(Parte seconda)
Tutto il nostro discorso sulla cultura dell’età democratica era partito dal tema dell’esigenza di una “paideia”, di un’educazione. Ebbene, proprio qui sta un’altra grande differenza tra Socrate e i sofisti. Intanto i sofisti concepiscono quello dell’educatore come un mestiere, ed infatti richiedono lauti compensi per le loro prestazioni. Socrate invece lo concepisce come una missione etica e pertanto non si fa pagare. Ma soprattutto i sofisti si presumono “sapienti”, mentre Socrate è solito affermare “Io so di non sapere”. Se poi quella socratica sia una vera e propria convinzione, oppure una condizione assunta come ipotesi di lavoro e di ricerca, sarebbe un interessante e complesso argomento di studio.
Per di più i sofisti affermano di essere in grado di “trasferire” il proprio sapere nei loro discepoli, mentre Socrate, sulla base del presupposto di non possedere un proprio patrimonio culturale da trasmettere ad altri, ritiene che il compito dell’educatore sia piuttosto simile a quella di un’ostetrica.
L’ostetrica, argomenta Socrate, non ha un figlio proprio da consegnare alla partoriente: l’aiuta invece a dare alla luce il suo. Esattamente questa è l’arte che egli dichiara di aver appreso dalla madre (Fenarete), come dal padre scultore (Sofronisco) l’arte di liberare la statua dal blocco di marmo che la imprigiona (ricordiamo per inciso che sarà Michelangelo Buonarroti a riprendere questa immagine nell’illustrare la propria estetica). Secondo la concezione pedagogica socratica l’educatore ha il preciso compito di aiutare la mente o l’anima (il termine greco psyché ha entrambi i significati) del discepolo appunto a ”partorire”, a dare alla luce ciò di cui è già gravida, ciò che già reca dentro di sé, magari inconsapevolmente.
Il metodo d’insegnamento socratico, o “arte maieutica”, è magistralmente descritto da Platone in parecchi dei suoi “Dialoghi” (ricordiamo tra gli altri il Menone) e si compone di due fasi: la prima distruttiva e la seconda costruttiva.
La pars destruens è volta appunto, come dice l’espressione, a dissolvere le false certezze dell’interlocutore. Ciò si rende necessario in quanto Socrate ritiene che solo chi riconosce la propria ignoranza è motivato a ricercare il sapere, e non certo chi presume di possederlo già.
Gli strumenti di cui egli si vale in questa fase sono: la brachilogia, l’ironia e la confutazione.
La brachilogia (”breve discorso”) è costituita da brevi domande con le quali egli “martella” insistentemente l’interlocutore, come: “Che cos’è?” (gr. “Tì estì?”). Per esempio: “Che cos’è la virtù?”, “Che cos’è la giustizia?”, “Che cos’è il coraggio?”.
Di solito l’interlocutore presume inizialmente di saper rispondere con irrisoria facilità a tali domande; allora il protagonista lo elogia (e qui subentra la celebre ironia socratica) invitandolo a rendere sempre più ricche e circostanziate le sue risposte e inducendolo così a scoprirsi, a “mettere a nudo” la propria anima. Ma ecco che, incalzato dal “tì estì” socratico, ben presto l’interlocutore si smarrisce ed in lui subentrano il dubbio e la confusione.
Va osservato come Socrate non confuti direttamente l’interlocutore. Da quel fine psicologo che è egli si rende perfettamente conto che così otterrebbe solo di far irrigidire sempre più l’altro sulle sue posizioni. Egli fa piuttosto in modo che insensibilmente sia l’interlocutore stesso a cadere dapprima in incongruenze e contraddizioni e poi in dubbi e confusione veri e propri. E così opera la confutazione nel modo più efficace.
A questo punto e solo a questo punto l’altro, una volta resosi conto da sé dell’inadeguatezza delle proprie risposte e riconosciuta pertanto la propria ignoranza, è pronto ad intraprendere la strada della ricerca del vero.
Qui entra in gioco la maieutica vera e propria, che è il fulcro della pars construens del metodo socratico. Con essa il maestro guida l’allievo nel ricercare e trovare da sé e dentro di sé le risposte più corrette agli interrogativi posti evitando di fornirgli dall’esterno soluzioni prestabilite.
Così Socrate con la pars destruens insegna il “sapere di non sapere” e con la pars construens in modo complementare evidenzia il nostro “non sapere di sapere”, cioè l’ignoranza delle nostre potenzialità conoscitive e la necessità di portarle alla luce.
Dai già citati dialoghi di Platone apprendiamo come Socrate fosse solito porre in atto i procedimenti che abbiamo descritto nel corso delle sue lezioni, che poi erano pubbliche discussioni ambientate in piazze o ginnasi di Atene. Sovente gli interlocutori erano personaggi in vista nella vita della città.
È chiaro come non tutti accettassero di buon grado di essere smentiti clamorosamente e pubblicamente nelle loro pretese di possesso già acquisito della saggezza e della sapienza ed è altrettanto chiaro come ciò abbia procurato a Socrate un gran numero di nemici proprio tra i personaggi più influenti. Ma per capire come e perché si sia giunti al suo processo e addirittura alla sua condanna a morte è necessario rivolgere lo sguardo alle vicende storico-politiche che coinvolgono Atene e la Grecia a partire dalla fine del quinto secolo.
Sul finire del quinto secolo Atene viene sconfitta da Sparta al termine della logorante, trentennale guerra del Peloponneso. Nel 404 a.C. La città nemica le impone dure condizioni, tra cui l’abbattimento delle mura e l’instaurazione del governo oligarchico dei trenta tiranni. Tale governo dura meno di un anno. Un’insurrezione democratica lo rovescia nel 403 a.C. e ristabilisce la democrazia. Ma non si tratta più della stessa democrazia di prima. È un regime indebolito dai lunghi anni di guerra e minato da sospetti, da odi e da faide.
Ora, proprio l’esponente più in vista dei “trenta”, Crizia, è stato discepolo di Socrate, che tuttavia ha sempre rifiutato di impegnarsi di persona in politica, e questo contatto fa ingiustamente cadere anche il maestro nella rete dei sospetti. Per di più Socrate ha una concezione della democrazia diversa da quella, sostenuta da molti, per la quale tutti i cittadini possono accedere alle cariche politiche per semplice estrazione a sorte. Secondo lui invece alle cariche di governo e della magistratura deve essere eletto (e non estratto a sorte) chi possiede adeguate virtù civili e soprattutto morali. La sua è una democrazia del merito e non del caso, una democrazia della qualità e non della quantità.
Questo complesso di motivi e di circostanze lo rende inviso ai più faziosi ed intolleranti tra i “democratici” ed è la causa più profonda ed autentica del processo intentato contro di lui, al di là delle accuse formali e pretestuose, come quelle di corrompere i giovani, di non riconoscere le divinità tradizionali della città e di volerne introdurre delle nuove. Non a caso dietro l’accusatore ufficiale, il mediocre poeta Meleto, vi sono in realtà personaggi ben più influenti, come il politico Anito.
Com’è noto, per tutta la durata del processo e oltre, Socrate si mostra convinto della propria totale innocenza e mantiene un atteggiamento intransigente, alieno da ogni compromesso o patteggiamento.
Va osservato come l’iniqua condanna a morte (eseguita nel 399 a.C.) di un uomo giusto quale Socrate rappresenti nel panorama storico-politico greco un significativo campanello d’allarme sull’inizio di quel processo di crisi politica che conoscerà il suo epilogo nella seconda metà del quarto secolo con la conquista da parte dell’impero macedone e con la conseguente perdita dell’indipendenza per la Grecia intera.
Da quanto abbiamo fin qui visto emerge un’importante differenza tra la concezione socratica della conoscenza e quella platonica, differenza estremamente significativa anche ai fini della nostra ricerca sul tema della verità e del suo “cammino”.
Nell’articolo del 24 Marzo 2024 sulla teoria platonica delle Idee (https://progettomontecristo.editorialedelfino.it/il-cammino-della-verita-la-teoria-platonica-delle-idee/) abbiamo visto come per Platone la conoscenza sia una forma di ricordo (anamnesi o reminiscenza). Ciò significa che essa rappresenta uno sguardo rivolto “all’indietro” e non alla ricerca o alla costruzione di qualcosa di nuovo. In altri termini, quando due uomini dialogano tra loro, a rendere possibile il loro intendersi altro non è se non il loro comune riferirsi a quelle “Idee” perfette, eterne e immutabili, che in quanto tali sono “già date una volta per tutte” e che di conseguenza rendono meno attivo e creativo il ruolo dei soggetti ricercatori.
Insomma, Platone pone l’esistenza della verità e la sua conoscenza come condizioni della possibilità del dialogo. Socrate, viceversa (abbiamo già avuto modo di evidenziarlo) pone il dialogo come condizione per la ricerca della verità. E vale la pena di notare che porre il dialogo come precondizione dell’avvicinamento alla verità comporta una concezione della verità stessa più aperta e, possiamo dire, più progressista dell’altra. Dià-logos significa infatti “discorso tra”, “ragionamento tra”, e quel “tra” denota chiaramente la dimensione corale, intersoggettiva, tipica della temperie democratica.
Un altro aspetto che sottolinea il carattere “aperto” della ricerca socratica si può individuare nel fatto che spesso i dialoghi di cui il filosofo ateniese è protagonista non hanno una conclusione univoca e definitiva, proprio a voler indicare come la ricerca della verità costituisca un cammino continuo e senza fine.
In conclusione, la figura e la vicenda di Socrate ci insegnano che la ricerca del vero ben si accompagna a quella della libertà, ma altresì si accompagna, in quanto contribuisce a renderci migliori, alla ricerca dell’eudaimonia o “buona condizione dell’animo”.
Autore: Roberto Maria Pittella
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