È attraverso questa simulazione interna di ciò che vediamo che riusciamo a ricostruire in una vicenda dotata di senso quell’ammasso di dati di per sé slegati e privi di significato che altrimenti sarebbero le nostre pure percezioni sensoriali.
Ma l’attivazione corporea creata non solo da un film, ma da qualsiasi contenuto visivo, musicale o letterario non si ferma certo al sistema mirroring. L’attività di simulazione coinvolge, anche se in modo impercettibile, anche il sistema muscolo-motorio fino a raggiungere pressocché ogni distretto corporeo, perfino il sistema immunitario.
Del resto, a chi non è mai capitato leggendo un libro, ascoltando musica o guardando un film particolarmente coinvolgente di coprirsi gli occhi per la paura, accennare un qualche passo di ballo, sudare o stringere le mani a pugno?
Ogni narrazione – non soltanto quelle cinematografiche – entra potentemente in noi, diventando parte non solo della nostra mente, ma anche della nostra carne. In inglese esiste un’espressione particolarmente efficace che descrive questo fenomeno, “Embodiment”, reso in italiano come “incarnamento”.
Quando si verifica, noi viviamo dentro di noi non solo le azioni, ma simuliamo anche le sensazioni, i pensieri e le emozioni dei personaggi, schierandoci a favore o contro di loro in quel complesso e ancora non del tutto chiarito fenomeno che è l’immedesimazione.
Immedesimazione e potere persuasivo del cinema
In quel momento, il mondo esterno scompare e noi siamo totalmente dentro la storia, in quello che viene chiamato trasporto narrativo. Viviamo la vita dei personaggi e ne assumiamo le sofferenze, i valori e versione dei fatti. La nostra esperienza del mondo viene ampliata e arricchita, al punto che potremmo anche modificare i nostri valori e opinioni rispetto a determinati fatti o situazioni.
Questo è particolarmente vero nel caso del cinema, e, più in generale, per qualsiasi contenuto visivo per l’immediatezza che questo media ha sulla coscienza. I due sensi più potenti – la vista e l’udito – sono infatti qui riuniti e spiegano la loro efficacia al massimo.
La potenza persuasiva del cinema e delle sue narrazioni è del resto conosciuta e oggetto di particolare cura e preoccupazione da parte del potere almeno fin dagli anni ’30. L’attenzione del governo si è poi spostata su un altro media fortemente collegato all’immagine e alla vista, la televisione, le cui lotte politiche per il suo controllo animano continuamente le cronache del paese.
Del resto, forse non è un caso che cinema, storytelling, pubblicità e comunicazione persuasiva sono fenomeni che emergono nello stesso periodo storico, il difficile intervallo tra la prima e la Seconda guerra mondiale. Grandi comunicatori come Edward Bernays, il cui pensiero è ancora oggi alla base delle relazioni pubbliche e che coniò l’efficace espressione: “Fabbrica del consenso”, emergono con prepotenza proprio in quegli anni difficili.
La lunga collaborazione di Bernays col sistema politico americano denuncia i legami da sempre esistiti tra cinema, comunicazione, media, governi, politici ed eserciti. La Seconda guerra mondiale fu, ricordiamocelo, anche un grande volano per la ricerca scientifica, compresa la psicologia cognitiva e la psicologia della persuasione. Proprio in quegli anni si gettarono le basi dell’intelligenza artificiale, della moderna propaganda e della conoscenza del funzionamento dei neuroni, tre fenomeni non a caso intrinsecamente collegati.
Hollywood, le neuroscienze e Guerre Stellari
Anche Hollywood, come qualsiasi industria, non ha esitato a saccheggiare queste conoscenze per elaborare trame e sceneggiature. Un esempio è l’opera di Paul Joseph Gulino, sceneggiatore ben conosciuto anche nell’ambiente del cinema italiano, che ha pubblicato insieme alla psicologa cognitivista Connie Shears il primo manuale neuroscientifico (“The Science of Screenwriting: The Neuroscience Behind Storytelling Strategies”, 2018) di come scrivere sceneggiature applicando alcuni principi di base dedotti dalle neuroscienze.
Nel loro libro, Gulino e la Shears offrono una dettagliata analisi di Guerre stellari, non a caso forse il film di più grande successo di cassetta di tutti i tempi, e delle regole che sono state impiegate nella concezione della sceneggiatura.
Vediamone i primi nove minuti. Il film inizia con un lungo testo che ci contestualizza in una lontana galassia tanto tanto tempo fa, e ci racconta di una guerra tra un impero e dei ribelli. Non è certo una trovata brillante – i testi sono noiosi e faticosi da leggere sullo schermo – tranne per l’idea geniale di far partire subito l’azione scenica con uno scontro tra un immenso incrociatore spaziale e una minuscola navicella.
Due regole ben conosciute dalla psicologia della percezione sono qui impiegate: contrasto (navicella contro incrociatore) e azione drammatica, addirittura una caccia all’ultimo sangue – quanto ci può essere di più adrenalinico e invocante la paura ancestrale di essere cacciati e uccisi da un predatore enorme dietro di noi.
A questo punto uno dei personaggi, il robot C3, fa una predizione sul triste fato che attende la principessa, creando una causa sospesa, un: “come andrà a finire” che sarà sciolto solamente alla fine dell’azione e che ci motiva a guardare il film.
La tensione narrativa viene risolta subito con l’abbordaggio e la vittoria degli imperiali, in modo da non creare noia o stress allo spettatore. L’arrivo di Dart Vader vede di nuovo l’uso del contrasto – tra il bianco delle truppe e il nero del sinistro personaggio – mentre la sua gestualità e il comportamento delle persone intorno ci fa capire che è il capo dei cattivi.
Questo Lucas non ce lo dice; l’abilità è infatti trasmettere il messaggio usando puri suggerimenti visivi. La regola è qui quella di far lavorare il cervello dello spettatore, evitando di esporre i fatti in maniera piatta e banale.
Interviene la principessa Leila che identifichiamo non direttamente, ma sempre da come si veste, parla e comporta; ancora, ritroviamo la regola di far lavorare il cervello dello spettatore e creare curiosità senza dire le cose in modo diretto. Stessa regola viene applicata nella scena successiva, in cui la principessa infila qualcosa in 3CPO e poi scompare. Qui abbiamo anche un’altra applicazione della causa sospesa (Cosa sarà quell’oggetto? Quando si scioglierà il mistero?).
Dart Vader interroga i ribelli, ricordandoci che siamo in una guerra tra loro e l’impero di una remota galassia (ancora, esposizione). Il dialogo crea una connessione emozionale con il personaggio della principessa quando Vader ordina di rovistare la nave ribelle da cima a fondo e portargli vivi i passeggeri. Ce la farà la principessa a fuggire o sarà presa? Perderà o vincerà? Lo spettatore prende posizione, comincia ad appassionarsi alle sorti di Leyla, a scommettere.
Anche in questo caso la tensione dura poco e si risolve con la cattura e l’interrogatorio della principessa. Apprendiamo della presenza di misteriosi piani segreti che gli imperiali stanno cercando per poi ricominciare a tremare sulla sedia quando Veder ordina di cercare i due androidi perché i piani ce li devono avere loro. La trama lasciata aperta nella scena precedente dall’inserimento di quel qualcosa nel robot da parte della principessa si scioglie, intuiamo che si doveva trattare di quello che l’impero sta cercando con tanto affanno. Gli ordini impartiti da Vader riaprono la trama: riusciranno i soldati a trovare gli androidi e i piani? E noi, per chi parteggiamo, per i ribelli o per Vader?
Sono passati ormai nove minuti dall’inizio del film, la prima scena finisce. L’elemento che la unifica è lo scontro spaziale tra l’incrociatore e la navicella ribelle. La suspence è creata dalla fuga della principessa, che crea nella nostra mente possibili scenari alternativi: riuscirà a scappare o no? I piani saranno salvati o no? I due androidi ce la faranno o no? Anche se non c’è ancora un personaggio principale, l’umanità dei due androidi è sufficiente a creare connessione per i tempi brevi dell’azione filmica di questa prima scena, che tra l’altro riesce a introdurre in modo molto efficace il contesto in cui si svilupperà la trama. Le cause sospese sono tutte risolte, ora sappiamo che ci sono dei piani segreti e che i due androidi sono scappati con essi.
Il passaggio alla scena seconda avviene resettando totalmente la mente dello spettatore: dallo spazio nero si passa a un pianeta giallo e sabbioso (contrasto), e la musica diventa calma e rilassante (ancora contrasto). Bastano questi due semplici indizi per farci capire che siamo in una nuova scena, dove tutto è di nuovo da giocare e tutto ricomincia.
Riflessioni finali
Il manuale di Gulino è solamente uno degli esempi di sinergia tra neuroscienze e cinema, e ci offre una visione affascinante e inquietante del potere della narrazione.
La capacità del cinema di stimolare il nostro sistema mirroring e di indurci a vivere esperienze vicarie ci rende estremamente vulnerabili alla manipolazione. La consapevolezza di questi meccanismi cognitivi solleva e ha sempre sollevato interrogativi cruciali sull’etica della creazione e della fruizione di contenuti visivi. Come possiamo garantire che il potere della narrazione venga utilizzato in modo responsabile e rispettoso? Quali sono i limiti etici della persuasione attraverso le immagini? E come possiamo educare un pubblico critico in grado di discernere tra manipolazione e autentica espressione artistica?
La risposta a queste domande è tutt’altro che semplice, ed esula dagli scopi di questo articolo. Essere consapevoli della potenza del cinema e dei contenuti visivi è però sicuramente un primo passo indispensabile, un passo in cui le neuroscienze cognitive possono dare un contributo cruciale.
Autore: Marco La Rosa
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