In occasione della prossima pubblicazione del libro intitolato «La cosmogonia orfica: il filo rosso che passando attraverso il neoplatonismo, collega Pitagora con la psicologia archetipica.», anticipiamo su Progetto Montecristo, la metodologia da noi adottata per l’allegoresi [1] dei testi orfici.
In questa prima parte una breve introduzione presentiamo la figura di James Hillman ed introduciamo il concetto di “immagine”.
Introduzione
« Ciò che propongo è sia una base poetica della mente, sia una psicologia che abbia il suo punto di partenza non nella fisiologia del cervello, non nella struttura del linguaggio, non nell’organizzazione della società nell’analisi del comportamento, bensì nei processi dell’immaginazione»
James Hillman – Re-visione della psicologia Edizione Adelphi 1983
Il filosofo francese, nonché storico delle religioni Jean Pierre Vernant, nel suo libro, “Mito e religione nell’antica Grecia”, scriveva:
«Gli dei greci non sono persone con una propria identità, quanto piuttosto risultano essere “potenze” che agiscono assumendo poliedriche forme e segni, non identificandosi mai completamente con tali manifestazioni. Queste potenze sono “il motore del mondo.”»
Jean-Pierre Vernant – Mito e religione in Grecia antica – Donzelli editore 2009
dietro alla mitologia greca, caratterizzata da storie che parlano di divinità ed eroi e che per secoli è stata forse troppo sbrigativamente liquidata come una forma di religiosità acerba, soprattutto se paragonata a quella cristiana, si celerebbe, sia la rappresentazione allegorica della formazione dell’universo, che delle forze inconsce che agiscono all’interno della psiche umana.
Ma per raggiungere il nostro scopo dobbiamo, dobbiamo come diceva il fondatore della psicologia archetipica James Hillman, «rileggere in trasparenza» quelle medesime storie, superando l’interpretazione letterale e andando, al di là dell’apparenza.
I primi approcci alla rilettura dei miti risalgono al passato.
Hillman intravvede gli albori di quella da lui definita «Psicologia del fare anima» in Petrarca (1304-1374) [2].
«Niente è degno di ammirazione fuorché l’anima, per la quale nulla è troppo grande.»
Petrarca, “Familiares” 4, 1
[1] Per allegoresi si intende «un’esegesi di miti (o oggetti) considerati sacri o notevoli, idonei ad essere condotta in maniera sistematica ad una interpretazione razionale».
Per ulteriori approfondimenti invitiamo il lettore a leggere quella che probabilmente è l’analisi più approfondita ed esaustiva riguardo a queste tematiche che viene affrontata dal prof. Roberto Radice all’interno del libro intitolato «I nomi che parlano – L’allegoria filosofica dalle origini al II secolo d.c.» – Morcelliana 2020. Ricordiamo inoltre, che il termine allegoresi è un neologismo coniato dal Radice che sta per «esegesi di miti (o oggetti) considerati sacri o notevoli, idonei ad essere condotta in maniera sistematica ad una interpretazione razionale» – cit. p.10
[2] Interessante a tal proposito la lettura del paragrafo intitolato «Verso una psicologia del Rinascimento» all’interno del libro Re-visione della psicologia (op.cit.)
Ma l’impulso determinante avvenne per opera di quegli intellettuali provenienti da tutta Europa, che presero parte ai cenacoli che si tennero a latere del Concilio di Firenze Ferrara (1438-1439) [3] che hanno scorto, nelle pieghe dei racconti degli antichi miti, le allegorie che descrivono l’anima umana.
Fu grazie al sostegno, sia morale che economico, della famiglia de Medici che ospitò a Firenze a partire dal 1439 i lavori conciliari, che vennero gettate le basi per la creazione del Rinascimento italiano.
Il quale, non sfociò soltanto nella creazione di un movimento che rivoluzionò la pittura, la scultura e l’architettura, ma soprattutto dette origine ad un nuovo modo di rapportarsi a sé stessi ed alla realtà che ci circonda.
Furono i filosofi e letterati che si rifacevano al pensiero filosofico neoplatonico, quali Giorgio Gemisto Pletone (1355 – 1452), l’Arcivescovo di Nicea Basilio Bessarione (1403-1472), il cardinale Nicolò Cusano (1401-1464), Marsilio Ficino (1433-1499), a riscoprire i riferimenti al mondo della psiche celati all’interno dei racconti del mondo classico.
Che per diversi secoli erano andati smarriti.
È proprio in questo periodo che prolifera la ri-traduzione dei testi scritti in greco antico o in latino, lingue entrambe caratterizzate da un bagaglio lessicale ricco, variegato ed intrinsecamente sfuggente [4], con lo scopo di rintracciare i riferimenti indiretti al mondo dell’anima (ψυχή -Psychè).
Dietro al lavoro dei suddetti intellettuali vi furono committenti altrettanto sensibili sia alla conoscenza del mondo interiore che all’impostazione filosofica di pensatori, come Pitagora, Platone ed i cosiddetti neoplatonici che hanno fornito il supporto organizzativo affinché intellettuali di ogni tipo e provenienza, potessero approfondire questi studi.
Ci riferiamo non solo alla nobiltà fiorentina, milanese o europea, ma anche a quella parte della Chiesa Cattolica che seppe esprimere ben tre Papi accomunati dalla medesima sensibilità.
Ci riferiamo in particolare a tre futuri prelati che presero parte ai lavori del Concilio, come il Cardinale Tommaso Parentucelli (1397 – 1464) diventato poi Papa Niccolò V (il primo Papa del “Rinascimento”), Enea Silvio Piccolomini (1405-1464), ovvero Papa Pio II e Francesco della Rovere che assunse il nome di Papa Sisto IV [5].
È grazie agli studi di James Hillman che oggi possiamo vedere nelle espressioni creative del XV secolo, qualcosa di più di una semplice imitazione dell’arte classica, ovvero la capacità di creare poesie, pitture e statue, che ispirate dai racconti mitologici, possedevano anche la capacità di arrivare al cuore, cioè al mondo dei sentimenti e delle emozioni.
Perché lo scopo dell’arte rinascimentale non era solo quello di assecondare il committente e stupire chi fruiva l’opera d’arte, ma di far riflettere gli spettatori e guidarli, come nell’antichità, nel cammino che conduceva alla conoscenza (profonda) di sé: la «Γνῶθι σεαυτόν – gnothi seaytòn».
[3] 2 Approfondiremo questo argomento all’appendice n° 2 dedicato al suddetto concilio
[4] Approfondiremo questo argomento al 3.5 dell’introduzione
[5] Nella lista manca il veneziano Pietro Barbo (1417 – 1471) che fu eletto papa nel periodo tra Pio II e Sisto IV, col nome di Paolo II, sia perché non sembrano esservi evidenze che partecipò direttamente ai lavori conciliari, sia perché durante il suo magistero fu avversario degli umanisti che accusava di avvicinarsi eccessivamente alla cultura neopagana.

James Hillman
1 Chi era James Hillmann?
Era nato ad Atlantic City nel 1926 ed è morto a Thompson nel Connecticut nel 2011.
I suoi studi universitari si sono svolti in Europa, iniziati alla Sorbona, per laurearsi poi nel 1950 al Trinity College di Dublino.
Nel ’53 si trasferisce a Zurigo dove conosce Carl Gustav Jung e 6 anni dopo ottiene prima il Ph.D. e poi il diploma di analista al C.G. Jung Institute.
La sua formazione di analista posa le sue basi sugli studi e sulla pratica terapeutica di Carl Jung, a cui egli, riprendendo sostanzialmente il modello relativo alla teoria degli archetipi, vi innesta quelle intuizioni che lo porteranno a rinnovare la teoria del suo mentore.
Pur essendo americano è in realtà il più europeo, anzi, come lui amava farsi definire, il più mediterraneo di tutti gli psicanalisti moderni.
Silvia Ronchey nella prefazione al libro intitolato “L’ultima immagine”, ci racconta che «era uno studioso di filosofia, un grande conoscitore dell’antichità ed amante degli studi umanistici italiani, conosceva bene il greco, il latino, il tedesco, l’italiano ed amava anche l’opera».
Ma per comprendere le radici del suo lavoro, dobbiamo tenere conto che egli fu colui che sviluppò e portò a compimento idee ed intuizioni del suo maestro, Carl Gustav Jung.
Quest’ultimo, fu colui che, a seguito dalla lettura del libro di Friedrich Creuzer – «Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen» pubblicato nel 1810, operò un cambio di paradigma nell’approccio della cura dei suoi pazienti, ma anche di mentalità che di lì breve lo condusse alla separazione dal maestro Sigmund Freud.
Hillman, articolando la presentazione del suo modello, affermava che il termine ‛archetipico’ aggiunto alla parola psicologia, era da vedersi come un’evoluzione del metodo ‛analitico’ di matrice junghiana (ricordiamo che Hillman dopo aver ottenuto il dottorato del C.G. Jung Institute di Zurigo ne divenne il “Direttore degli studi”) ed aggiungeva, in accordo con le riflessioni dei filosofi greci sopra citati del IV – V sec a.C., che la psiche/anima, ovvero il mondo interiore dell’uomo, è sia un luogo costellato di immagini, che un creatore autonomo di immagini stesse.
«Ogni processo psichico è un’immagine e un ‛immaginare’, altrimenti non potrebbe esistere nessuna coscienza” (v. Jung, C. W., XI, § 899). Un’immagine archetipica funziona come il significato originario dell’idea (l’eìdos e l’eidolon greci), si presenta quindi non come ciò che vediamo, ma come ciò per mezzo del quale vediamo. Le immagini archetipiche si manifestano perciò tanto nell’atto del vedere quanto nell’oggetto visto: esse appaiono nella coscienza come la fantasia dominante in virtù della quale diventa possibile il sorgere stesso della coscienza. La raccolta di dati serve meno a dimostrare oggettivamente l’esistenza degli archetipi che a dimostrare come quella dei ‛dati oggettivi’ non sia se non una fantasia tra le altre.»
Hillman James – da un suo contributo alla psicologia archetipica per l’enciclopedia

Edward_Casey
2 Ma quali sono le immagini di cui stiamo parlando?
«È mia convinzione che l’immaginazione attiva e la topografia archetipale siano infatti strettamente correlate. […]»
Edward Casey Toward an Archetipal imagination – trad. dell’autore
Queste immagini secondo Platone, non sarebbero altro che la riproduzione di modelli, detti anche idee [6] o forme, che dimorano in un mondo trascendentale denominato Iperuranio.
Ebbene, queste stesse forme archetipiche, oltre ad essere il fondamento dell’universo e a fornire il prototipo a cui le forme della realtà materiale si ispirano, costituirebbero la materia prima di cui è fatta la nostra anima, quella stessa che viene personificata dagli dei della mitologia e le cui storie, se rilette in chiave allegorica, conterrebbero informazioni riguardanti le dinamiche interne alla nostra psiche.
Secondo questa visione o modello filosofico, l’anima non sarebbe assimilabile ad un’emanazione spirituale, ma andrebbe “immaginata” come un teatro dove dei personaggi leggendari, gli dèi del pantheon greco, recitano, agiscono e si rivolgono a noi, per mezzo di un linguaggio simbolico che è diverso da quello quotidianamente adoperato dall’uomo, che è costituito da lessemi detti anche vocaboli.
L’effetto di questi simboli, a loro volta, si manifesterebbero sul piano sensibile, mediante quelli che siamo soliti chiamare sentimenti o emozioni.
Ecco che le leggende mitologiche diventano un modo con cui rivolgersi alla psiche e raccontare delle dinamiche che la dominano, in un modo che oggi possiamo definire subliminale.
Rammentiamo al lettore che non si tratta di una riflessione che si svolge a livello logico/razionale, ma sul piano inconscio, inteso come il “non luogo” dove giace il materiale cosiddetto rimosso, ma anche le immagini archetipiche che, secondo il modello platonico, sarebbero alla base degli stimoli pulsionali che popolano la nostra anima [7].
Ma come rendere efficaci quelle immagini simboliche che i racconti mitologici ci donano e le cui trame violano il princìpio di causa effetto e popolati da personaggi dall’aspetto e dal comportamento spesso bizzarro?
Qual è, se esiste, il meccanismo percettivo che entra in gioco?
Un’indicazione, secondo Hillman, proverrebbe dal verso 49 delle Rime di Michelangelo Buonarroti (1475-1564),
«Amor, la tuo beltà non è mortale: nessun volto fra noi è che pareggi, l’immagine del cor, che ‘nfiammi e reggi, con altro foco e muovi con altr’ale».
Michelangelo Buonarroti Rime – a cura di Enzo Noè Girardi
tratto da https://it.wikisource.org/wiki/Rime_(Michelangelo)/49._Amor,_la_tuo_beltà_non_è_mortale
Questo “cor” che sta per “cuore”, non è né un riferimento a dei generici sentimenti ed emozioni, tipico di certi luoghi comuni, ma è un’allusione simbolica che rimanda a un particolare tipo di percezione che, non arrestandosi all’aspetto esteriore e formale delle cose e delle persone, giunge fino in profondità ed individua la loro οὐσία – oysia/essenza.[8]
Stiamo parlando di una o più qualità a priori [9], possedute da ciascun essere animato.
Perché solo il “cuore” è in grado osservare nelle profondità di un’altro “cuore”. [10]
In particolare all’interno del manifesto «Why ‛archetypal’ psychology?» del 1970, Hillman introduce una psicologia che «riportando in vita» i miti del mondo greco e mescolando arte, cultura e filosofia, si propone di rappresentare in forma “analogica” quel luogo irreale, oscuro e apparentemente contraddittorio che è la Psyché.
Per lo psicoanalista americano infatti, i miti che appartengono al Pantheon greco, sarebbero la rappresentazione simbolica di quella energia psichica che sta a monte delle passioni e dei sentimenti, sia di quelle vissute come positive che di quelle negative, ma anche delle spinte vitali o pulsioni, creative o distruttive, tipiche di alcuni comportamenti umani.
Sono stati fatti numerosi tentativi mitologici e filosofici per formulare e visualizzare la forza creatrice che l’uomo conosce solo per esperienza soggettiva. Per fare solo alcuni esempi, vorrei ricordare al lettore il significato cosmogonico di Eros in Esiodo,13 e anche la figura orfica di Phanes [11] (tav. XII), il Risplendente, il Primo Creato, il “Padre dell’Eros”.
Carl Jung Collected works – Symbols of transformation (op cit) – cap II pag 137
[6] Platone nelle sue opere adoperava il termine εἶδος – eìdos che solitamente troviamo tradotto con «immagine», o addirittura con «idea».
In realtà sui nostri vocabolari di riferimento, la cui lista è pubblicata in bibliografia, si trova tradotto con «aspetto», «figura», «visione», «ciò che si vede», e quindi, in senso traslato assume il significato di «forma» o «figura».
Secondo il dizionario greco antico- tedesco Frisk, deriverebbe dal verbo εἶδον, che significa «vedere», «scorgere», «guardare», «osservare», «percepire», «sentire un’emozione «e addirittura, e qui la cosa si fa assai interessante, secondo il LSJ sta per «vedere mentalmente».
Pertanto eìdos è un sostantivo inerente a ciò che si riesce a vedere, a ciò che si osserva, più che dell’oggetto osservato in sé, quanto alla sua essenza interiore ed in riferimento in modo particolare al piano psicologico.
Quindi un’attitudine che è attenta sia alla causa che al fenomeno o, come avremo modo di vedere nel caso dei princìpi primi che sono l’oggetto di studio di questo libro, porre attenzione alla loro essenza ed alla loro natura. (Questi ultimi due termini verranno approfonditi in chiave psicoarchetipica rispettivamente al Cap. 7, parte 2ª → paragr. 5.4 ed al Cap. 7, parte 2ª → paragr. 5.3)
La traduzione con idea, in particolare, sarebbe una forzatura avvenuta in tempi più recenti che rischia, senza le dovute cautele e le adeguate premesse, di fuorviare dal significato inteso da Platone e dai neoplatonici.
[7] APrecisiamo che all’interno del nostro lavoro i termini anima e psyché vengono considerati intercambiabili, tranne nei punti in cui la distinzione verrà fatta esplicitamente dai filosofi considerati. (p.e. Plotino – vedi Cap. 7, 2ªparte → par. 3)
[8] Questo termine, molto importante all’interno della filosofia sia di Aristotele che di Platone ed i neoplatonici, verrà analizzato ed approfondito all’interno del contesto delle cosmogonie orfiche, al Cap. 7, parte 2ª → paragr. 5.3
[9] Non usiamo volutamente il termine essenza, perché come mostreremo più avanti, essa ha un significato, seppur apparentemente simile, in realtà sostanzialmente diverso. È corrispondente a οὐσία
[10] Onde evitare equivoci su cosa sia questo sentire col cuore, sostenendo “tout cout” che la ragione sia superiore rispetto ad un approccio definito irrazionale, riteniamo opportuno fare un chiarimento.
L’uomo post cartesiano, pone al centro del proprio modello la ragione.
Grazie ad essa si sono potute sviluppare le scienze moderne che tanto progresso e benessere hanno portato all’umanità.
Come vedremo più avanti, non è che gli antichi greci, possedessero una visione contrapposta, forse frutto di una religiosità superstiziosa ed il cui scopo fosse quello di rassicurare l’animo umano costretto a vivere in una realtà che non era in grado di capire a causa delle limitate conoscenze in campo scientifico.
Anch’essi davano molta importanza all’intelligenza cosiddetta razionale ed alla logica, tant’è che il dio che incarnava l’archetipo del pensiero logico era Apollo.
In realtà, siamo dell’opinione che essi davano dignità almeno pari al cosiddetto intuito, alla capacità di ascoltare il proprio mondo interiore, aiutati anche dal cosiddetto pensiero analogico e da un approccio che vede in ogni manifestazione della realtà un simbolo che rimanda qualcos’altro.
Questo modo di vedere e di affrontare la realtà, lo si rinviene nella polisemicità del greco antico ed in quella peculiarità della lingua greca che consisteva, secondo il filosofo goriziano Carlo Michelstaedter (1873 – 1910), nel fatto che “La lingua greca si presenta, dunque, come linguaggio autentico di una più vera, più persuasiva visione del mondo: il greco ci permette di dire di più. […] ». (vedere la più ricca ed articolata citazione che il lettore troverà al Cap. 7: parte 2ª → paragr. 9)
La scienza moderna invece, ha bisogno di dati oggettivi e pertanto si affida alla ragione che impone un atteggiamento prudente ed analitico con lo scopo di ottenere interpretazioni della realtà il più possibili oggettive, ma soprattutto condivise. (1+1 deve fare 2 in tutto il mondo)
Ma in realtà, e questo ci teniamo a sottolinearlo, anche la scienza moderna non preclude un intervento del lato intuitivo del cervello all’interno della scienza.
Ci riferiamo al cosiddetto “metodo abduttivo” del matematico e filosofo americano Charles Sanders Pierce, e su cui ritorneremo al cap. 9, il quale sostiene che l’intuizione sia un elemento cruciale al fine di garantire il progresso scientifico.
Egli afferma infatti che, nella ricerca scientifica l’intuizione sarebbe lo strumento intellettivo che permette di percorre strade nuove o per fare ipotesi riguardo fenomeni che possono apparire inizialmente inesplicabili.
Spetta in un secondo tempo alla ragione, o come la chiamerebbero gli antichi, alla dianoia termine che approfondiremo al Cap. 7: parte 2ª → paragr. 7 , mettere in atto strategie di indagine e controllo per verificare che le ipotesi fatte mediante l’intuizione e che hanno permesso di vedere nessi causa effetto dove questi non erano evidenti, sia corretta o meno.
[11] Proprio la figura di Phanes sarà oggetto di analisi (vedere cap 12)
Leggi:
Modello teorico a supporto della rilettura in trasparenza dei miti dell’antica dell’antica Grecia e dei testi orfici – parte 2
Modello teorico a supporto della rilettura in trasparenza dei miti dell’antica dell’antica Grecia e dei testi orfici – parte 3
Autore: Massimo Biecher
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