Parte 1a di 2
La storia dell’avvelenatrice, maga e cartomante Catherine Deshayes, che visse durante il regno di Luigi XIV e che fu protagonista di diversi intrighi di corte
Sono sua figlia. Forse avrei dovuto fare di più per rispettarne la memoria, ma ho avuto paura. Gli inquisitori hanno una mente scaltra, che registra ogni parola e ne manipola i significati. Ho dovuto fare molta attenzione rispondendo alle loro incalzanti domande. Non potevo mostrarmi reticente celando aspetti che avevano già intuito. Ho vuotato il sacco, liberandomi di tutti gli scabrosi segreti che mia madre mi aveva confidato prima di morire. Non so se fosse un tentativo di riabilitare la sua anima nera, attribuendo parte della responsabilità agli illustri mandanti, ma so per certo che volevo salvarmi. La vita di mia madre si era già conclusa sul rogo. A cosa sarebbe servito seguirla sul patibolo? Neanche lei lo avrebbe voluto. Però nel mio cuore è scesa un’ombra, un flebile senso di inadeguatezza che disturba il sonno. Mi ripeto che la sua condotta scriteriata ha messo a rischio tutta la famiglia, oscurando per sempre la nostra reputazione nel giudizio degli altri. Avrebbe dovuto stare più accorta, evitando di farsi coinvolgere in faccende sporche e di frequentare persone orribili. La perseveranza nel peccare l’ha perduta. Poi mi dico che era la mia mamma e forse avrei dovuto seppellire con le sue ceneri anche i delitti più scellerati.
All’inizio della storia si limitava a fare del bene, ad aiutare poveri cristi in difficoltà. Sì, è vero, provocava aborti, ma solo per alleviare la disperazione di donne che non sapevano come sfamare l’ennesimo figlio, oppure perché l’abbozzo di vita che si stava attaccando al loro ventre era il frutto del peccato o di uno stupro. Allora, mia madre era timorata di Dio. Cercava di alleviare sofferenze e dispiaceri, senza chiedere nulla in cambio. Io la ammiravo e dicevo a tutti che da grande avrei voluto diventare una maga come lei. Le attribuivo doti sovrannaturali e nella mia ingenuità di bambina pensavo fosse un angelo sceso nel nostro paese per scacciare le nefandezze del demonio.
Furono anni felici fino a quando gli affari di mio padre cominciarono ad andare male. Anziché tirarsi su le maniche e cercare un’alternativa, lui si attaccò alla bottiglia. Mia madre a quel tempo faceva la merciaia, ma l’attività non dava abbastanza introiti per mettere in tavola pranzo e cena.
Conosceva le erbe e sapeva come combinarle per calmare la tosse o lenire i dolori articolari. Decise che valeva la pena di sfruttare queste competenze per poter mettere in tavola un piatto caldo ogni sera. Al tramonto, alla luce fioca di una candela, studiava le piante e i minerali, imparando ad utilizzare le loro proprietà terapeutiche, ma scoprendo anche le loro virtù malefiche. La vendita di unguenti e cataplasmi non fruttava abbastanza, così cominciò a mettere in giro la voce sulle sue presunte doti divinatorie. Asseriva di essere in grado di leggere il futuro nei tarocchi e di predire eventi lieti o catastrofici seguendo le linee dalla mano. Investì i pochi soldi che erano rimasti dopo il fallimento di mio padre per ammobiliare un locale dove accogliere i clienti. Lo arredò con vecchi sofà rossi, tappeti lisi a coprire il pavimento sgangherato e un tavolino traballante. Coprì le finestre con tendoni pesanti, in modo che la stanza fosse sempre in penombra. L’antro oscuro, lo chiamava.
“Guardatevi bene dal varcare quella soglia.” – ordinò un giorno a noi bambini – “potreste fare brutti incontri: le anime inquiete cercano corpi giovani nei quali introdursi.”.
“Chi sono le anime inquiete?” – le chiesi curiosa.
“Anime nere di assassini giustiziati, oppure madri crudeli che hanno ucciso i loro marmocchi, o macellai che invece dei maiali hanno fatto a pezzi la loro moglie. Farebbero di tutto per tornare su questa terra impossessandosi delle vostre carni e mischiando il loro putridi fluidi al vostro sangue. È questo che volete?”.
“No, mamma, no.” – gridammo terrorizzati.
“Bene, allora non superate mai la porta dell’antro oscuro.”.
Bruciava incenso e disseminava in tutta la casa ciotole colme di spezie profumate. Per dare un tocco di mistero, iniziò a indossare vestiti di seta a colori sgargianti e a coprirsi il capo con larghe fasce intonate agli abiti, dalle quali spuntavano riccioli scuri. Molti pensavano che fosse vissuta in paesi esotici, dove gli stregoni le avevano svelato formule magiche e oracolari.
Sapeva parlare, mia madre. Guardava i malcapitati dritto negli occhi, come se al posto delle pupille avesse delle lame e quando li aveva in pugno, snocciolava le sue profezie. I malcapitati erano affascinati e intimoriti.
La sua clientela era molto eterogenea: semplici ragazze desiderose di sapere se si sarebbero mai sposate, nobildonne bramose di scoprire quanti anni sarebbe vissuto il coniuge vecchio e malato, concubine che nutrivano il sogno di trovare il grande amore, vedovi che volevano ingravidare una nuova compagna. Alla fine della seduta, tutti venivano salutati con una risposta ai loro quesiti, una parola di speranza e la richiesta di un congruo pagamento. Molti tornavano. Tutti la conoscevano come la Voisin.
La mamma ci prese gusto. Come si dice, l’appetito vien mangiando. Non si contentava più di farsi pagare profumatamente le sedute di chiromanzia, no, lei voleva guadagnare molto denaro e in fretta. Così aggiunse alle prestazioni, la vendita di amuleti e la preparazione di pozioni magiche e taumaturgiche. Era diventata tanto famosa da attirare l’attenzione delle autorità religiose. Correva l’anno 1665 quando il suo operato di chiromante venne per la prima volta messo in discussione ufficialmente dalla Chiesa. Ci fu una sorta di processo, nel quale riuscì a difendersi abilmente. Quella volta la fece franca, ma da quel momento venne tenuta costantemente sotto stretta vigilanza dagli ecclesiastici e dalla gendarmeria.
Forte della vittoria, iniziò a preparare afrodisiaci e filtri d’amore con cui gabbava gli sprovveduti vittime di amori non corrisposti. La sua ambizione non aveva fine. Sembrava travolta da una incessante bufera, che le oscurava la vista, mostrandole un futuro luccicante e celandole i pericoli di cui era disseminato il sentiero. Tutti noi cercavamo di metterla in guardia, ma la frenesia del successo vinceva sulla razionalità. Ho visto molte persone finire nella polvere dopo essere diventate preda dell’ingannevole esaltazione dei primi trionfi. Esiste un confine invisibile oltre il quale scatta la trappola e la febbre della vittoria e del riconoscimento prendono il sopravvento sul buon senso. E quella frontiera mia madre l’aveva superata senza guardarsi indietro.
Sorda a ogni consiglio, iniziò a studiare i veleni e a somministrarli. Aiutava i clienti a sbarazzarsi di scomodi rivali negli affari o in amore. Non era l’unica. In quel periodo, saper gestire sostanze letali era diventata una sorta di arte, diffusa e rispettata.
“C’è tanta concorrenza,” – diceva con protervia – “ma io sono la più abile. Grazie ai miei trattamenti, i malcapitati vanno incontro alla morte senza soffrire. Li conduco in uno stato di languido torpore, in cui prendono corpo le loro fantasie più dolci. Si ritrovano in un mondo fatato, ebbri e inconsapevoli. Chissà, forse saranno sorpresi quando San Pietro li accoglierà alla porta del Paradiso e si chiederanno cosa sia loro successo.”.
Mio padre cercava di farla ragionare, accusandola di essere un’assassina.
“Finirai sulla forca come una volgare malvivente. Stai rischiando la tua vita e la nostra. Pensa ai tuoi figli e alla vergogna che proverebbero se tu fossi giustiziata.”.
No, la mia mamma pensava solo al suo successo. Il significato di morale e giustizia, così solido all’inizio, si era sfaldato, lasciando il posto a concetti come la convenienza, l’opportunità e la fama. La sua anima sembrava un antico merletto logoro, insidiato dal tempo e dalla sporcizia.
Aveva diversi amanti. Gente strana, che camminava sul ciglio del baratro, indecisa se fare un salto nelle nere profondità dell’inferno o salvarsi l’anima. Giravano per casa maghi, alchimisti, aristocratici depravati e persino un boia, con cui mia madre si appartava spesso. Diceva che era un uomo forte e determinato, il più focoso che avesse mai incontrato. Mio padre la lasciava libera di frequentare chi voleva, perché era terrorizzato: temeva che se avesse rivendicato i suoi diritti di marito uno di quei loschi figuri lo avrebbe fatto a pezzi.
Una mattina all’alba davanti alla nostra porta si fermò una carrozza lussuosa, coperta di stucchi dorati. Una mano ingioiellata scostò la tenda di seta pesante che copriva il finestrino. All’interno si intravvedeva la ricca tappezzeria a motivi floreali. Dominava il bordeaux, sul quale risaltavano losanghe pervinca.
Fine parte 1 di 2. La seconda parte prosegue qui: Veleno – parte seconda
Autore: Virginia Coral
0 commenti