L’asfalto dell’autostrada pareva bagnato dalla luce delle stelle, scivoloso e deserto come la pista notturna di un aeroporto. Non udivo piĆ¹ alcun rombo lontano di motore. CiĆ² mi tentĆ², con una naturalezza che sorprese anche me, ad avanzare fino al centro della carreggiata, proprio sulle strisce bianche della prima corsia. Volli provare a sedermi, poi, non incombendo su me nessun pericolo, a sdraiarmi. Il freddo e granuloso contatto del pavimento stradale, sotto la nuca e la schiena, mi fecero sentire, come prevedevo, piĆ¹ vicino al bacino delle galassie sovrastanti. Ad un tratto, riaprendo gli occhi, fui certo di galleggiare sull’oceano nero disseminato di stelle, con lāasfalto umido e pietroso portato sulle mie spalle come un mantello. Se mi fossi in quel momento staccato dalla strada, risucchiato come una foglia dal vuoto spalancato laggiĆ¹, sotto di me, fino a cadere nell’orbita di qualche astro vagante, non mi sarei stupito. I fili che mi legavano a questo suolo erano fragili e misteriosi. Un colpo di vento avrebbe potuto reciderli, ancor prima che il sopraggiungere di unāautomobile mi tranciasse le membra.
Nessuna vettura passĆ² su di me, come su una qualunque carogna di gatto. Mi fu consentito di risollevarmi e andare a spingere il furgone in avanti per un paio di metro, al sicuro del rischio del fossato, con la forza delle braccia. Alla prima pressione sulla tavola di truciolato, la bara mi scivolĆ² lentamente fra le braccia, piĆ¹ leggera di quanto pensassi.Ā La deposi accuratamente sull’asfalto. La bocca della bambina, a causa delle scosse, si era leggermente socchiusa, mostrando una sottilissima fila di dentini bianchi che non le davano piĆ¹ l’aspetto di una neonata. Indossava un abitino a sbuffo, color arancio, un paio di calze bianche alte sotto il ginocchio e due scarpine rosa, che accentuavano le sue sembianze di bambola. Al polso era allacciato un bracciale di stoffa, con una medaglietta di ottone dove non cāera scritto alcun nome. Quando la sollevai tra le mie braccia, temendo il lezzo della decomposizione, percepii al suo posto un odore fresco di sapone di Marsiglia e caramella alla frutta, che mi fece per un attimo dubitare se la bimba non fosse ancora viva, se non fosse semplicemente addormentata. Ma il suo cuore era veramente fermo, come costatai sollevandole il polso. Una glaciale bianchezza irrigidiva la sua pelle e donava alle venature azzurre del volto la purezza del marmo.
Introdussi il cadavere della bimba nella mia macchina e lo adagiai sui sedili posteriori. Accesi il motore, innestai la marcia, e ripartii, senza guardarmi indietro. Dopo un paio di chilometri mi fermai ad un telefono di emergenza. Una voce assonnata mi rispose chiedendomi immediatamente il nome e il luogo da cui chiamavo.
“Calma- dissi- Qui c’ĆØ una bambina morta. L’ho trovata in un furgone a una piazzola dell’autostrada. Era dentro una bara.”
“Le passo allora la polizia”, mi fu risposto velocemente.
Alla voce che dopo un po’ mi interpellĆ² bruscamente, come fossi un disturbatore notturno, ripetei la medesima cosa.
“Ma dov’ĆØ ora la bambina?, mi apostrofĆ² l’uomo della polizia.
“Dove vuole che sia- ribattei- E qui con me, nella macchina.”
“Ma non ha detto che era nel furgone della piazzola? Chi ce l’ha messa nella sua vettura?…”
Dissi di aver liberato io stesso il corpicino dalla sua bara, per il timore che potesse accadergli qualcosa.
“Ma lei ĆØ matto- urlĆ² l’uomo- Cosa le ĆØ saltato in mente di rimuovere il cadavere? Che cazzo puĆ² accadere a un cadavere, mi spieghi!Ā Senta, per favore, mi favorisca il suo nome e cognome. Lei ĆØ un incosciente. Mi dica dove si trova, presto…”
Riattaccai, consapevole di aver commesso probabilmente una sciocchezza, eppure dentro di me convinto oscuramente di essermi comportato come dovevo. Era vero, non riuscivo a spiegare neanche a me stesso perchƩ avessi detto di temere che la bambina rischiasse di essere preda di cani, maniaci o agenti atmosferici che ne deturpassero il corpo. Era una fantasia ingenua, ridicola. Eppure ora mi sembrava di dover strappare la bimba dalle grinfie della polizia che avevo io stesso allertato e sguinzagliato, come bracchi da caccia, sulle nostre tracce,
L’orologio al quarzo segnava ormai le quattro e mezzo. Lanciai la macchina sui centocinquanta orari dopo un lungo e assordante stridio di ruote.Ā Superai in curva un fuoristrada che mi parve quasi fermo e che mi abbagliĆ² da dietro, come a biasimarmi per la velocitĆ alla quale procedevo. Cercai allo specchietto il cadavere della piccola, ma era troppo basso sul sedile e non riuscii a inquadrarlo. Mi assicurai allora della sua presenza allungando le dita della mano libera. Incontrai il volto, liscio e freddo, e rimisi a posto la testa che ciondolava oltre il sedile. Se avessi rallentato bruscamente, il corpo della bimba si sarebbe certo rovesciato sul tappetino. Pensai allora di sistemarlo accanto a me, sul sedile anteriore, nella posizione seduta di una persona viva. Ma neanche cosƬ avrebbe conservato l’equilibrio.
Ad un tratto udii una sirena e nello stesso tempo due fari gialli lampeggiarono nel mio specchietto. Qualcuno procedeva a velocitĆ piĆ¹ alta della mia. Mi accostai mio malgrado a destra, ma la vettura che mi sorpassĆ² era quella della polizia. Una paletta rossa fu agitata oltre un finestrino. Dovetti rallentare, poichĆ© la volante della polizia mi ostruiva la corsia e intendeva obbligarmi a fermare.Ā Poi perĆ² cambiai marcia e con un guizzo improvviso mi immisi sulla corsia di sinistra, accelerai e ripartii a gran velocitĆ . Era una mossa disperata, perchĆ© la potente vettura della polizia mi avrebbe raggiunto in pochi secondi. Tuttavia continuai a schiacciare l’acceleratore, tenendo fisso lo sguardo sul nastro bianco della carreggiata, davanti a me. I fari della volante mi si incollarono allo specchietto e iniziarono a ingrandirsi. L’ululato della sirena si gonfiava dietro di me, incalzando senza tregua. Il tachimetro segnava centosessanta orari e lo sterzo mi tremava fra le dita. Sentii un tonfo sordo, ed era il cadavere della bambina scivolato sul tappetino. Non avevo il tempo di badare alla piccola, ora, e continuai a tenere schiacciato il piede sull’acceleratore, divorando la pista dāasfalto che pareva precipitami addosso.
Fu nel momento in cui chiusi gli occhi, abbagliato dal riflesso d’incendio dei fari della polizia sul mio specchietto, quando ormai attendevo solo l’urto dei parafanghi della volante contro la mia vettura, tallonata a distanza di una ventina di metri, che una folata di vento passĆ² sotto le mie ruote anteriori e le sollevĆ² come le zampe di un cavallo. Temetti di inclinarmi da una parte e cappottarmi. Ben presto perĆ² mi accorsi che nemmeno le ruote posteriori toccavano piĆ¹ l’asfalto e che la strada cominciava ad affondare verso il basso, a retrocedere e a rimpicciolire sotto di me. La volante della polizia mi scivolĆ² sotto gli occhi, sfrecciando qualche centinaio di metri in avanti sulla strada. Poi si arrestĆ² di colpo e ne uscirono due uomini in divisa che dapprima si guardarono attorno, disorientati, poi sollevarono gli occhi verso l’alto, nella mia direzione. Uno mi indicĆ² con il braccio puntato, l’altro mise mano alla pistola rinchiusa nel fodero. Sentii fischiare dei proiettili. Una gomma probabilmente fu forata, ma non mi importava.Ā Anche uno dei due fanali andĆ² in pezzi, ma la sua luce stranamente continuĆ² a indorare le volute di nebbia che man mano si frapponevano fra me e la strada.
Provai ad abbandonare il volante per risistemare la bambina sui sedili posteriori, ma mentre mi torcevo la vettura ruotĆ² prima su se stessa, poi cominciĆ² a capovolgersi, senza diminuire la sua velocitĆ , attraverso le folate di nebbia.Ā Mi ritrovai sdraiato sotto il tetto della macchina rovesciata, e il cadavere della bambina scivolĆ² addosso. Ebbi per un istante la sensazione che la bambina mi stringesse al collo con le sue gelide braccia, e quando tentai di districarmi, avvertii come una resistenza nelle sue piccole gambe avvinghiate a me. Nello sforzo di liberarmi da quella pressione e rimettermi seduto in qualche modo, le labbra della bimba si posarono sulla mia guancia, appena socchiuse, lasciandovi un’impronta fredda, ma umida e nel contempo morbida, che mi fece rabbrividire.
La portiera della macchina, quella dalla parte dellāautista, si spalancĆ² di colpo e una folata di nebbia penetrĆ², immergendoci in una nuvola intrisa di umiditĆ . Udii un urlo di sirena che si allontanava. Cercai di tenermi lontano dalla portiera aperta per non precipitare, e d’istinto strinsi tra le braccia il corpicino della bimba che a sua volta pareva aggrapparsi tenacemente a me, unico sostegno nel vuoto pauroso che ormai ci risucchiava.Ā Sentii come spari di cacciatori nella nebbia. Poi le luci caddero di colpo, i fanali si spensero e un vento intriso di gelido vapore cominciĆ² a fischiare intorno a noi, nel buio piĆ¹ completo. La velocitĆ alla quale viaggiavamo, come in una navicella priva di direzione, era ancora altissima, e rendeva piĆ¹ taglienti le sferzate del vento che ci flagellavano. Stringevo fra le mie dita i polpacci scoperti della bimba, la cui gonnellina rovesciata mi sbatteva sul viso emanando un profumo di fragole e di menta. Oramai la abbracciavo con una intensitĆ disperata, come temessi di vederla sgusciare via dalla portiera aperta e dileguarsi nel vento.
Gelavo, e non avrei potuto resistere a lungo. Nel tremito dei denti, rotolando insieme alla vettura, mi morsi la lingua. Un vento polare mi penetrava negli abiti e nelle ossa. Se urlavo, la nebbia mi scorreva nella gola e pietrificava nel gelo le mie gengive. Un ululato crescente mi serrava i timpani. Forse lo schianto sarebbe venuto, forse non sarebbe arrivato mai. Non sentivo piĆ¹ neanche la lamiera della macchina sostenere la mia schiena. Stringevo i polpacci della bimba fra le dita serrate e non sapevo cos’altro fare.
Quando percepii il martellare del sangue sui polpastrelli delle dita, pensai fosse il mio cuore ormai impazzito nel precipizio di questo ultimo probabile volo.Ā Ma non era il mio cuore. Il polso, come potei costatare, mi pulsava a un ritmo diverso. Allora strinsi alla gola il cadavere della bambina, e chiusi gli occhi, nel gelo, per sentire meglio. Una musica diversa si incrociava a quella del mio sangue, una cadenza diversa, la flebile pulsazione della gola di un pulcino. Non seppi resistere e mi gettai contro la bocca della bimba, aprendola con due mani e gonfiandola di tutto il respiro di cui i miei polmoni erano capaci. Soffiai con l’intera forza residua di cui disponevo, fino a farmi venire le lacrime agli occhi. Mi ritrovai a rotolare con lei, col ginocchio affondato nel suo piccolo petto da passerotto. Mi pareva di udire mescolarsi al soffio disperato del mio respiro, schianti di trochi dāalbero nel vento, lamenti lunghi di sirene e strida umane. Un rantolo metallico usciva dalla gola aperta della bambina.
Ora stavamo precipitando, ne ero sicuro, sprofondavamo come animali gettati da una rupe o piloti senza paracadute, allacciati l’uno all’altra fra fischi, tonfi, scricchiolii d’ossa, ansiti, e non c’era piĆ¹ macchina a contenerci, non vi erano sedili, lamiere, solo nugoli di nebbia fluttuante che si aprivano inghiottendoci e lasciandoci passare mentre cadevamo. E io continuavo a strattonare il cadavere della bimba, soffiandole nella gola, schiacciandole lo sterno, scuotendole le membra, urlando con la bocca impastata dal gelo, perchĆ© credevo ormai che solo da lei, da quella piccola salma di donna, sarebbe dipeso se evitare lo schianto o meno. GiĆ vedevo lāalveo nero dell’asfalto e le strisce bianche che scorrevano al centro della carreggiata. Solo qualche chilometro ormai, divideva la mia povera carcassa d’uomo dalla strada di sempre, la strada dei ritorni nella casa di sempre. Poi nel fragore del vento credetti di percepire, a pochi millimetri dal mio orecchio, un tintinnio di parole appena sussurrate, sottili come il pigolio di un pulcino.
“Piano- mormorarono le labbra della bimba-, ora puoi andare anche un poā piĆ¹ piano. Siamo quasi arrivati.
Vidi l’asfalto riaccogliere le nostre quattro ruote, sofficemente, e poi aprirsi sotto di noi, proprio nella corsia piĆ¹ centrale. Oltre, giĆ¹ in fondo, si spalancava unāaltra voragine, una notte pura e serena crivellata da luci tonde come chicchi di grandine. E riconobbi il mio antico cielo contro cui non potevo piĆ¹ dilaniarmi.
Aprii cautamente la porta della camera. Silvana dormiva, con un braccio abbandonato sul lenzuolo accanto al ricevitore staccato che mandava il suo monotono segnale. Il lume sul comodino era acceso e faceva brillare la sua fronte ancora madida di sudore. Dalle tendine della portafinestra filtrava il debole chiarore dell’alba. Invitai la bambina ad avanzare verso il letto e ad infilarsi sotto il piumone, tra me e mia moglie. Ci sdraiammo l’uno accanto all’altra vestiti come eravamo, trattenendo il respiro. Allungai una mano per schiacciare la peretta del lume. Il buio che seguƬ non era piĆ¹ quello della notte.
La bambina si teneva avvinghiata a me, tremando leggermente e ansimando tra i miei capelli.
“Come si chiama la tua donna?”, mi sussurrĆ² all’orecchio.
“Silvana”, risposi.
“E’ un bel nome- commentĆ² la bimba- Ma mi accetterĆ quando sarĆ sveglia?”
“Sono sicuro di sƬ”, le garantii.
“Non mi considererĆ un’intrusa, quando mi vedrĆ nel suo letto?”
“Stai tranquilla. SarĆ la piĆ¹ bella delle sorprese.”
Intanto pensavo, stringendo il corpo della bimba, che chi mi parlava non era piĆ¹ una neonata, non poteva esserlo, che il suo alito vicinissimo alla mia bocca non era quello di una lattante, ma di una piccola donna che prodigiosamente cresceva e si sviluppava tra le mie braccia. Tesi le mani oltre il suo corpo per sfiorare quello di mia moglie, che respirava senza rumore. Ora potevo addormentarmi accanto a lei e all’essere che si frapponeva tra noi due, gettando come un ponte tra i nostri cuori. Ora avrei potuto dirle, quando si fosse voltata verso di me urtandomi, che dalla mia lunga avventura in autostrada non ero tornato solo.
“Ti ho portato qualcuno- le avrei detto- che ti indurrĆ a perdonarmi l’angoscia di queste ore, e che costituisce l’alibi, vedi, del mio incredibile ritardo.”
Il sonno man mano mi vinceva. Intravedevo l’alba, fra le palpebre, filtrare come tra steli d’erba carbonizzati e perforare lentamente la mia notte, fino ad eroderla, a prosciugarla nella luce di sempre. Stringevo le mie dita attorno a qualcuno, a qualcuno che pian piano si disfaceva, si scioglieva come una bambola di cera. Mi imponevo di resistere, di non abbandonarmi e lasciarmi fluire via dalle mani questo dono di carne che la notte aveva scagliato su di me come un meteorite e che avrei voluto mostrare alla mia donna, tra poco, tra qualche minuto forse. Ma sentivo che la luce, come acido corrosivo, avanzava tra le mie lenzuola e trasformava in grumi di nostalgia quello che prima, appena poco prima, era stato il corpo di un angelo addormentato accanto a me. Annaspavo oramai con le mani per raccogliere i brandelli di notte alla deriva ed udire magari il pigolio di una parola dettata dalla solitudine al mio orecchio. Mi giungeva invece solo il tubare del ricevitore staccato e il barbaglio ormai violento dell’aurora.
Udii mille sveglie lacerare l’una dopo l’altra, come trombe di caserma, le ultime illusioni della notte. Poi, sotto gli occhi di mia moglie che mi fissava sbalordita, in piedi, sulla sponda del letto, indugiai a osservare le mie stesse mani, stranamente incrociate sul petto, come a stringere qualcosa e al tempo stesso a chiederle scusa, a pregarla di perdonarmi. Non avevo alibi, non avevo giustificazioni di sorta. Il baratro da cui riaffioravo aveva inghiottito anche il ricordo di ciĆ² che avrei voluto dirle, di quanto avrei voluto donarle.
Il sogno dell’automobilista – parte 1 di 4
Il sogno dell’automobilista – parte 2 di 4
Il sogno dell’automobilista – parte 3 di 4
Autore: Roberto Caracci
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