Donne
Quando mi dicono che ho scritto una pagina importante nella storia della cucina francese, sorrido. Parlare di scrittura nel mio caso è fuori luogo, dato che sono poco più che analfabeta. Sono nata a La Tranclière, nella Francia orientale, sul finire del secolo. In quel periodo non si dava troppa importanza all’istruzione, soprattutto delle bambine. La priorità per la mia famiglia non era certo la scuola, che frequentavo solo d’inverno, quando i campi riposavano e il lavoro dei contadini diminuiva. In autunno e primavera, invece, alla fattoria le attività riprendevano e io dovevo fare la mia parte, pulendo la casa e occupandomi degli animali.
Non appena potevo, aiutavo mia madre in cucina. Amavo starle accanto mentre impastava la farina. Era veloce e determinata, come una mitragliatrice. Il pane lievitava in modo perfetto e veniva tolto dal forno al momento giusto, inondando la casa di un intenso profumo. Quando ci potevamo permettere un po’ di zucchero, la mamma preparava dei biscotti. Appena sfornati, me ne faceva assaggiare uno per avere il mio parere: i denti frantumavano la superficie dura e affondavano nella morbidezza interna, dalla quale si sprigionava una fragranza speziata. Mi sono sempre chiesta come un amalgama così semplice potesse trasformarsi in un cibo tanto gustoso.
Osservavo le sue mani forti, che tagliavano il lardo in fette dello stesso spessore e poi lo adagiavano con delicatezza nella padella calda. “La temperatura non deve essere eccessiva.” – mi diceva – “Il grasso deve ammorbidirsi e poi sciogliersi lentamente, in modo che frigga solo la quota di carne. È il segreto per renderlo croccante.”.
In occasioni particolari, preparava la crema Chantilly. “Non devi permettere alla vaniglia di sopraffare il delicato gusto della panna.” – ammoniva – “Non dimenticarlo, altrimenti l’impasto risulterà stucchevole.”.
Di mia madre ricordo il delicato odore di sapone e il suo grembiule sempre fresco di bucato. “Chi ti guarda cucinare deve avere l’impressione di trovarsi di fronte a una persona pulita e ordinata,” – sentenziava – “niente macchie, ricordalo. Sarebbe come andare a sposarsi con un abito stropicciato.”.
Devo a lei tutto quello che so. Da lei ho imparato a rispettare l’essenza degli ingredienti, a fissare nella memoria, per ogni piatto, la successione delle attività, quasi fosse un cerimoniale. “Non ho tempo per preparare degli schemi. È tutto qui, nella mia testa.” – diceva.
Avevo solo dieci anni quando lasciò questo mondo. Dopo la sua morte la mia esistenza fu ancora più dura. Lavoravo tutto il giorno in casa e nelle stalle, ma non era mai abbastanza. A un certo punto mio padre decise di mandarmi a servizio in un’altra famiglia di contadini. Non gliene faccio una colpa: le cose stavano così a quel tempo. Il padrone della casa dove vivevo mi faceva sgobbare tutto il giorno. In cambio ricevevo, oltre a vitto e alloggio, un vestito e due paia di galosce ogni anno.
Il destino aveva in serbo per me altre prove. A diciannove anni scoprii di essere incinta. La cosa di per sé mi avrebbe resa felice, ma c’era un piccolo ostacolo: non ero sposata. L’uomo con cui uscivo non era certo un eroe. Quando gli comunicai tra le lacrime la notizia, lo vidi cambiare espressione. Nel suo sguardo la sorpresa si trasformò velocemente in sgomento e poi in rabbia. Si chiese come fosse successo, imprecò contro il destino avverso, dichiarò che eravamo troppo giovani e senza mezzi, strillò, bestemmiò. E infine, quando capì che non avevo intenzione di liberarmi del frutto del nostro amore, scappò a gambe levate. Così fanno spesso gli uomini.
A quel punto dovevo cercare un’occupazione che mi permettesse di mantenere il mio bambino. Decisi di trasferirmi a Lione per cercare fortuna ed evitare di buttare discredito sulla famiglia che mi ospitava e su quella di origine. Un figlio fuori dal matrimonio pare non sia una cosa di cui andare fieri. In mia assenza, le chiacchiere dei compaesani si esaurirono presto.
Trovai un lavoro presso casa Milliat come bambinaia e domestica. Si trattava di una grande famiglia di fornai e fabbricanti di pasta. Avevano un’ottima cuoca dalla quale appresi molti trucchi per deliziare il palato degli ospiti. Nell’estate del 1915 seguii le signore Milliat e i loro figli a Cannes. Mi proposero di occuparmi della cucina e io accettai di buon grado. L’offerta era gratificante, ma non avevo mai gestito una cucina in autonomia. Giurai a me stessa che non avrei tradito la fiducia dei miei padroni e mi buttai a capofitto nella nuova mansione. Non possedevo un libro di ricette, anche perché leggere mi costava molta fatica. La mia memoria però era eccezionale. Ricordavo ogni dettaglio di ogni pietanza che avevo visto preparare. In fondo creare piatti gustosi non è complicato. È sufficiente essere ben organizzati e avere il senso del gusto. Sono diventata una brava cuoca osservando, cucinando e talvolta sbagliando.
Va da sé che gli ingredienti devono essere di ottima qualità, altrimenti sarebbe come forgiare uno splendido gioiello nella latta anziché nell’oro.
Restai con i Milliat fino al termine della guerra. A quel punto mi sentivo pronta a fare il salto di qualità: aprire un locale tutto mio. La cucina doveva diventare la mia vita, ma ero consapevole che la strada sarebbe stata ancora lunga. Innanzitutto, avevo bisogno di una vera formazione. Trovai un impiego presso il noto ristorante “La Mère Fillioux”, che assumeva solo donne. Françoise Fillioux era una cuoca sopraffina, che mi insegnò non solo a cucinare, ma anche a gestire un locale. I suoi carciofi ripieni di foie gras hanno fatto storia.
Quando capii che non avevo più nulla da imparare da Françoise, passai alla Brasserie du Dragon, un rinomato ristorante gastronomico.
A ventisei anni realizzai il mio sogno. Rilevai un negozio di alimentari e lo chiamai “La mère Brazier”, nome con il quale volevo ricordare les Mères, la cui storia era molto simile alla mia. Si trattava di donne coraggiose che dalla fine del ‘700 avevano trasformato Lione e i suoi sobborghi nel centro gastronomico della Francia. Erano persone semplici, quasi prive di istruzione, che dopo aver lavorato come domestiche e cuoche avevano aperto un proprio bistrot, dove cucinavano piatti tradizionali e trattavano gli ospiti come fossero parte della famiglia. Niente cristalli o porcellane di Sevres, nessun cameriere in livrea, ma tovaglie candide e un dolce profumo di legna che ardeva nella stufa. Forse il segreto era proprio questo: atmosfera casalinga e cibo genuino.
Buttarsi nell’avventura di aprire un locale in proprio era un azzardo, ne ero consapevole. I debiti che avevo contratto non mi facevano dormire di notte. Stavo mettendo a rischio il mio futuro e quello di mio figlio, che aveva solo sette anni. Ma quando si ha un’aspirazione bisogna cercare di perseguirla, accettando i rischi e neutralizzando i dubbi. Così feci e alla fine vinsi sul destino avverso e sui limiti imposti da una società creata dagli uomini per gli uomini.
Furono anni di grandi successi. Ero considerata uno dei migliori chef francesi e gli affari andavano alla grande. Io però ero esausta: avevo bruciato le tappe e sgobbato come un mulo per troppo tempo. Così, alla fine degli anni ’20 mi presi una pausa, lasciando la gestione del ristorante a mio figlio Gaston. Mi rifugiai in uno chalet di montagna al Col de la Luère, non troppo lontano la Lione. Per un po’ fui felice di trovarmi immersa nella pace e nel silenzio. Facevo lunghe passeggiate nei prati, raccogliendo erbe aromatiche. Diedi anche vita a un piccolo giardino.
Dopo qualche mese però la noia iniziò a farsi sentire. Da sempre ero abituata a lavorare a ritmi serrati e l’inattività non era nelle mie corde. Piantavo i fiori, strappavo le erbacce, pulivo la casa, ma non era abbastanza. Al tramonto venivo sopraffatta da una sensazione di vuoto, come se la mia esistenza fosse inutile. Mi sentivo quasi in colpa per buttare via il tempo senza costruire nulla.
A volte qualche mio vecchio cliente, che passava per quelle contrade, veniva a farmi visita. Ero felice di accoglierlo, perché cominciavo a soffrire di solitudine. Tra una chiacchiera e l’altra, preparavo degli stuzzichini da gustare insieme a un buon bicchiere di Beaujolais. Un mio conoscente un giorno mi chiese perché non aprissi un bistrot in quella zona, una sorta di avamposto rustico del ristorante di Lione. Risi perché pensavo fosse una battuta, ma la notte non riuscii a chiudere occhio pensando a come sarebbe stato divertente dare vita a una sorta di baita delle delizie, immersa nel verde. Gli avventori avrebbero pranzato nel giardino in mezzo a gerani selvatici e ranuncoli. Dietro il ristorante avrei organizzato un orto con le piante aromatiche. Era solo un sogno, ma i sogni non dovrebbero mai essere accantonati. Avevo imparato che era meglio avere il rammarico per aver fatto qualcosa di sbagliato, piuttosto che il cruccio di non aver fatto nulla. Così il nuovo locale prese forma quasi per gioco. E fu subito un successo.
Tra il 1933 e il 1936 ricevetti sei stelle Michelin, tre per ogni ristorante. Non è da tutti, ma la paura di perderle mi rendeva nervosa. Negli anni in cui non mi venivano confermate mi sentivo una fallita, come se decine d’anni di duro lavoro venissero cancellate da un colpo di spugna. Pensai persino di mollare tutto. Non provavo rabbia per il mancato riconoscimento o acredine nei confronti dei giudici, questo no. Piuttosto ero rammaricata per non aver svolto un lavoro perfetto, per gli errori che avevo commesso, per il fatto che qualcun altro fosse stato più bravo di me. Le buone parole degli amici e i riscontri positivi dei clienti affezionati mi davano la forza di continuare.
Ai miei tavoli si sedettero celebrità come Rita Hayworth, Jacques Prévert, Marlene Dietrich e politici del calibro di Charles de Gaulle o del Primo Ministro Édouard Herriot, che adoravano le mie ricette semplici e gustose. Profumi e sapori li riportavano indietro nel tempo. Un serio burocrate una sera mi confessò che se chiudeva gli occhi gli sembrava di rivivere i pranzi della domenica con la famiglia intorno alla grande tavola imbandita. Altri, con le lacrime agli occhi, ricordavano i bonari rimproveri della mamma per le macchie di sugo sulla tovaglia di fiandra, altri ancora le grida dei bambini all’arrivo del croquembouche di Natale o le chiacchiere tra un brindisi e l’altro.
Sostengo da sempre che il buon cibo renda le persone più allegre e tolleranti. Se i grandi del mondo discutessero le sorti dell’umanità intorno a una grande tavolata di certo scoppierebbero meno guerre.
La mia fama è legata a piatti come la galette bressane, un dessert cotto lentamente al forno con zucchero caramellato sulla superficie, che va servito caldo e coperto da uno strato di crème fraîche. Un’altra ricetta che mi ha resa famosa è stato il poulet en demi deuil, dove facevo scivolare il burro mescolato al tartufo sotto la pelle del polletto. E cosa dire del graten di maccheroni, cucinato con crème fraîche e la gruviera? Fu proprio per rendere questo piatto un capolavoro che finii in prigione.
Venni arrestata nel dicembre del 1941, accidenti, proprio sotto Natale. Mi accusarono di aver fatto ricorso al mercato nero in modo eccessivo e sfrontato. “In particolare,” – disse il maresciallo con aria severa – “avete comprato scandalose quantità di crème fraîche e il gruyere. Il fatto che siate una cuoca sopraffina non vi consente di infrangere la legge in modo così spudorato. Mi capite, vero?”. Forse intendeva che se non avessi esagerato, i gendarmi avrebbero chiuso un occhio.
Fu grazie alle conoscenze coltivate nella sala del mio ristorante che me la cavai con cinque giorni di galera. Non so chi abbia messo una buona parola, ma so che davanti alle prelibatezze come i tomates farcies au maigre con acetosella e crème fraîche anche il cuore del giudice più intransigente si sarebbe liquefatto. E forse qualcuno temeva che, mettendomi dietro le sbarre per tutto il tempo previsto dal rigido codice di norme, i miei piatti avrebbero perso quel tocco speciale che soltanto io sapevo dare. Ormai ero diventata una irrinunciabile istituzione.
Mi proposero persino per la Legion d’Onore, la più ambita onorificenza francese, ma io decisamente rifiutai. Cosa avevo mai fatto per meritarmi un simile premio? Per tutta la mia esistenza ho solo cercato di adempiere ai miei doveri di cittadina, lavorando con serietà e impegno. Niente di più. Non ho salvato vite umane, né scoperto nuovi mondi. In fondo cucinare mi piaceva, anzi mi piace ancora, e se mi sono sacrificata, be’, come dire, l’ho fatto solo per me e per mio figlio, a cui oggi, passo il testimone.
Compio settantadue anni ed è ora che mi faccia da parte. Sono stata una madre affettuosa e, forse, un po’ ingombrante. È tempo che tiri i remi in barca e mi metta a riposo. Siamo nel ’68 e molte cose stanno cambiando: si criticano la borghesia e le guerre, si parla di libertà e di uguaglianza sociale. Non sono cose nuove, i francesi ne avevano già fatto una bandiera durante la rivoluzione. Quanto al femminismo, io l’ho messo in pratica senza discuterne i contenuti. Ho semplicemente seguito l’istinto e lottato per imporre le mie idee in un mondo di maschi poco disposti a farsi soverchiare da una donna. E ho vinto. À votre santé!
Autore: Virginia Coral
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