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Tutto nel mondo è burla (Ironia in musica)

da | 10 Dic, 24 | Arti |

“Tutto nel mondo è burla”: questa è la frase finale di “Falstaff”, l’ultima opera scritta da Giuseppe Verdi. Può essere quindi considerata una sorta di testamento, un ultimo messaggio rivolto ai posteri da parte di un autore che tanto burlesco non fu, dato che di 28 opere solo due, la prima (Il Finto Stanislao) e l’ultima si possono definire comiche. E nelle rimanenti 26, così pervase di emozioni drammatiche se non tragiche, non c’è spazio per la comicità e tanto meno per l’ironia.

Ma come si può definire l’ironia, e in cosa questo termine si differenzia da termini che possono somigliargli (sarcasmo, beffa, dileggio, spiritosaggine, motto di spirito?)

Tecnicamente, cioè attingendo ai migliori dizionari enciclopedici, l’ironia viene definita come “esprimere il contrario di ciò che si vuol significare. Ad esempio, “che mira!” (a chi colpisce lontano dal bersaglio)” (Enciclopedia Treccani, voce “ironia”)

In questo scritto, che si limita a ricercare in alcuni momenti della storia della musica l’insorgere di questa figura, intendiamo più limitatamente come ironia quell’atteggiamento di distacco nei confronti del mondo, quello sguardo disincantato, capace di decontestualizzare eventi che, visti dall’esterno, possono a volte cessare di assumere contorni drammatici e diventare, se non comici, perlomeno oggetti di sorriso.

Ironia non è mai mancanza di serietà, ma invece capacità di estraniarsi, di guardare da lontano – e in questo modo tutto può apparire più chiaro, e lo sguardo ironico può capire ancora più profondamente le cose del mondo di quando possano fare osservazioni più seriose.

Lo studioso che meglio ha saputo cogliere l’importanza dell’ironia in relazione alla musica è stato certamente Vladimir Jankélévitch, filosofo, musicologo e pianista francese nato nel 1903 da ebrei russi emigrati, e morto nel 1985. Nelle sue pubblicazioni (tra le quali L’ironie ou la bonne conscience, tradotto in italiano con titolo L’Ironia) definisce l’ironia come “L’arte di sfiorare”. Un leggero distacco che ci porta lontano il più possibile dalla pesantezza e dalla gravità.

Come non pensare, leggendo queste parole, a Leporello, allorchè, nel primo atto di Don Giovanni, si prende gioco del delirio passionale di Donna Elvira snocciolando il famoso catalogo delle conquiste del suo seduttore? È questo uno dei tanti esempi di una ironia che “combatte efficacemente quella distrazione del cuore chiamata passione”.

I personaggi che, nell’opera comica, sembrano tutti d’un pezzo, sono quelli che, per l’azione provvida dell’ironia, causano il sorriso nello spettatore. È il caso – un esempio tra i tanti – proprio di John Falstaff, che resta impettito nel suo credere di essere ancora giovane bello e desiderabile, mentre è ormai vecchio, grasso e goffo. Ben si ricorda, sir John, della sua passata avvenenza (“quando ero paggio del duca di Norfolk”), e non nega a sè stesso di essere mutato, ma, egli pensa, “in meglio”: la sua pancia, ormai enorme, diventa per lui un attributo di bellezza, quasi un simbolo di potenza sessuale.

Dal punto di vista musicale, ciò che meglio esprime l’atteggiamento ironico in questo punto dell’opera è il fraseggio brillante, lo staccato o pizzicato o puntato; il ritmo scherzante, lieve, a suggerire la leggerezza. L’ironia è sempre leggera, infatti, “tocca il pathos con gesto lieve, parla a fior di labbra e guarda a fior d’occhi”, sempre secondo le parole di Jankélévitch.

La musica medioevale e rinascimentale è assai ricca di composizioni, sia vocali che strumentali, ricche di piglio ironico e di motti di spirito, dai canti goliardici ai canti carnascialeschi. E più le costrizioni del potere – ad esempio quelle scaturite dalla controriforma – diventano strette, più il desiderio di “far Carnevale”, cioè di dipingere il mondo alla rovescia, di mettere le maschere per confondere le cose e le persone, si fa più ardente. Ma dobbiamo attendere l’epoca classica per trovare i vertici assoluti di musica pervasa da ironia, ed il campione indiscusso di questo genere è Gioacchino Rossini.

Un grande studioso di questo autore, Alberto Zedda, parlando di Cenerentola, osserva che i due innamorati “mai si incontrano soli sulla scena per scambiare un’effusione tenera, indirizzarsi una parola d’amore, intrecciare un dialogo che costruisca la reciproca intesa! L’indispensabile processo di conoscenza che conduce al matrimonio viene dunque svolto senza la presenza congiunta degli interessati, attraverso segni e atteggiamenti sparsi lungo il corso dell’opera che il pubblico riconosce, accosta, assembla e trasferisce mentalmente agli attori dell’avventura amorosa. Un modo indiretto di raccontare che sfiora l’assurdo e richiede al pubblico di partecipare creativamente attivando il meccanismo della memoria e della fantasia, partecipazione tanto più efficace e proficua quanto maggiori saranno il retroterra culturale di riferimento e la facoltà di evocare l’onirico.”

Di conseguenza, un libretto basato su una fiaba apparentemente ingenua, diventa poco alla volta una esplosione di nonsense: prendiamo ad esempio una delle frasi pronunciate dalla protagonista, Cenerentola: richiesta di presentarsi, ella canta:

“Quel ch’è padre, non è padre… onde poi le due sorelle… era vedova mia madre… ma fu madre ancor di quelle… questo padre pien d’orgoglio… (Sta a vedere che m’imbroglio.) Deh! scusate, perdonate alla mia semplicità.”

(Rossini, Cenerentola, scena quarta atto primo)

I personaggi perdono ogni verosimiglianza, diventano maschere, parti di un ingranaggio che li sovrasta e li guida, senza alcun senso apparente. Tanto che gli studiosi hanno parlato, a proposito delle opere comiche di Rossini, dell’emergenza di una “follia organizzata”.

L’ esempio più emblematico di questa “follia organizzata” di Rossini è il finale primo de L’Italiana in Algeri. Qui i personaggi cantano:

[Mustafà]
Va sossopra il mio cervello /Sbalordito in tanti imbrogli

[Elvira, Zulma, Lindoro]
Sbalordito in tanti imbrogli /Qual vascel fra l’onde e i scogli /Ei sta presso a naufragar

[Elvira]
Nella testa ho un campanello

[Isabella e Zulma]
La mia testa è un campanello

[Lindoro e Haly]
Nella testa ho un gran martello

[Taddeo]
Sono come una cornacchia

[Mustafà]
Come scoppio di cannone

[Mustafà]
Come scoppio di cannone

[Elvira]
Che suonando fa din din, din din, din din

[Lindoro e Haly]
Mi percuote e fa tac tac

[Taddeo]
Che spennata fa crà crà

[Mustafà]
La mia testa fa bum bum

[Isabella]
Din, din, din, din, din, din, din, din

[Mustafà]
Bum, bum, bum, bum, bum, bum

[Lindoro e Haly]
Tac, tac, tac, tac, tac, tac

[Taddeo]
Crà, crà, crà, crà, crà, crà

Ferraguti,_Arnaldo_(1862-1925),_Milano,_Davanti_la_porta_del_loggione_della_Scala_-_Illustrazione_Italiana,1893

Qui il testo diventa una sorta di nonsense, in cui i personaggi perdono la loro identità – ammesso che l’abbiano mai avuta – e iniziano a cantare come animali, intonando versi anziché parole compiute. Ciò che rende ulteriormente geniale questa opera è il procedimento musicale adottato da Rossini. A sostenere – ancor più che commentare – questo testo, che esprime il vacillare del senno, troviamo un procedimento compositivo di massima razionalità: un ritmo inflessibile, una sorta di motore che procede ad altissima velocità e sorregge scale, volatine, arpeggi e virtuosismi canori e strumentali.

E il ritmo, come sappiamo, è esattezza, è matematica, è razionalità! L’inesorabile scansione del ritmo, anziché suggerire ragionevolezza ai personaggi, riesce a  far perdere ad essi ogni  residuo di umanità: essi sono come travolti da questo ritmo velocissimo che procede senza tregua, e li obbliga a cantare con esso, così come nella famosa favola dei fratelli Grimm , in cui  i topolini prima e gli umani poi  sono obbligati a muoversi al suono del pifferaio magico, divenuti ormai automi privi di qualsiasi volontà e totalmente asserviti ad una potenza superiore che li sovrasta.

Incredibilmente questo procedimento, assolutamente tragico in quanto disumanizzante, provoca il riso o quantomeno il sorriso, un sorriso ironico: i personaggi agiscono al contrario di quel che si suppone dovrebbero fare. E si sorride proprio per l’assurdità, l’irrealtà della situazione: allora il mondo non viene più preso seriamente, e per questo diventa spiritoso. Anche se non manca nel fondo di tutto ciò, a volerlo ben vedere, un senso di vuoto, una assenza di contenuti e di valori: del resto era proprio Rossini a sostenere che la musica non ha alcun significato; essa è semplicemente una serie di scale, arpeggi e note in libertà.

Proprio per questo troviamo in Rossini le medesime musiche a commentare, in opere diverse, sia momenti tragici che momenti divertenti. Un esempio per tutti: il famoso Duetto buffo di due gatti, esilarante gag musicale che in genere viene eseguita come divertente bis, ha la stessa musica della drammatica aria di Rodrigo nel secondo atto di Otello (“Che ascolto? Ahimè, che dici?  Ah! Come mai non senti/ pietà de’ miei tormenti?”)

Osserva Jankélévitch: “Non si può senza posa amare ed odiare perdutamente, non ci si può appassionare per qualunque cosa: l’ironia sviluppa dapprima in noi una specie di prudenza egoista che ci rende immuni dallo strazio dell’estremismo sentimentale”.

Questa, peraltro, è l’idea portante su cui si sviluppa la poetica di Rossini. Il linguaggio viene stravolto, perde di significato e, come già osservato, si riduce a versi animaleschi: “Ombretta sdegnosa del Missisipi-pi pi- pipi, non far la sdegnosa, ma resta un po’ qui, qui qui, qui qui” (La pietra del Paragone) o ancora “padre mio- mio- mio, son pentito-tito-tito-tito-tito (Il signor Bruschino).

Di tutt’altra natura è la trilogia Mozartiana su libretti del Da Ponte, e specialmente il titolo che ha contenuti maggiormente sarcastici ed ironia più graffiante, Così fan tutte. Opera comica, che lascia però l’amaro in bocca. Alla fine – anche se non esplicitamente detto – questo il messaggio che il cinico e saggio Don Alfonso rivolge al pubblico: signori che ascoltate, credete veramente che queste storie di tradimenti riguardino solo la finzione scenica? Siete sicuri che le vostre donne siano così diverse da quelle – fedifraghe – che compaiono sulla scena? Cosa vi assicura della loro fedeltà? Risponderemmo allora forse come i due malaccorti giovani, alla domanda di Don Alfonso?

[Don Alfonso]

Orbene; udite, ma senza andare in collera: Qual prova avete voi/ che ognor costanti/ vi sian le vostre amanti;/ chi vi fe’ sicurtà/ che invariabili sono i lor cori?

[Guglielmo e Ferrando]

Lunga esperienza/Nobil educazion/ pensar sublime/ analogia d’umor/disinteresse/ immutabil carattere/promesse/ proteste/ giuramenti/…

[Don Alfonso]

…lasciatemi un po’ ridere

Ed effettivamente non si può che sorridere alla mancanza di argomenti dei due giovani. Non c’è nulla al mondo che possa assicurare “che invariabili siano” i cori di chiunque!

Così fan tutte è la commedia della menzogna e delle maschere. Tutti mentono, tutti sono essi stessi e qualcun altro, tutto è esagerato e falso – e tutto assume una comicità graffiante – Mozart è straordinario nel far dire alla musica il contrario di ciò che le parole esprimono – e le parole a loro volta esprimono il contrario di ciò che i personaggi vivono e provano. Il tono è quello della Arcadia, tono finto per eccellenza – poiché siamo in tutt’altro periodo storico.

L’allusività sessuale è molto più spinta qui che in Rossini : la finta  ingenua Fiordiligi, ad esempio, alla vista del suo nuovo corteggiatore, dice  di vedere “un aspide, un idra, un basilisco”, cioè un membro maschile che diventa sempre più imponente; la stessa metafora si troverà nella scena introduttiva delle Nozze di Figaro, in cui in apparenza Susanna misura la lunghezza della stanza e mostra a Figaro il suo bel cappellino, mentre con malizia – una attitudine che non mancava certo né a Mozart né al suo librettista Da Ponte – si può pensare che in realtà ella stia  misurando  il membro del suo promesso sposo e prometta a lui di mostrargli la sua intimità ( Il mio bel cappellino vezzoso).

Non si tratta però di una malizia sessuale a fondo gioioso: le opere comiche di Mozart – perlomeno Così fan Tutte e Don Giovanni – hanno un retrogusto cinico. Don Alfonso, filosofo, è simbolo del pensiero illuminista, o meglio di un pensiero realista “Vorrei sapere che razza di animali/ son queste vostre belle/, se han, come tutti noi/carne, ossa e pelle, / se mangian come noi, se veston gonne/ alfin, se donne son…”

Gli altri personaggi dell’opera sono invece idealisti, credono – o pensano di credere – nei “valori”, mentre l’ironista cinicamente crede a ciò che vede e a ciò che ha visto, e in questo senso Don Alfonso rappresenta il teatro di Mozart, che in questa opera si rivolge alla storia e con ironia prende in giro sè stesso; è un teatro nel teatro, una maschera di quel che fu il teatro arcadico e barocco, quasi ad anticipare la frase che dà il nome a questo scritto, “Tutto nel mondo è burla”.

Beethoven non è considerato autore capace di “divine leggerezze”: è piuttosto il testimone del passaggio dal classicismo al romanticismo, classico nelle forme ma appassionato nell’esposizione musicale. Più attento al “comunicare”, esprimere, commuovere, stordire, che non a seguire un ideale di bellezza formale, come usavano fare i suoi illustri predecessori. Le sue composizioni più celebri stanno proprio a testimoniare questi tratti: Patetica, Appassionata, Quinta sinfonia e così via. Una poetica, sembrerebbe, che quando non assume toni drammatici o tragici è comunque permeata da una seria – o seriosa – razionalità tutta tedesca, che sembra essere il corrispettivo musicale della dialettica hegeliana (L’idea è il suo sviluppo).

Ma è veramente così? Vorrei a questo punto riprendere una vecchia similitudine, grossolana finchè si vuole ma dotata di una certa verità: composizioni in modo minore = tristezza, malinconia, tragicità; composizioni in tonalità maggiore = allegria, brillantezza, gioiosità.

Ebbene, se guardiamo al catalogo delle opere beethoveniane, possiamo vedere come, di nove sinfonie, solo due (la quinta e la nona) siano in modo minore, mentre le altre sette abitano tonalità maggiori. In taluni casi, nelle sinfonie, compaiono episodi esilaranti: così come nell’inizio del finale della prima e della terza sinfonia – ma anche, a ben vedere, in molte parti dell’inno alla gioia, famosa conclusione della nona sinfonia, allorchè il tema principale subisce una modifica ritmica e timbrica sì da sembrare una marcetta militare!

Se osserviamo poi i concerti per pianoforte ed orchestra, di cinque, quattro sono maggiori – spiritosissimo il finale del primo concerto! – ed uno solo minore. Nel possente corpus delle trentadue sonate per pianoforte, troviamo la stessa proporzione tra maggiore e minore. E quante volte Beethoven gioca a fare lo spiritoso e mette nelle proprie composizioni abbondanti dosi di ironia! Si ascolti ad esempio il finale della op. 14 n.2; il tema non sembra forse una risata, seguita da uno sberleffo? E che dire dell’op. 31 n. 1, con un primo movimento fatto di accenti volutamente sbagliati, ed il secondo che è una chiara presa in giro dei gorgheggi dei cantanti?

Dopo di lui, il romanticismo: movimento incline ad esaltare il fuoco delle passioni anzichè ridimensionarle e guardarle più da lontano. In questo periodo storico non è certo facile poter ritrovare composizioni dal chiaro tratto ironico; bisognerà per questo attendere la fine del secolo, e spostarci dall’Italia di Rossini e dalla mitteleuropa di Mozart e Beethoven in terra francese, ma di questo parleremo nel prossimo articolo.

Autore: Maurizio Carnelli

Autore

  • Maurizio Carnelli, musicista e filosofo, si è diplomato al Conservatorio di Milano in pianoforte e composizione e si è laureato a pieni voti in Filosofia all’Università Statale di Milano con una tesi in estetica musicale   In veste di critico musicale e divulgatore ha ideato e condotto al microfono oltre 350 trasmissioni per le tre reti radiofoniche RAI, è stato per anni ospite televisivo di Rai 2 ed ha pubblicato numerosi volumi per la casa editrice Ricordi- Hal Leonard. Collaboratore di riviste musicali, ha inoltre pubblicato un volume su Rachmaninov, e tiene regolarmente lezioni e conferenze in centri culturali ed atenei. Dopo aver insegnato per anni alla Accademia Claudio Abbado di Milano, di cui è stato anche coordinatore, termina la sua attività didattica con la docenza alla Korean National University of Arts di Seul

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