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Piero Della Francesca e i misteri della flagellazione

da | 2 Lug, 24 | Arti |

Una tavola, una tempera di 59 centimetri per 81,5. Niente al confronto dei cicli pittorici del tempo e delle stesse opere dell’autore. Eppure nasconde un mistero che attraversa i secoli e che, dopo varie peripezie, furto e sfregi compresi, si trova ora nella Galleria nazionale di Urbino. É “La flagellazione di Cristo”, di Piero della Francesca, uno dei più grandi artisti di una stagione costellata di geni, un genio, nel suo caso, della luce. Intriso di matematica e di geometria. Sarebbe stato interessante conoscere cosa illustravano gli affreschi eseguiti nel Palazzo Apostolico e sostituiti poi dalle Stanze di Raffaello. Ristrutturazioni o censure?

Del capolavoro urbinate del Gesù torturato si conosce ben poco, né il committente, né la collocazione originaria, né la destinazione, ma soprattutto il suo recondito significato. Ci hanno provato in molti a decodificarlo. Gli anni della sua realizzazione oscillano per la critica fra il 1459 e il 1461, il 1459-64 o infine il 1469-72. Unica certezza l’autore, visto che sotto il seggio di uno dei protagonisti compare, quasi invisibile, la scritta; “Opus Petri de Burgo S(an)c(t)i Sepulcri. Il borgo Sansepolcro, in Toscana, è la culla di Piero.

Il quadro per vari motivi è di una indubbia originalità, con l’interpretazione singolare ed eccentrica di un episodio biblico derivato dai Salmi e con la frattura, in due scene, separate da una colonna come una riga di divisione: una scena in primo piano, l’altra di sfondo, come si potrebbe fare in un fumetto. Il tutto in un’aura sospesa nell’immobilità e nel silenzio, come in un museo delle cere. L’opera è stata definita un “sogno matematico”, visto che le due rappresentazioni sono inscrivibili in un rettangolo i cui lati si relazionano fra loro secondo la formula proporzionale della sezione aurea, pari al numero 1,618 applicato in architettura sin dai tempi dell’antica Grecia, ma in una formula rilanciata nel Rinascimento: rapporti numerici, figure geometriche (recentemente Sandra Marraghini ne ha dato un’interpretazione in questo senso per giungere a conclusioni diverse dalla nostra), corrispondenze¸ parallelismi. Secondo i principi architettonici dell’amico Leon Battista Alberti.

In una ambientazione, riferita alla parte sinistra dove, se si fanno sparire gli attori, pare di entrare in un “sogno metafisico” alla De Chirico: una loggia, un soffitto a cassettoni, un pavimento di riquadri bianchi e neri, come nei templi oggi massonici, due porte una chiusa e l’altra aperta su una scala che non si sa dove comincia né tanto meno dove finisce, una statua, un nudo dorato, una sorta di manichino sopra una colonna.

Siamo in un periodo in cui la pittura sta vivendo uno splendore mai raggiunto, con una serie di protagonisti, che contribuiscono alla fortuna della Rinascenza italiana. Ora il quadro di Piero in questo contesto, sia pure rilevandone l’importanza rivoluzionaria, non è tale, dal punto di vista meramente artistico, da giustificare la fama che l’accompagna. Per cercare di comprenderla bisogna andare alle radici della creazione, che non possono essere solo quelle di un nobile contesto familiare quanto quelle di una simbologia legata ad un tragico evento passato ed ad una riabilitazione consegnata al presente e ad un futuro prossimo venturo. In un clima di assoluta solennità. In una ieratica sintesi politico-religiosa fra due fasi temporali antitetiche nel destino della religione cristiana. In una relazione strettissima fra le due rappresentazioni, in un “continuum” che consegna a tre personaggi in primo piano le possibilità del riscatto, dopo la disfatta rappresentata dalla sofferenza di Gesù. Dal supplizio all’“arrivano i nostri”.

Tante, come ricordato, sono state le interpretazioni dell’enigma di Piero, nessuna risolutiva. Non si può risolvere un enigma di questa portata, come accennato con una committenza privata che pretende di esserne anche protagonista. Siamo all’indomani della caduta della “seconda Roma”, Costantinopoli. L’orda turca, con in testa Maometto II, minaccia di arrivare nella Caput Mundi. La Cristianità è umiliata e ferita come il Cristo flagellato alla colonna sotto gli occhi di un Ponzio Pilato (Giovanni VIII Paleologo?) tranquillamente seduto in trono, rassegnato e indifferente, mentre di spalle incombe un uomo con il turbante: la minaccia che avanza sotto la mezzaluna. Pietro del borgo del Santo Sepolcro non può non pensare ad un Santo Sepolcro ora nelle mani dei musulmani. Ecco che la flagellazione, mentre altri grandi artisti si focalizzano sul Cristo in croce, acquista un senso, una sorta di umiliazione che si concentra nello scudiscio, che sta per offendere la carne del Cristo incatenato ad una colonna classica sulla cui sommità compare un mistero nel mistero: la statua di un uomo nudo, dorato, che nel braccio disteso ha la sfera del mondo nelle mani. La critica opta per una somiglianza con le statue di Costantino. Un riferimento al divulgatore, a colui che ha contribuito al successo della religione cristiana? Un riferimento al tempo anche dell’oro? Che il globo terraqueo da completare di lì a poco con Cristoforo Colombo potrebbe rinnovare? Con un Nuovo Mondo-cornucopia di cui nessuno parla, ma del quale sono parecchi ad averne la nozione. In attesa di un qualcuno che possa rivelarlo come inviato di una Chiesa, che mira alla riconquista di Gerusalemme, del Santo Sepolcro e alla evangelizzazione del globo intero? In un libro sulla storia della città di Todi, del canonico Pirro Alvi, si legge un passo sorprendente: “E qui è dovere parlare del celebre Cardinale Nicolò di Cusa, morto nella nostra città … attorno al suo letto erano il Toscanelli, il Bussi, il Martinez, testimoni nel suo testamento. Si ragionò di Colombo e della scoperta del nuovo mondo”. Sono tutti personaggi legati in qualche modo al navigatore. Siamo nel 1464, in un tempo coevo alla ideazione della “Flagellazione di Cristo”. Si parla di Colombo, più che di una persona come di un predestinato ad un progetto da perseguire. In linea con la tavola di Piero. Non a caso il navigatore parlerà sempre della riconquista della Terrasanta e del Santo Sepolcro.

Cristo mortificato si perde, sfuma nella prospettiva. Di lì a poco sul monte Golgota si esaurirà il supplizio e il sacrificio. Il passato appartiene al secondo piano, ad un tempo di sconfitta da cancellare per il cristianesimo. L’oggi si affaccia prepotente nel riquadro di destra fra edifici antichi e rinascimentali. Tre uomini, il numero perfetto per un Piero della Francesca imbevuto di platonismo, saltano in primo piano. Sono loro i prescelti chiamati a ridare smalto ad una Chiesa di Roma oltraggiata. Tante abbiamo detto le interpretazioni. Ne formuliamo una nuova. Chi è il personaggio di sinistra con la barba e che indossa una veste e i calzari del viaggiatore? Molti indicano il cardinale Bessarione venuto dalla Grecia con testi di un tempo lontano, comprese antiche carte geografiche. Del prelato si fece un altro ritratto, destinato ai personaggi della raccolta di Paolo Giovio, nella cui collezione è presente anche il ritratto di Colombo. Il cardinale preme per una crociata contro i Turchi, per la riconquista di Gerusalemme. Ancora una volta del Santo Sepolcro. E fin qui siamo ad un’identificazione che appartiene ad una critica tutto sommato concorde.

Ma veniamo agli altri due attori protagonisti. A destra un personaggio calvo, vestito di un prezioso abito orientale, un broccato azzurro e oro.  Può ricordare quello che poi diventerà papa Innocenzo VIII, Giovanni Battista Cybo, genovese. Di origine greca, da qui il gusto bizantino e l’amore per il broccato: “per undici “canne de brochato auri ricio” Innocenzo VIII pagò ad un mercante fiorentino altrettante centinaia di ducati d’oro.” Il pontefice sognava di essere il nuovo Costantino (!), come la statua sulla colonna del Cristo flagellato, aveva progettato di mettersi alla testa di una crociata ancora una volta per la riconquista della Terrasanta e del Santo Sepolcro. Forse il Santo Sepolcro è la chiave che apre lo scrigno dei misteri. Il futuro pontefice morì pochi giorni prima che il navigatore, di cui era stato lo “sponsor”, spiegasse le vele da Palos, apparentemente verso l’ignoto”, ma con le carte della biblioteca vaticana risalenti pare a quella di Alessandria, carte che indicavano perfettamente il nuovo continente da “scoprire” e le rotte per andare da casello a casello (vedere i nostri precedenti lavori e il sito www.ruggeromarino-cristoforocolombo.com.). E quale era il piano dichiarato di Cristoforo Colombo? La riconquista di Gerusalemme e del Santo Sepolcro.

Il successore di papa Cybo sarà Alessandro VI, Rodrigo Borgia, principe di veleni e di assassinii. Al suo insediamento trionfale sulla cattedra di Pietro seguirà in Roma una strage. E di qui la “damnatio memoriae” di Innocenzo VIII, che verrà cancellato con i suoi grandi meriti ignorati dai colombisti.

Rimane il vero protagonista al centro, vestito di rosso e a piedi nudi. Un’usanza quest’ultima monacale, in particolare dei Francescani. Gli altri sono visti di profilo lui è di fronte.  É forse lui, il giovane, la speranza, l’ideale, la sublimazione, l’allegoria di un venturo Colombo, terziario francescano ed espressione della colomba dello Spirito Santo? Un “atleta della virtù”, in una visione angelicata. Il rosso del vestito rimanda anche al rosso Adamo, l’uomo nuovo che dovrebbe nascere nel Nuovo Mondo. Un colore infine che simboleggia anche l’amore divino. Non a caso forse il suo braccio sinistro ha la stessa posizione di quello di Gesù alla colonna. È l’“alter Christus”? Una sorta di creazione, ancora in fieri, che dovrà adottare un nome d’arte perfetto “Christo Ferens”, portatore di Cristo? Come avverrà per Colombo, devoto di San Francesco di cui indosserà il saio (!), con l’approdo nel Mondo Nuovo” e la prevista evangelizzazione, con l’avvento nelle Americhe della colomba dello Spirito Santo. E come si firma il navigatore nel misterioso criptogramma di sette lettere che formano un triangolo come l’occhio di Dio.

Il predestinato è biondo, Colombo in gioventù era biondo, ma incanutirà presto. Lo scopo del suo viaggio prevede anche per lui il rientro trionfante a Gerusalemme e il ritorno in mani cristiane del Santo Sepolcro.  Con una eventuale crociata, di cui fa persino il numero di fanti e cavalieri, se una pace non fosse stata possibile. L’esercito dei crociati è identico nelle cifre a quello profetizzato da San Bernardo di Chiaravalle, il fondatore dei Templari. Al ritorno dalla spedizione il nuovo pontefice, il Borgia, accoglie Colombo con un “fili mi, nato facto” per una simile impresa. Nato fatto: programmato fin dalla nascita come un robot unto del Signore?

Gli altri due attori, che completano il quadro, si interfacciano e sembra che debbano interloquire, mentre lo sguardo celeste del giovane si perde verso un orizzonte lontano. Da notare che a incorniciare il volto dell’atleta di Cristo c’è sullo sfondo una pianta, un lauro. Nell’antichità greco-romana, l’alloro era sacro ad Apollo, era simbolo di sapienza e di gloria: di corone di alloro si cingeva la fronte dei poeti e dei vincitori. Superato il paganesimo arrivò a simboleggiare la resurrezione di Cristo, cioè di colui che ha vinto la morte con la sua ascesa in cielo. La croce sulle vele di Colombo è anche una croce di Resurrezione come in un altro quadro famoso di Piero della Francesca. Così come in un’altra opera, sempre di Piero, dedicata a Sigismondo Malatesta qualcuno vede addirittura la rappresentazione dell’America.

Dalla flagellazione alla resurrezione il quadro di Urbino taglia dunque il tempo in due fasi distinte, che però si coniugano perfettamente fra loro, unendosi in un’unica parabola. Come nella scritta oggi coperta da una striscia di nero: “convenerunt in unum”. Da una parte Bessarione in ricordo della chiesa greca, la Chiesa d’Oriente, dall’altra il futuro pontefice cattolico, Innocenzo VIII, oriundo greco, la chiesa d’Occidente, fronte a fronte per una riconciliazione. Mentre proprio al pontefice genovese riuscirà l’impresa, tentata, ma mai riuscita prima ai suoi predecessori, di riunire in un unico ordine gli ordini cavallereschi preposti alla crociata: “convenerunt in unum”. Come oggi curiosamente la scritta compare quasi identica sull’aquila del dollaro americano “e pluribus unum”. Come a dire che l’America del sogno americano riposa sul sogno di una conventicola di lontani e illuminati antenati. Ancora nel nome di Cristo?

Autore: Ruggero Marino

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