Bene, l’avevo pur detto che non vi è alcuna ragione perché io racconti questo. O almeno io non ne intravedo nessuna. Si narra, si racconta, ma poi ci si accorge che raccontare è come passeggiare, errare, vagabondare. Raccontando esco e non vado da nessuna parte, vado e basta. Ci si accorge che la cosa meno necessaria al racconto è quella che stai raccontando. Così come la ragione meno necessaria ad una passeggiata è la piazza del paese o qualunque svolta della strada cui tu sia orientato. Si inizia col raccontare qualcosa, poi ci si accorge che non era per niente indispensabile narrare ‘quella’ cosa, che se ne poteva benissimo raccontare un’altra. Così il primo oggetto del tuo racconto può essere tradito, senza alcun senso di colpa, sopravanzato da altri oggetti, a loro volta destinati a essere traditi, perché non indispensabili. E se l’oggetto del raccontare è la tua stessa vita, prima o poi sarà quella vita, semplice e angusta, ad essere scavalcata e tradita, sostituita da altre vite, che sono comunque le tue, perché ‘potevano’ essere le tue. Se precedi la tua eventuale esistenza, e la racconti, tu la tradisci, la traduci e la tradisci, perché essa è troppo povera, troppo unica, troppo reale, ora, per poter soddisfare la tua libertà di raccontarla.
Che ti importa della tua vita, che si incanala così spesso in un binario unico e spesso morto? Essa è fatta per essere bruciata come combustibile, o ancor meglio come quella prima effimera carbonella necessaria ad accendere i camini. Poi il fuoco che arderà sarà fatto di ben altro, ceppi di legna sporca e dura, ma destinata a durare. Non basterebbe una vita a far durare un’ora della fiamma del tuo camino, come due fogli di carta del tuo racconto. Ci vuole ben altro. Ce ne vogliono ben altre. Vere e false.
Io quell’estate ero davvero in preda agli astratti furori della miseria, ma non andò proprio così come ho raccontato. ‘Poteva’ andare così e in effetti, da qualche parte e non solo sulla pagina, tutto ciò è avvenuto. Non parlo di vita, ma di ben altro, e di più. Quando il lavavetri vestito da benzinaio si avvicinò alla mia automobile per riscuotere l’elemosina, io ero illanguidito da mezzo litro di Tavernello bianco e dalla breve pennichella, nonostante il caffè macchiato. Mi trovavo in una situazione di rassegnata pace con il mondo, per così dire, quando la stessa mancanza di centesimi nelle tasche ti fa ringraziare il Padre Eterno, che esista o meno, per ciò che comunque ti viene offerto da sempre, le nuvole gratuite del cielo come lo zucchero raffinato nell’espresso. In quella condizione di francescana e un po’ alticcia letizia, avrei diviso il mio posto al self service dell’autogrill, se avessi potuto permettermelo, col barbone più maleodorante, e il mio eventuale mantello di S. Martino col più arrogante dei pezzenti. Mi accingevo a ripartire con questa sorta di ebbra quiete nell’anima, rammaricato solo dalla impossibilità di offrire almeno cinquanta centesimi a quell’improbabile lavavetri, che pure aveva svolto il suo onesto, anche se non troppo pulito, lavoro. E quanto più nitidi vedevo i contorni delle nuvole, attraverso il parabrezza terso e brillante come mai da mesi era stato, tanto più accentuato era il dispiacere di deludere l’uomo e fare la figura del vacanziere ridotto a non molta distanza dalla canna del gas.
Insomma ero rientrato nella mia vettura, dopo il caffè, in condizione di particolare vulnerabilità. Se il lavavetri mi avesse chiesto l’orologio, acquistato otto anni prima a un mercato rionale, avrei faticato in quel momento a non sfilarmelo dal polso e ficcarglielo nel taschino della tuta. Se mi avesse ringraziato ugualmente, dopo aver constatato la mia impossibilità di ricompensarlo, dicendomi ‘Non importa, signore, buon viaggio a lei e buone vacanze’, me ne sarei ripartito frizzante, oltre che commosso, come un turista in crociera. Tutto avrei tollerato, in quella mia situazione di miseria monacale e di fresca disponibilità al mondo, malgrado tutto, tranne che parole crude.
Allora successe quello che accade rare volte nella vita, ma che può finire con l’imprimersi nella memoria con una chiarezza abbagliante, indelebile: rallentò il tempo e l’intera scena che seguì si svolse sotto i miei occhi a un ritmo lentissimo, diluita in una durata infinita. Dapprima furono le parole del lavavetri a tuonare lente e quasi solenni nel mio cervello, come provenissero da una spelonca piena d’acqua.
“Non tenete sordi?… E allora iettateve a ‘mmare.”
Io ero, in quel momento, docile e passivo come un bambino che ascolta la voce di un adulto, un padre di cui si fida, o persino un oracolo, qualcuno insomma che gli possa rivelare di colpo, con una sola frase, chi egli sia e che cosa debba fare del proprio futuro in bolletta, della prosapia stessa esistenza. Ero cera morbida, umida, malleabile, nella quale qualsiasi parola avrebbe inciso se stessa, irreparabilmente, come un augurio finale, un sigillo o una epigrafe. Avevo proprio bisogno di un buon viatico per queste ferie da nullatenente che mi aspettavano, vacanze da frate cenobita o da barbone, di chi comunque ha toccato il fondo ed è preparato ormai alla più monastica dieta quotidiana, fatta magari di latte, uova e patate.
Poi fui spettatore attonito e incredulo della pantomima silenziosa del lavavetri, che mi illustrava con sadica efficacia, nello stile burlesco di un Pulcinella scatenato, il gesto preciso che io avrei dovuto compiere per gettarmi in mare. E mi ritrovai a fissare il movimento di quelle mani unite nella posizione del tuffatore e della gran testa allungata sul collo taurino, con la stessa attenzione con cui avrei seguito in aereo il mimo una hostess per il salvataggio in caso di emergenza. Avrei dovuto proprio fare così, diceva il lavavetri. Il consiglio era paterno, autorevole, persuasivo, e in fondo sincero. Lui aveva l’aspetto di chi conosce persone. Quante ne aveva viste nella sua vita! A quante aveva lavato o parabrezza delle macchine! Poteva essere mio padre, in quel momento ‘era’ proprio mio padre, ma la sua esperienza di persone era doppia della mia, non solo in quantità, ma anche perché appresa dalla strada, fosse pure un’autostrada, e non dai libri. In virtù di quella esperienza, lui aveva un fiuto naturale per chi era destinato dalla vita ad andare avanti e chi invece faceva meglio a nascondersi, a togliere il disturbo a questo già troppo affollato mondo. Riusciva a identificare a naso chi proprio non era adatto a questa società difficile, a questa umanità di lupi famelici, a questo pianeta destinato agli sveglii, agli scaltri, e a chi poteva permettersi una mancia al giorno. E gettarmi in mare, come lui mi suggeriva, era solo uno dei più immediati ed economici modi che avevo a disposizione per risolvere ogni problema. Non era solo un consiglio, il suo, era una esortazione calorosa e franca, che possedeva in quell’istante per me la forza perentoria dell’esperienza, della ragione, della legge naturale.
Pensai tutto questo mentre assistevo impotente alla rappresentazione gestuale del tuffo, che accompagnava le parole ‘Iettateve a ‘mmare’. La scena mimata mi appariva staccata dalle parole, come la sequenza di un film muto, persino capace di riprodursi due, tre volte, davanti a i miei occhi sbarrati. In una assurda sospensione ipnotica del tempo, rimanevo a guardare, prigioniero di una farsa, come un ostaggio intrappolato nell’abitacolo della propria macchina.
Quando l’uomo ebbe terminato la sua esibizione e si voltò un momento a studiare la mia reazione con due occhi da geco, piccoli e verdi, io con un moto quasi involontario del capo annuii e gli feci ‘sì’, che aveva ragione, perfettamente ragione. Mi parve che quel suo sguardo, pur durando un un attimo, non intendesse staccarsi dal mio fino a che non si fosse assicurato che il messaggio fosse pervenuto, iniettando fino in fondo la sua carica di disprezzo.
Ora, il messaggio non solo mi aveva raggiunto, ma era penetrato nella debole polpa del mio cervello con la forza di un cuneo d’acciaio, portandosi dietro una overdose di veleno che in quel momento avvertivo paradossalmente come un farmaco, amaro ma necessario. Continuai ad annuire vagamente col capo, con tanta acquiescenza che prima di stornare lo sguardo il lavavetri batté due volte le ciglia, come se non capisse. Mi dispiaceva, comunque, che egli potesse leggere nel mio assenso un filo di ironia. Non era nelle mie intenzioni, ma così rischiava di apparire -vedevo- se adesso le sopracciglia dell’uomo si contraevano e le pieghe ai lati della bocca gli scavavano più nettamente il viso. Allora io feci quello che mai lui si sarebbe aspettato, lì immobile e irsuto, col secchio in mano: gli sorrisi.
Fu un sorriso triste, certo, la smorfia rassegnata di un condannato a morte che accettava la sua pena. Ma come potevo mostrare a quell’uomo, piombato così fatalmente nella mia vita, che aderivo perfettamente al suo parere, obbedivo alla sua sentenza, e non meritavo altro, avendo toccato il fondo dei miei denari e l’ipogeo più basso della mia stessa vita?
Il lavavetri mi voltò le spalle, abbandonandomi al mio destino. Io rimisi in moto. La macchina si accese al primo giro di chiave e sussultò allegramente, dopo il riposino al motore che la mia sosta al bar le aveva concesso. Feci retromarcia senza fretta e superai le pompe della benzina. Mi immisi facilmente nell’autostrada, in quel momento percorsa quasi esclusivamente da camion e autoarticolati. Ne superai una dozzina senza nemmeno forzare il motore e mi accorsi che la Panda viaggiava con una scioltezza insolita, sfiorando i centodieci chilometri orari anche sulle curve in leggera salite. Evidentemente pure lei, pensavo, vibrava della mia stessa euforia e del desiderio di obbedire a quella sentenza che il destino aveva voluto stampare sulla bocca del falso benzinaio. ‘Iettateve a ‘mmare’.
Nel mare, già. Mancavano ottanta chilometri all’uscita sul più vicino paese tirrenico. Lo conoscevo. Molto più vicino della baia dove si trovava il mio isolato rudere di vacanza c’era questo paesucolo pittoresco e panoramico, con una splendida strada scavata dentro la fiancata di granito di una montagna. Vi erano belvedere a distanze irregolari, lungo la strada, che spesso si riempivano di macchine di turisti sedotti dal paesaggio. Il mare azzurro e profondo schiumeggiava sulle rocce a decine di metri sotto la strada e poi si allargava a strisce di colore sempre più blu fino alla curvatura lontanissima dell’orizzonte.
Non era soltanto una questione di soldi e conti in rosso, né della mortificazione subita per non essere stato capace di offrire venti centesimi ad un accattone. In realtà era la mia vita ad esibire oramai un vuoto più desolato di quello delle mie tasche rovesciate. Mi trovavo al grado zero di ogni raccolto, per non essere io mai stato capace di coltivare. E quando avevo provato a seminare, avevo fatto esattamente come con i soldi: avevo sparso qua e là i miei semi nei terreni più aridi e sbagliati, a vanvera. La miseria era la stessa in ogni tipo di bilancio. Non mi ero mosso dal punto di partenza e tutto ciò che avevo tentato di costruire o di realizzare, mi era ricaduto addosso sotto forma di cocci e frantumi.
Ero, per giunta, sempre stato incapace di ricevere. E per questo non potevo dare. Non potevo dare niente, né soldi né affetti. Anche il sorriso concesso all’uomo dell’autostrada era un falso investimento, gratuito e sprecato, un vuoto a perdere giustamente ignorato. Così avevo fatto durante l’intera mia vita, avevo recepito quello che gli altri non mi avevano dato, e avevo dato agli altri quello che non potevano recepire. Alla fine, più che di una bancarotta, si era trattato di un’eterna falsa partenza. E il mio conto corrente era solo il sigillo numerico di un naufragio più grande.
Impiegai un’ora e mezzo per raggiungere Vietri. Al casello rovesciai nella cassetta l’intero mucchio di monete rimaste. Me ne tornarono indietro due pezzi da cinquanta, più qualche centesimo. Non mi sarebbero serviti più a niente. Li avrei portati con me nel fondo del mare, anche se era più di quanto sarebbe bastato per evitare la sentenza del lavavetri. Ma ormai ciò non contava, era tardi. Avevo un appuntamento sullo spettacolare belvedere di Vietri e non sarei mancato.
Percorsi una serie di tornanti in discesa. Già lo sguardo spaziava su una distesa di mare limpidissima, appena velata all’orizzonte da una striscia di foschia. Vele bianche punteggiavano la superficie delle acque, lasciando piccole scie ammiccanti sotto il sole. Superai il primo belvedere, occupato quasi interamente da un camper. Il secondo era protetto, dalla parte della scarpata, da un muricciolo di cemento che difficilmente la mia macchina avrebbe potuto sfondare. Mi sembrava di ricordare, più avanti, un bel terrazzino panoramico in cui il guardrail si allungava oltre la carreggiata per coprire un tratto che il muricciolo non riusciva a chiudere, un punto pericoloso lasciato così probabilmente per incuria. Lo ritrovai, ma anch’esso era occupato da una vettura di grossa cilindrata. Tuttavia accostai lo stesso sulla piazzola affiancando la BMW già ferma, con le portiere aperte. Il lato del guardrail situato al posto del muro era proprio davanti alla BMW e avrei dovuto aspettare che la coppia di giovani appoggiati sul suo cofano se ne andasse.
I due stavano probabilmente litigando, poco attenti al panorama, perché la donna parlava a voce alta e frugava con la mano nervosamente dentro una borsetta. Era incinta, come mi accorsi dopo, e rimproverava l’uomo di non aver fermato prima la macchina per i conati di vomito che la assalivano.
Quando se ne andarono, sbattendo le portiere fragorosamente, non si udiva più che il frinio delle cicale. Io riaccesi il motore, feci retromarcia e guadagnai quanta più distanza possibile dal tratto di guardrail, invadendo anche un pezzo di carreggiata. Poi innestai la marcia e partii. Il muso della Panda, al potente urto contro il guardrail, mi venne appena deviato, in uno schianto di lamiere e di vetri infranti. La macchina si sollevò, come lanciata da un trampolino, e continuò la sua corsa nel vuoto, puntando ancora verso l’alto. Sotto di me le ginestre macchiavano di giallo il pietrisco della scarpata, mentre le grotte sulla costa, in fondo, ribollivano di schiuma bianca fra roccia e mare. Ciò che temevo era schiantarmi sulle grandi pietre degli scogli, ancor prima di finire in mare. Ma già vedevo sotto di me che il confine roccioso della scarpata era stata superato e che solo qualche peschereccio ormai avrebbe potuto impedirmi di affondare placidamente nelle acque.
Mentre cominciavo a perdere quota e precipitare, mi sfiorò il dubbio se fossi ancora in tempo per aprire lo sportello nel vento e balzare, con un tuffo simile a quello simulato dal lavavetri, fuori dalla scatola di morte della mia vettura.
Tutto troppo facile, anche se mi fossi gettato in mare dentro un sogno. Ancora più facile, fino alla gratuità più infantile e alla malafede più fraudolenta, se mi stessi ora catapultando, come su un tappeto volante, sulla pagina di un racconto, per giunta più lontano dalla vita di quanto lo fosse il fondo del mare che mi aspettava.
Del resto non c’era nulla da trovare nei fondali del mare, così come nella morte. Ero dentro la scrittura, ma certo. E potevo uscire, aprendo lo sportello e lasciandomi andare, soffice come una piuma, anche senza paracadute.
Come ora esco, più vigliacco che mai, su questa rete di salvataggio, prima di finire in pasto ai pesci.
“Il racconto prosegue con la quarta ed ultima parte qui”
Autore: Roberto Caracci
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