[iii].
[i] G. NOCENTINI, Una vasta necropoli nella Valle delle Piagge, Effigi, Arcidosso (GR), 2022.
[ii] M. TORELLI, La religione, in AA.VV., Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Libri Scheiwiller, Milano, 1986, p. 237.
[iii] M. TORELLI, La religione, cit., pp. 231-232.
Resta da chiarire meglio se il banchetto funebre, presso gli Etruschi si svolgeva nel cortile di casa, poco dopo il decesso, oppure, come lascia intravedere Torelli nel seguito della sua esposizione, se esso era solito avvenire presso la tomba del defunto con i familiari, dopo il novendiale e prima della sepoltura. Il novendiale era il periodo di nove giorni in cui il morto restava esposto nell’abitazione; rito che era in uso presso i Romani e in genere si pensa fosse stato in uso anche presso gli Etruschi. Per inciso, in parte questo uso è ereditato dalla Chiesa Cattolica, per le esequie di taluni pontefici defunti, che durano nove giorni dopo la morte. Sembra che i nove giorni siano necessari all’anima per portare a termine un graduale e sereno distacco dal corpo, senza troppi traumi.
Tornando al banchetto funebre, non è azzardato supporre che esso si svolgesse sia presso l’abitazione del defunto che presso la sua tomba prima della sepoltura
In ogni caso il banchetto, non finalizzato al solo nutrimento, era un momento di alta sacralità, in cui molto probabilmente si mangiavano le carni di vittime sacrificali, come possiamo desumere da alcuni strumenti di corredo della Tomba 30 (VI sec. a.C.) della Necropoli di Pian dei Gangani a Montalto di Castro (VT): “Particolarmente interessanti sono gli oggetti della camera 30 B, dove oltre ai consueti reperti ceramici da banchetto è attestato un servizio di piombi composto da una cuspide di lancia completa di puntale (sauroter) e da utensili per l’uccisione sacrificale della vittima e per la sua cottura, costituiti da un coltello, due alari, 5 spiedi ed uno strumento bidente”[iv].
La tomba, a quanto pare, sembra essere stata utilizzata a lungo perché vi sono reperti che coprono un ampio arco di tempo, dal VI sec. a.C. in avanti. Gli oggetti emersi sono: gli strumenti connessi col sacrificio rituale, quelli legati alla cottura delle carni degli animali sacrificati e quelli legati al banchetto vero e proprio e quindi al consumo dei cibi e del vino. Tra essi è annoverato il “bidente”, un attrezzo di utilizzo agricolo, ma che in questo contesto serviva a maneggiare il carbone sul fuoco.
“Dall’ambiente 30 B proviene anche un braciere d’impasto, di ovvia funzione ed una grande anfora da trasporto per il vino, di provenienza greco-orientale, probabilmente prodotta a Mileto, la cui attestazione in area vulcente è piuttosto rara. Sempre legati al consumo del vino sono una brocca (oinochoe) e due kantharoi di bucchero di cui uno di notevoli proporzioni, espressione di una moda tipica della città di Vulci. Alla mostra sono esposti anche alcuni reperti legati sempre al consumo del vino provenienti dalla camera 30 A. I pezzi sono costituiti da un’olpe etrusco-corinzia con decorazione dipinta a motivi animalistici, due coppe (kylikes), due calici, un attingitoio ed una brocca (oinochoe) di bucchero”[v]
[iv] G. SCARPATICCI, Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio, in sito web: https://storico.beniculturali.it/mibac/multimedia/MiBAC/minisiti/alimentazione/sezioni/etastorica/etruria/articoli/funebre.html.
[v] G. SCARPATICCI, Soprintendenza…, ivi.
Questa dettagliata documentazione ci attesta quante energie e attenzioni gli Etruschi davano a tutta una varietà di riti funerari, compreso il “banchetto” che da come era curato fa capire l’importanza capitale che esso rivestiva.
Riassumendo, il banchetto funebre era un rito sacro, con offerta alle divinità per accompagnare l’anima del defunto nel suo trapasso, che aveva delle fasi molto lunghe e complesse, a cominciare dal progressivo distacco dell’anima dal corpo, che, secondo la concezione etrusca, difficilmente si completava nei nove primi giorni dopo la morte, se il trasporto alla necropoli avveniva, appunto, dopo il novendiale. È tuttavia più verosimile, rispetto al pensiero degli Etruschi, che l’anima si staccasse progressivamente dal corpo soprattutto durante la sua dimora nella tomba, nel lungo periodo di “attesa”, di cui abbiamo parlato nella Prima parte, perché l’anima fosse pronta a passare per la “porta” che divide i due mondi, il terreno e l’ultraterreno, ossia la porta solstiziale.
Sappiamo dalla letteratura che le tombe etrusche sono chiuse, ma non “sigillate”, perché l’oculo della cupola o falsa cupola, in alto, è sempre chiuso da uno, o due lastroni. Dunque una chiusura provvisoria e rimovibile, quasi a indicare il sempre possibile passaggio dell’anima per la sua liberazione e il suo transito. Anche le tombe a tholos, della necropoli di Arezzo, come abbiamo visto, sono sempre chiuse con due lastroni
Questo oculo, ossia questo “foro” tra la terra e il cielo appare quasi come un axis mundi, un albero immaginario che unisce i due mondi e segna il passaggio delle anime, in un senso (discesa-incarnazione) e nell’altro (risalita-ritorno alla Via Lattea). Ecco perché tutte queste fasi, di trasporto, di distacco, di attesa, di transito, hanno bisogno costantemente di culto religioso, per propiziare le divinità e contestualmente aiutare il defunto a compiere i vari stadi di questo complesso e importantissimo processo. Processo che è di capitale importanza quanto la vita, il venire al mondo. Ricordo che le tombe a tholos hanno una forma che fa pensare all’utero materno e alla possibilità dell’anima del defunto di passare attraverso l’oculo superiore con apertura removibile, come una nuova nascita. Morire è come attraversale un “portale” e rinascere in un’altra dimensione di vita.
Abbiamo parlato del culto religioso nei riti e nelle azioni che seguono la morte, gestione del corpo, esposizione, banchetto funebre ecc. Voglio sottolineare che il percorso del corteo funebre assume presso gli Etruschi una solennità unica e i riti e i gesti ad esso connessi hanno una pregnanza simbolica che non ha pari negli altri riti della vita terrena. Mario Torelli, dopo avere accennato alla “grandissima” solennità del trasporto funebre, scrive: “La concezione della morte come viaggio verso il regno dei morti è antichissima: già nel IX secolo a.C. le barchette fittili delle tombe villanoviane di Tarquinia e fors’anche le «barche solari» della decorazione dei bronzi villanoviani di IX e VIII secolo vogliono chiaramente alludere a questo «grande viaggio»”[vi]
Torelli parla, poi, di “altari” presso le tombe: “Le grandi necropoli rupestri, con le loro facciate naomorfe, confermano il permanere della tradizione del culto eroico-funerario, mentre, nelle stesse necropoli le tombe a dado, con le scalinate per raggiungerne la sommità, provano la continuità delle pratiche funerarie con altari dalla forma già adombrata nelle arcaiche lastre dipinte di Campana di Cere. La tradizione è forse proseguita in età tardo-ellenistica con altari di un tipo attestato su di un’urna volterrana, la cui forma ricorda la celebre descrizione pliniana della tomba di Porsenna a Chiusi”[vii]. Alle “tombe come luogo di culto” anche Friedhelm Prayon dedica un paragrafo, fornendoci dei dettagli interessanti: “Le tombe erano anche luoghi per riti funebri e per il culto dei morti e, in tal senso, certi tumuli nell’Etruria settentrionale avevano delle sporgenze usate come piattaforme o terrazze la cui funzione cultuale (la prothesis del defunto?) non è ben chiara. Altri monumenti potevano essere accessibili attraverso rampe nel caso di tumuli o scale in sepolture «a dado» o «con sottofacciata». In un primo periodo (fine VIII – inizio VI secolo a.C.) il dromos era orientato in direzione nord-ovest, dove gli Etruschi pensavano si trovasse l’Aldilà, e le porte erano arcuate come quella d’ingresso al mondo degli Inferi. Il dromos o un piazzale davanti alla camera sepolcrale servivano per depositare offerte e per fare libagioni, come dimostrano altari a Bolsena o, in certe anticamere di tombe a Cerveteri, tavole e altari scavati nel tufo”[viii].
L’archeologia ci fa comprendere, dunque, come la commemorazione e il culto funerario in generale proseguano dopo la sepoltura e siano costanti nelle necropoli[ix]. Le stesse tombe, anche se ipogee, sono fatte in modo da essere viste da lontano, per potere essere raggiunte e frequentate (logicamente per mortivi di culto). Il tumulo, realizzato accumulando terra sopra la cupola, o pseudo cupola, fino ad ottenere una elevazione artificiale subconica, è di fatto il monumento funebre più semplice attestato fin dalla preistoria. Spesso la visibilità del tumulo veniva sottolineata apponendovi nella cima un segnacolo, che poteva essere una semplice pietra, sferica, ovale, o semplicemente una pietra ovoidale allungata, posta verticalmente tipo una stele.
In assenza di fonti scritte, ciò che possiamo sapere sull’Aldilà degli Etruschi lo possiamo comprendere solo dalle tombe, dalle necropoli e dai reperti che esse restituiscono. Siamo ancora ben lontani dall’avere un quadro completo, perciò ogni indizio, ogni elemento, ogni ipotesi possono servire a mettere insieme tasselli a questo riguardo. La necropoli della Valle delle Piagge ci sta rivelando o confermando diverse cose. Che la necropoli è di solito posta a NordOvest dalla città abitata; che per accedervi occorre attraversare un corso d’acqua, previa una debita ritualità; che tutto va fatto con rispetto e officiando culti sacri alle varie divinità; che i percorsi hanno ritualità e orientamento propri; che tutti i gesti e i passaggi hanno un grande spessore rituale e simbolico; che, come gli Etruschi ripartivano un territorio o una città abitata, nello stesso modo essi ripartivano una necropoli, perché anche essa è uno spazio sacro ed è abitata dai loro defunti, o antenati, che comunque fanno sempre parte del popolo.
Questi sono solo degli esempi desunti dallo studio del nostro territorio, ma che sono degni di essere presi in considerazione, perché la letteratura è ricca di tipologie di materiali provenienti da tombe, ma è forse scarsa di elementi che servano a ricostruire una “archeologia del rito”.
[vi] M TORELLI, La religione, cit., p. 233.
[vii] M. TORELLI, La religione, cit., p. 232.
[viii] F. PRAYON, L’architettura funeraria, in M. TORELLI (a cura di), Gli Etruschi, Bompiani, Milano, 2000, p. 143.
[ix] Cfr. anche G. COLONNA, Urbanistica e architettura, in AA.VV., Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, Libri Scheiwiller, Milano, 1986, p. 420..
Autore: Giovanni Nocentini
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